Il Blackmarket di Roma ha accolto lo scorso autunno nella mostra ConTatto Onirico le creature sinuose e crepitanti di Caterina Stillitano, che continua incessantemente a sperimentare il contatto con la materia, creando e ricreando opere d’arte e costumi di scena senza distogliere lo sguardo dalla natura e dai misteri dell’animo umano.
ConTatto Onirico è la testimonianza di un percorso artistico variegato, di continua sperimentazione di forme e materiali, in cui costumi teatrali di colla e cotone trovano posto accanto a sculture e bozzetti creati con i materiali della natura. Come è iniziata questa esperienza?
La mostra contiene sculture, foto e costumi. Le sculture sono nate come prototipi di costumi teatrali. Durante l’accademia infatti costruivo manichini di argilla al posto dei bozzetti e poi li rivestivo. In seguito hanno assunto un valore proprio e sono diventati la base su cui sperimentare diversi materiali e, sperimentando nel piccolo materiali da riprodurre su scala più grande, alcui di questi si sono trasformati in costumi reali. Anche il costume di colla e ovatta nasce dalle sperimentazioni fatte sul piccolo. Questo impasto è facilmente plasmabile quando è liquido poi, quando si solidifica, crea un gioco di trasparenze che ricorda la cera. Riflettendo sulle forme rigide di questo costume, mi sono inoltre resa conto che mi riporta indietro con la memoria al busto che indossavo da bambina e a un periodo in cui ho sofferto tantissimo all’idea di aver perso la flessibilità della schiena.
In tutte queste opere d’arte si fondono forme e stili diversi, ma il denominatore comune resta il contatto palpabile con la materia, che esprime un rapporto viscerale tra l’artista e le sue creazioni. L’atto di plasmare la materia può essere considerato un atto catartico?
Spesso ci si chiede cosa sia l’opera d’arte. Per me l’opera d’arte non si limita alla scultura in sé, ma estende all’insieme delle emozioni e delle sensazioni che sento quando entro in contatto con la materia. È la testimonianza di un gesto difficile da descrivere a parole, di qualcosa che parte da dentro. La cosa singolare è che in tutte le mie creazioni manipolo la materia nonostante abbia avuto per anni un problema di contatto con gli oggetti.
Una delle sculture è stata costruita con “Elementi di arbusto di Capo Rizzuto”. Può essere considerata un ritorno alle origini?
Ho un bellissimo ricordo legato a questa scultura. Nel mese di settembre uscivo in bicicletta di mattina presto per cercare materia da utilizzare. La natura mi ispira sempre molto. Anche per creare il costume di Circe, che indosso nel corso della mostra, ho fotografato le cortecce dei diversi alberi e alcune rocce. Mi piacciono le forme plastiche con punti di luce e di ombra e cerco di ricrearle nelle mie opere. La mia terra mi ha sempre ispirato, così come le mie origini familiari. Decisiva è stata la figura di mio padre, che era creativo e amava scombinare delle cose per crearne altre. Era un operaio e lavorava per una ditta di acquedotti, così un giorno ha portato a casa dei tubi di plastica di varie dimensioni e li ha trasformati in un portapenne, che io in seguito ho dipinto. Lui mi ha insegnato a trasformare le cose in altro. Mi piace osservare le cose della natura, gli alberi, le forme che disegna la terra arida, le foglie secche, le trame dei tessuti e anche le straordinarie combinazioni di colori che sono in grado di formare gli alimenti come il cacao che, mescolato con la colla, crea degli effetti cromatici inaspettati.
La mostra, così come tutta l’attività artistica, non si limita alla creazione di costumi e sculture ma si estende alla performance in cui i costumi prendono vita sul corpo dell’artista. Come è avvenuto l’incontro con il teatro?
La prima volta che sono andata in scena è stata quattro anni fa, durante il laboratorio teatrale di un centro diurno a cui mi sono avvicinata a scopo terapeutico. Da questo momento in poi ho acquisito gradualmente consapevolezza di me e del fatto che si trattasse di un lavoro serio e importante, ma soprattutto stimolante. Mi sono resa conto che mi piaceva stare in scena, anche se di solito non amo essere osservata, perché ho imparato a considerarla un luogo altro, un’altra dimensione. Inoltre molte cose, che per il mio problema di contatto non riuscivo a toccare nel quotidiano, diventavano accessibili sulla scena. Non perché fingessi, ma perché lì percepivo un’energia diversa. Sono stata in questo laboratorio per quattro anni. Durante l’attività di laboratorio, in una prima fase si lavorava insieme, mentre in un’altra si parlava di quello che si vedeva in scena, e ho sempre trovato tutto questo molto stimolante. Quando ho organizzato questa mostra avevo lasciato il laboratorio da sei mesi e da allora non ero più andata in scena. Durante la mia performance al Blackmarket, ho ricordato quel senso di piacere che mi dava la scena e ho capito che avrei potuto riprendere il lavoro sul corpo anche senza il gruppo, andando in una direzione diversa. In scena non c’era più il mio corpo insieme ad altri corpi, ma il mio corpo e la materia che avevo plasmato. Da qui ho iniziato a lavorare con oggetti creati da me, creando un’opera completa in sé stessa a partire dal costume che da elemento di scena diventa un’installazione indipendente. All’aspetto visivo il costume unisce l’aspetto sonoro, e questa è una parte della performance che mi affascina molto. Per esempio il costume di Circe, fatto principalmente di carta, produce uno straordinario scricchiolio mentre lo indosso.
La performance inizia con l’apertura delle scatole che inaugurano il percorso della mostra. Hanno un significato specifico?
Le scatole della mostra sono state tutte realizzate da me e durante la performance le apro per tirare fuori le statuette una alla volta. Sono state realizzate con i materiali più disparati, dalla stoffa al cartoncino, ma una delle scatole è stata realizzata con un collage di un mio diario scritto a penna. Ci sono parti leggibili e illegibili, che ricostruiscono la mia memoria, la mia esperienza teatrale e il disturbo sul contatto raccontando qualcosa di me. Ora sto costruendo una scatola con i miei ricordi dell’infanzia. Questo tipo di lavoro è piuttosto complesso perché mette in campo lo sforzo di ricordare, la scrittura e costruzione della scatola. Questa nuova creazione sarà un dono, quindi sto per affidare questi ricordi a una persona molto speciale. Ho realizzato scatole come queste anche in un laboratorio con gli anziani, in cui ognuno aveva il compito di raccontare un proprio ricordo e di imprimerlo sulla scatola. Il risultato è stato un collage di ricordi e di scritture diverse, che ha dato vita a un’incredibile opera d’arte. La scrittura è un segno personale in se stessa e per me è un pretesto per mettere su carta il mio passato fissandolo nella memoria, oltre ad essere una forma artistica di cui ho scoperto di recente l’enorme potenziale.
A ConTatto Onirico sono seguite altre performance realizzate per i bambini. Come è stato rapportarsi ad un pubblico che potrebbe essere definito “innocente” rispetto all’esperienza teatrale?
Le Mie Mani Magiche è stato per me un lavoro importantissimo perché era rivolto a un pubblico di bambini che rispecchia l’idea originaria di pubblico. Non avevo mai sentito un contatto tanto intenso con gli spettatori. Questo è un pubblico che parla e interagisce con l’artista creando energia. È innocente nel senso che non sta lì a fare elucubrazioni sullo spettacolo, ma lo prende per quello che è. Naturalmente questo tipo di approccio è rischioso perché i bambini non hanno un filtro inibitorio e si annoiano facilmente. La mattina dello spettacolo provando in camera mia temevo che lo avrebbero trovato noioso e che non mi avrebbero seguito, invece davanti ai bambini lo spettacolo è diventato altro e loro stessi ne hanno fatto parte.
L’ultimo progetto, L’abito d’oro, nasce dalla collaborazione con la marionettista Antonia D’Amore. Come è nata questa idea?
A maggio in occasione di uno spettacolo di Quinto Fabriziani su l’Ulisse di Joyce ho conosciuto Antonia D’amore. Lei è marionettista e musicista e, unendo le nostre competenze, abbiamo realizzato una marionetta materica, che si indossa come una seconda pelle distaccata dal corpo. Dopo aver assistito allo spettacolo, una persona mi si è avvicinata e mi ha detto che questo lavoro le aveva ricordato un rituale perpetrato in onore di Xipe-Totec, la divinità azteca della rinascita, che rappresenta il passaggio dalla vita alla morte e viceversa, spogliandosi della pelle per dare nutrimento all’umanità, come il seme del mais che abbandona il suo involucro per poter germogliare. Durante il rituale venivano organizzati dei combattimenti tra gli schiavi in cui il vincitore doveva indossare la pelle dello sconfitto scarnificato dipinta di giallo oro: l’abito d’oro appunto. Non conoscevamo questo rituale e non l’abbiamo riproposto di proposito, ma questa storia mi ha fatto riflettere sul concetto di “inconscio collettivo”, perché abbiamo riproposto inconsapevolmente un rito antico che aveva luogo in altro continente. Questo è uno dei misteri dell’essere umano. Da qui è nato lo studio su L’abito d’oro e il sodalizio con Antonia D’Amore, con cui abbiamo creato il gruppo Anche, nato dalla contrazione dei nostri nomi, da una congiunzione che esprime possibilità infinite, e dal nome della parte anatomica che unisce le due parti del corpo. Questa congiunzione tra competenze diverse mira a una Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale che si realizza interamente sulla scena e fruisce esclusivamente dei materiali di cui è composta, ricucendo attraverso la performance artistica la frattura del nostro venire al mondo, spogliandosi degli abiti in cui ci ha costretto la società e ritrovando l’unità con le forze della natura che ci avvolgevano prima della nascita, prima della separazione originaria.