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Little Sister di Hirokazu Koreeda

«Riconoscere la bellezza nelle cose rende felici».

Magnifico. Una sublime poesia recitata con sentimento e girata con garbo.

Le tre sorelle Kohda vivono insieme nella grande casa lasciata loro dai nonni nella città di Kamakura, abituate a cavarsela da sole senza l’aiuto dei genitori, divorziati ormai da oltre 15 anni. Al funerale del padre, Sachi, Yoshino e Chika conoscono la sorellastra adolescente, Suzu. Immediatamente conquistate dalla ragazza, ormai completamente orfana, la invitano a vivere con loro. Con inaspettato entusiasmo, per le quattro sorelle, inizia una nuova vita fatta di scoperte, di sentimenti spezzati e legami indissolubili.

Una storia emozionante che mette in scena una vita quotidiana semplice, in cui non accade chissà cosa ma che è parallelamente fatta di avvenimenti e sentimenti complessi, eternamente unici come unica è la nostra esistenza, attraverso i quali si forma, nel tempo, una famiglia moderna legata ai ricordi e alla tradizione ma profondamente distaccata dal passato, ben lontano dai silenzi di un maestro come Yasujiro Ozu. Quello portato al cinema da Little sister, è un Giappone moderno, che cerca la sua personale strada tra la nostalgia e l’eternità del passato e il bisogno di apertura verso l’emancipazione sentimentale d’oltreoceano. Anche la sceneggiatura è in splendido equilibrio tra la modalità comunicativa occidentale, fatta di numerosi dialoghi, e gli immancabili silenzi introspettivi, tipici del cinema tradizionale giapponese.

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Presentato all’edizione 2015 del Festival di Cannes, Little Sister, il nuovo film di Hirokazu Koreeda è la trasposizione live action del manga capolavoro di Akimi Yoshida, Umimachi Diary, ovvero “Diario di una città di mare”, vincitore del prestigioso Premio Taisho nel 2013, dell’Excellence Prize al Japan Media Arts Festival Award del 2007 e classificatosi terzo alla 12^ e secondo alla 13^ edizione dell’ambitissimo Premio Osamu Tezuka. Lo shoujo, fiore all’occhiello della famosissima casa editrice Shogakukan è, in realtà, un crossover che fa riferimento ad un precedente manga della stessa autrice, Lover’s kiss, miniserie in 2 volumi del 1995, anch’esso trasposto in un film live action nel 2003.

Akimi Yoshida è una mangaka dal tratto semplice ma dalle storie decisamente complesse, come si può riscontrare visionando Banana Fish, l’unica sua opera per ora edita in Italia, e il regista Koreeda sembra aver voluto mantenere questo contrasto tra la complessità dei sentimenti e la semplicità visiva attraverso una fotografia semplice, che rimane ad una distanza oggettiva, che non eccede in virtuosismi, che lascia che a narrare siano i gesti dei personaggi. A generare le emozioni sono, infatti, le azioni, semplici, ma non per questo meno significative di tante parole, e sottolineate stilisticamente da lente e millimetriche carrellate, che coinvolgono il pubblico nelle vicende, senza dover ricorrere ad uso eccessivo di piani ravvicinati, una tecnica di captatio benevolentiae tanto abusata, purtroppo, dal nostro cinema.

I personaggi, anche quelli minori, sono ben caratterizzati, contribuendo a costruire un’opera corale che racconta la quotidianità del Giappone contemporaneo con uno stile che ricorda in parte le atmosfere di Maison Ikkoku, il manga capolavoro di Rumiko Takahashi ma molto di più lo stile narrativo delle opere di Mitsuru Adachi, come risulta evidente confrontando le protagoniste di Little sister con le quattro sorelle di Cross game, diverse in tutto e per tutto ma unite a formare un fortunato nucleo familiare, simboleggiato allegoricamente da un quadrifoglio, emblema del loro locale.

Nel film di Koreeda, inoltre, è presente una notevole ricorrenza del numero 4. Oltre alle stagioni che si alternano, si notano i quattro elementi a cui sono riconducibili le quattro sorelle e i loro caratteri differenti, secondo uno schema che vede Sachi, la primogenita, 29nne, seria, affidabile, severa, vivere distaccata, nell’aria, reprimendo le emozioni e chiudendosi al dialogo con “gli adulti che portano via l’infanzia”; al fuoco, invece, può essere ricondotta la passionale ed esuberante 22nne Yoshino, che cambia lavoro tanto spesso quanto beve per dimenticare le delusioni amorose; Chika, 19nne estremamente spensierata, rappresenta l’anima candida della famiglia ed è delle quattro quella che rende più evidente il suo legame con l’acqua attraverso l’hobby per la pesca e un desiderio di contatto con le onde in riva al mare; infine, l’outsider, Suzu, 13nne timida e inibita perché cresciuta troppo in fretta a causa della morte della madre e della successiva lunga malattia del padre, può essere collegata alla terra, l’elemento che racchiude in sé i tre regni, vegetale, animale e minerale, in cui la ragazza si trova perfettamente a suo agio, l’elemento aggregativo per eccellenza, il vero fulcro del legame familiare, proprio lei, sola al mondo e in teoria priva di elementi di contatto con il resto del «dormitorio femminile».

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«I personaggi principali del film sono quattro sorelle, è vero, ma non c’è solo questo!», conferma il regista, «È anche la storia di una città e dello scorrere del tempo, giorno dopo giorno. Come l’alternarsi delle maree sulle sue spiagge, la città resta essenzialmente immutabile, nonostante il flusso di arrivi e partenze dei suoi abitanti: come Suzu, per esempio, la signora Ninomiya o il fidanzato di Sachi».

Personaggi, bisogna aggiungere, che rimangono ben impressi nel cuore insieme alla bellissima partitura musicale di Yoko Kanno, puntuale ma mai prevaricante, una musica funzionale, che commenta e sottolinea i sentimenti e rafforza le emozioni senza prendere mai il sopravvento.

Musica, regia, fotografia, dialoghi, tutto risulta misurato, ben dosato, preciso e discreto come è naturale che sia nella cultura nipponica, di cui logicamente il film è generosamente permeato. Immancabile il passaggio sotto i sakura in fiore, ormai un cliché universale, ma è certo inusuale trovare un vasto campionario di elementi, peraltro poco traducibili, in una pellicola di prospettive internazionali: per citarne uno, forse il più significativo per il film, “shoganai” significa accettare che qualcosa sia fuori dal nostro controllo e, perciò, andare avanti senza sensi di colpa e rimpianti.

Il film dà ampio spazio alla natura: Kamakura non è molto lontana da Tokyo, ma in Little sister non troverete inquadrature di grattaceli, né enormi caseggiati, piuttosto case di legno, stradine di provincia dove gli abitanti si spostano a piedi o al massimo in bicicletta. ma anche alla ritualità del mangiare, della cucina e degli alcolici. In questo caso è la ricetta di famiglia del liquore di prugne a svolgere la funzione di elemento di aggregazione e, allo stesso tempo di elemento comico antitradizionalista: se una donna che beve sorprende il giapponese, figuriamoci una donna ubriaca!

Significativa, a questo proposito, anche la massiccia presenza di personaggi femminili, altra scelta il cui anticonformismo s’intuisce da una massima, dell’anziana zia, che sembra uscire direttamente dalla penna di Oscar Wilde: «Il valore di una donna è pari alla quantità dei suoi segreti», sentenza smentita dall’evidente armonia degli opposti presente in questa speciale e bellissima famiglia face-to-face.

I temi della morte, dell’infanzia rubata, della ritualità dei gesti, della ricerca della felicità, del ricordo come elemento principe che fa superare momenti difficili e che fa elevare lo spirito, che consola e permette quasi di librarsi in aria privi di pesi come Peter Pan, sono tutti temi ricorrenti nella filmografia di Hirokazu Koreeda, che gli è valsa 37 premi su 47 nomination ricevute, trattati, però, in quest’opera, con estrema delicatezza, quasi a voler lasciare intimità ai personaggi. Come se fosse la trasposizione cinematografica di un insegnamento buddhista o di un precetto zen, Little sister fornisce la sua personale riflessione sul significato dell’esistenza che scorre complessa ma inesorabilmente leggiadra tra doveri familiari, crisi lavorative, tradimenti e abbandoni, rimpianti e rabbia, senza dimenticare che, però, è l’amore il vero motore della vita e che bisogna avere il coraggio di operare delle scelte, perché «se nessun dio vuole farlo, dobbiamo pensarci noi!».

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Cast d’eccellenza e specializzato in live action movie di manga e anime e doppiaggio. Sachi è Haruka Ayase (Rookies, Guardian of the Spirit, Hotaru no Hikari), Yoshino è Masami Nagasawa (Touch, Rough, I am a Hero, The Crossing di John Woo), Suzu è interpretata da Suzu Hirose (Crows Explode, Chihayafuru, Anger, Your lie in April) e Kaho (Gamera the brave, Otomen, Puzzle) interpreta Chika. Kirin Kiki, apprezzata protagonista de Le ricette della signora Toku, ha qui un ruolo secondario, ma è una certezza per il regista che l’ha voluta ancora nel suo prossimo family drama Umi yori mo mada fukaku (letteralmente “ancora più profondo del mare”), il quarto insieme, dopo I wish, Like father like son e questo splendido Little sister.

Nelle sale italiane dal 1° gennaio 2016 Little Sister, vincitore del San Sebastián International Film Festival, passa praticamente inosservato, scontrandosi con i classici appuntamenti nostrani delle festività natalizie. Si tratta, invece, di una storia toccante che racconta la vita, con sofisticato realismo e sottile poesia. Una film che affascina e tiene in sospeso lo spettatore dall’inizio alla fine.

Le anime sensibili e i veri romantici non possono di certo lasciarselo sfuggire!