Daniel Clowes

Wilson, di Craig Johnson

Là, in quelle solitudini infinite, lui, eremita contumace, aveva imparato a stimare la compagnia degli esseri umani, aveva compreso i cani sempre ansiosi della presenza del padrone, aveva scoperto che l’altro è una forma di nutrimento, che l’uomo senza l’uomo muore di fame spirituale.

(A. Jodorowsky, Quando Teresa si arrabbiò con Dio).

Wilson (Woody Harrelson) è un uomo che ha fame di dialogo, sete di umanità e un intenso bisogno del prossimo. Eppure, proprio lui, è costretto a convivere con un assordante silenzio: non un saluto da parte del padre – neanche in punto di morte – né una parola da parte dell’ex moglie, scomparsa da anni. Così, WIlson si ritrova completamente solo, fatta eccezione per la cagnolina Pepper e alcuni sconosciuti, con cui intreccia bizzarri rapporti momentanei. Cinico, diretto, onesto – ai limiti del tollerabile – il protagonista porta avanti una crociata contro il mondo, armato di un disarmante ottimismo, con cui si prende gioco del denaro, del successo e di tutto quello che è il sogno americano.

Wilson, distribuito nelle sale italiane a partire dal 20 aprile, è la trasposizione cinematografica del fumetto di Daniel Clowes pubblicato nel 2010. Nel cast, oltre a Harrelson, una bravissima Laura Dern (Pippi, l’ex moglie) e Judy Greer (Shelly) due volti noti (anche) grazie al franchise di Jurassic Park. In un cammeo, anche Mary Lynn Rajskub, attrice feticcio di Xavier Dolan.

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Woody Harrelson interpreta il classico outsider americano, un personaggio che ben si troverebbe davanti a una birra con Jeffrey Lebowski o con Edwin Hoover, il nonno di Little Miss Sunshine. Dall’alto della sua condizione di emarginato, guarda il resto del mondo con una prospettiva del tutto lucida, priva di retorica. Come un filosofo che ha squarciato il Velo di Maya dei sobborghi statunitensi, si sforza di mostrare a chiunque la verità, e – proprio come un filosofo – è scacciato e sbeffeggiato. Ma lui non si arrende, ama la vita e le sue innumerevoli sorprese e rinfranca il suo spirito di fronte a ogni nuova variabile – positiva o negativa – della sua esistenza. Così, si lascia attraversare dall’abbandono, dal tradimento, dalla perdita e rivolge lo sguardo a quel bright side of life, tanto predicato e quasi mai davvero apprezzato.

Una bella iniezione di positività, insomma, efficace proprio perché rifugge qualsiasi morale. Al contrario, il modello familiare a cui Wilson (sia il film che il personaggio) rivolge attenzione, è il più sconclusionato e improbabile di sempre. Sia la moglie Pippi che la figlia Claire (Isabelle Amara) sono così tanto al di fuori dal cliché, che falliscono ripetutamente nell’unico compito che spetterebbe loro: amarlo.

La profonda indagine sull’individuo e il suo contesto, propria di Wilson, rende la visione di questo film un appuntamento che sarebbe un peccato perdere, un piccolo vademecum – ben scritto e ben interpretato –  su come non perdere mai il nostro amore verso l’umanità.

Patience, di Daniel Clowes

Patience è l’ultima fatica di Daniel Clowes, autore americano già conosciuto per le famose graphic novel precedentemente pubblicate in Italia da Coconino Press: Wilson e Ghost World. In questa storia Clowes riversa tutto il suo spirito visionario e delirante per trasformare una storia d’amore in un viaggio atemporale, di crescita e formazione personale. Perché Patience è questo, una storia d’amore incondizionato e devoto, che l’autore dedica a sua moglie Erika, interpretando la parte di Jack Barlow.

La vicenda di Jack e sua moglie Patience si apre con l’annuncio di una nuova vita: i due giovani coniugi scoprono di aspettare un figlio e vogliono far in modo di regalare al bambino una realtà diversa da quella squallida e sporca che stanno vivendo. Patience però sarà uccisa e sarà proprio la sua morte a dare il “la” a Jack, trasformandolo da distributore di volantini in viaggiatore del tempo, al fine di scoprire l’identità dell’assassino.

Non fatevi ingannare dalle premesse, Patience non è una storia di fantascienza ma una vicenda umana, ambientata tra epoche diverse tuttavia uguali tra loro. I colori usati da Clowes per ritrarre persone e architetture sono completamente sfasati, sbagliati, spaesanti, espediente che aiuta a farci osservare il mondo come lo vede Jack, che vive ormai la sua vita come fosse un interminabile trip psichedelico. Un incubo da cui Jack non può svegliarsi, in cui è lui stesso a ricalcare le orme del suo destino.

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Il protagonista si interrogherà sulle sue azioni, condividendo lo stesso scetticismo che qualsiasi lettore (già sazio di storie che parlano di viaggi nel tempo) potrebbe nutrire: sarà vero che incontrando me stesso creerei un vortice di anti-materia? Potrebbe essere che secondo i paradossi temporali le mie azioni siano già state compiute? E se il destino fosse già scritto?

“Riuscirò a cambiare in meglio la mia vita e quella della persona che amo?”

Lo svolgimento della trama è altalenante, a volte tremendamente statico nei passaggi più introspettivi e a volte sincopato, per ricalcare la confusione psicofisica di Jack. Ma il finale è appagante, per nulla scontato. Se all’inizio vi sembrerà che il mondo-spazzatura di Jack e Patience sia un pozzo di tristezza da cui non è possibile uscire, piano piano vi accorgerete di quanto vivere quella realtà sia stato importante per Jack. E potrete accompagnarlo con pazienza nel suo viaggio, sperando anche voi che l’incubo finisca prima possibile.