Daniele Salvo

Venere e Adone, di Daniele Salvo

Londra, 1593, anno nero come la peste che la dilania. I teatri sono chiusi e c’è il divieto assoluto di assembrarsi, ma l’immobilità degli individui non corrisponde a quella del loro genio creativo. Il teatro vive e freme nella penna dei suoi autori, e nuove idee scalpitano desiderose di incarnarsi sulla scena. William Shakespeare, costretto lontano dal palcoscenico per quasi due anni, compone i poemetti Venere e Adone e Il Ratto di Lucrezia, il primo dedicato a Henry Wriothesly, terzo conte di Southampton, probabile ispiratore dei suoi sonetti d’amore.

Il poema tesse in 1194 versi il desiderio di Venere, dea dell’amore, per il giovane Adone, più sensibile al richiamo della caccia al cinghiale che a quello dell’amore carnale. Venere lo insegue come “la colomba insegue il grifone”, tenta la strada dell’adulazione, della tenerezza, dell’invocazione disperata, ma nulla sembra vincere il cuore di piombo di Adone, più duro della pietra scalfita dalla pioggia. Le lacrime di Venere non sono più efficaci della sua sottile arte di seduzione, e nulla basta a trattenerlo nella selva con la dea, né i baci rubati, né i lamenti, né i dolci sospiri. Forse solo la morte può spaccargli il cuore.

La passione di Venere e Adone infiamma il Globe Theatre di Roma, accende il palcoscenico di fuoco e sangue, sotto il passo di una Venere appassionata e selvaggia che si avventa su un Adone pallido e freddo come il ghiaccio. Melania Giglio incarna la dea con una potenza sovrumana, portando i versi shakespeariani in musica e in parole, senza privarli della loro forza, al contrario trasformandoli in carne, sangue e passione. Adone, impersonato da Riccardo Parravicini, controbilancia lo slancio voluttuoso di Venere con una compostezza quasi eterea, celebrando l’amore che innalza l’animo al paradiso e atterrando la lussuria che lo trascina all’inferno.

Opposti come fuoco e ghiaccio, estate e inverno, rosso e bianco, Venere e Adone si rincorrono senza mai toccarsi, mossi ad arte da uno Shakespeare presente in scena nei panni di Gianluigi Fogacci, che li muove come burattini, regista dello spettacolo delle loro vite. Shakespeare li abbraccia e li divide, li percuote e li consola, deus ex machina di un poema nato in un momento storico di isolamento, che trova nell’attualità la sua perfetta realizzazione, grazie alla lungimiranza di Daniele Salvo, che ha saputo cucire la storia presente addosso ai personaggi e adattare il poema shakespeariano al teatro con una naturalezza tale da abbattere la distanza spaziale e temporale che ci separa dalla Londra di fine Cinquecento, e portare sulla scena spirito vivo del passato, grondante di sangue e d’amore.

Le Baccanti. Dionysus il dio nato due volte, di Daniele Salvo

Sedetevi comodi e preparatevi a un viaggio sonoro ed emozionale autentico, viscerale, dalla raffinatissima sobrietà, o dalla sobria raffinatezza, se preferite. Daniele Salvo, regista e attore di questo imperdibile adattamento teatrale del testo di Euripide, offre la sua visione fatta di vocalità curate e forme d’espressione ricercate e studiate, che mai tradiscono lo scritto originale: come il regista stesso dichiara, <<Tutto ciò che vedrete dunque, parte dal testo e ritorna al testo, passando per una percezione visiva e sonora contemporanea. Non troverete sovrapposizioni intellettualistiche, esibizioni tecnologiche o meravigliose “idee del regista”. Abbiamo deciso di creare uno spettacolo complesso, perturbante ed emozionante partendo da Euripide e ritornando ad Euripide>>. Perturbante, sì. Come la trama stessa, e come l’insoluto mistero della fede nella divinità. Ma anche, e soprattutto, come l’Alterità: ovvero con la disponibilità a riconoscere l’esistenza dell’”Altro da sé”, e ad accogliere il suo diritto d’essere e di agire, pur facendo i conti con l’irrazionale, con l’incontrollabile, con il non conosciuto. Un tema attualissimo, carico di spunti di riflessione dalla vasta portata.

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Dall’unione di Zeus e la mortale Semele nasce Dioniso, dio del vino, del teatro e dei piaceri dei sensi. Tuttavia, le sorelle della donna e suo nipote Penteo, figlio di Agave e re di Tebe, diffondono la voce secondo cui Semele si sarebbe unita con un mortale e avrebbe inventato la paternità divina solo per coprire il misfatto. In tal modo, l’intera Tebe nega la divinità di Dioniso. Ed è proprio lui, nel prologo, a dichiarare di essere venuto nella città per dimostrare di essere un dio, e non un comune mortale. Come prima cosa, induce la follia nella donne tebane, le quali fuggono vero il monte Citerone per celebrare i riti in onore di Bacco, ovvero dello stesso Dioniso. Mentre Cadmo, padre di Penteo, e Tiresia, l’indovino, seppur per diverse ragioni, sono ormai persuasi della convenienza nel riconoscere la divinità allo straniero capace di tali prodigi, il re si mostra irremovibile e fa arrestare il dio, il quale si lascia catturare senza opporre resistenza, per poi scatenare un terremoto e liberarsi immediatamente. Intanto, un messo porta in città notizie delle Baccanti: le donne sono in grado di far sgorgare miele, latte e vino dalla roccia, e con la loro forza sovrumana possono squartare una mandria di mucche. Dioniso, allora, convince Penteo a mascherarsi da donna per poter spiare da vicino le Baccanti, ma una volta giunto sul Citerone le donne, soggiogate dalla follia ispirata dal dio, lo fanno a pezzi. Ed è proprio Agave, la madre di Penteo, a portare in trofeo a Cadmo la testa del loro figlio, scambiandola, nel suo delirio, per quella di un leone. Spetta a lui, dunque, riportare Agave alla realtà: preso atto, con indicibile orrore, del suo gesto, la donna si prepara, insieme al marito, all’esilio in terre lontane.

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Difficilmente si può beneficiare, da spettatori, di un concentrato di talento e sapienza come quello esibito dagli attori diretti da un applaudito Daniele Salvo. Intensi, imponenti, luminosi: sono Paolo Bassegato (Cadmo), Paolo Lorimer (Tiresia), Ivan Alovisio (Penteo), Simone Ciampi (primo messaggero), Manuela Kustermann (Agave) e una Melania Giglio (Baccante e secondo messaggero) dalla vocalità maestosa a meritare l’attenzione di un pubblico rapito e ammirato. Le attrici che interpretano le Baccanti, quasi sempre presenti in scena, sia sul palco che dietro un suggestivo velo che permette, ingegnosamente, di suggerire la contemporaneità di due eventi che si svolgono in luoghi diversi, padroneggiano abilmente tutte le possibilità dei propri corpi e delle proprie voci, potenti e ammalianti, capaci di portare l’ascoltatore in una dimensione di straniamento, di rottura con la realtà: Salvo si avvale ormai da 25 anni della collaborazione con il Dottor Marco Podda, medico foniatra e compositore, con il quale ha esplorato e continua ad esplorare tutte le sfumature della voce umana, a partire dall’espressione sonora nel periodo prenatale fino alla Psicoacustica.

Di notevole impatto anche i costumi e le maschere, curati da Daniele Gelsi: alle Baccanti seminude e acconciate con capelli scompigliati e selvaggi e corna caprine, si affiancano in maniera singolare gli abiti in pelle e velluti neri, mentre il chiaro e lo scuro si alternano continuamente sul palco, arricchendo il gioco di luci e proiezioni ideati da Valerio Geroldi (Light designer) e Aqua-micans group (Videoproiezioni).

Uno spettacolo multisensoriale imperdibile per chiunque voglia essere sorpreso, ancora una volta, dalla potenza espressiva del teatro.

Re Lear, di Daniele Salvo

“Che potrà dir Cordelia? Tacere, solo, ed amare in silenzio”. Questa è la sorte di chi ha il cuore leggero e non ha bisogno di appesantirlo con vane parole, per aggiungere orpelli alla purezza dei suoi sentimenti. Cordelia, la figlia minore dell’anziano Re Lear, ama suo padre con sincerità, ma il suo sentimento è schiacciato dalle lusinghe di Goneril e Regan, le figlie più furbe, che lo imboniscono per accaparrarsi una fetta più grande del suo regno. Re Lear è anziano, ma non abbastanza saggio per leggere il cuore invece delle parole, e senza esitazione punisce Cordelia per il suo amore silenzioso, la bandisce dal suo regno e lascia le sue sorelle a ballare sui suoi possedimenti.

Il regno è smembrato tra i due cani famelici travestiti da donne, e Lear resta solo con il suo seguito a vagare per la foresta in cerca di un riparo, di qualcuno che lo accolga nella sua dimora, come re e come padre. Ma le sue beneamate figlie non conoscono la pietà, hanno perso l’umanità nell’istante stesso in cui sono diventate regine, e la Britannia non è più la casa accogliente dei suoi ricordi, ma una terra fredda, violenta, in cui la giustizia trionfa sull’ingiustizia e l’adulazione vince i cuori più deboli. Anche allo sprovveduto conte di Gloucester spetta la stessa sorte, annebbiato dai racconti calunniosi del figlio bastardo Edmund alle spalle dell’ignaro Edgar, allontanato dalla corte con l’accusa di tradimento e gettato in pasto alle bestie feroci con l’unica colpa di aver amato troppo suo padre. Edgar vaga nella natura, vestito di stracci e pazzo di solitudine, proprio come Lear ma, quando le loro strade si incontrano, la luce della verità spacca l’oscurità e gli anziani sovrani di Britannia vedono la verità oltre la cecità dei loro occhi stanchi.

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I giovani e gli anziani si scontrano su un campo di battaglia universale, schierando la lealtà e la vanagloria a difesa della propria vita, su un palcoscenico vuoto, spogliato da Daniele Salvo di tutti gli elementi decorativi in favore dell’essenzialità e della nitidezza interpretativa, in cui l’uomo si batte contro l’uomo sotto lo sguardo impietoso della natura. La natura infatti è l’unica scenografia possibile per questa triste vicenda umana, in cui i re abbandonano i costumi regali per ritrovarsi nudi al cospetto della verità, così come di una foresta in cui non c’è riparo per le tempeste della vita.

Ma se il vecchio Lear e il giovane Edgar hanno abdicato ai beni materiali, un bene più grande li attende nella natura selvaggia: la follia e con questa il privilegio di toccare l’essenza delle cose, la verità senza l’impalcatura della ragione. E nella sua messa in scena Daniele Salvo punta proprio a svelare la verità dei sentimenti, annullando gli orpelli stilistici che nei secoli hanno appesantito questo testo, per ricondurre la parola al suo potere originario e regalare ai personaggi un’umanità dimenticata, lasciando al corpo e al sangue il privilegio di narrare il dramma di Re Lear.