Se ne potrebbero scrivere di tesi su The Zero Theorem! E ognuna metterebbe l’accento su di una peculiarità diversa del film, ognuna avrebbe probabilmente un enunciato sorprendente e potrebbe toccare materie che vanno dalla semiotica all’antropologia, dall’estetica alla filosofia del linguaggio, dall’ontologia alla teologia. Si può partire dalla filmografia del geniale Terry Gilliam e cercare i fili rossi che interconnettono le sue opere o si possono evidenziare tratti comuni e differenze con altri registi che hanno trattato l’argomento “senso della vita” secondo stili e modalità “completamente differenti”.
«È tutta una questione di fili… Non puoi fare niente se sei disconnesso».
Fin da subito The Zero Theorem appare come un rebus da risolvere, un dedalo sofisticato che affascina e che non dà possibilità di distrazione, un enigma che, se non si osserva con attenzione, potrebbe sfuggire di mano ed essere travisato.
Bellissimo trip mentale, criptico come nessun altro Gilliam. Non si poteva scrivere una recensione a caldo, di getto, senza rielaborare come in un sogno. Siamo ai livelli di The mountain, il capolavoro di Aronofsky, il che potrebbe essere un monito per i molti che non l’hanno capito! Sin dai primi passi del protagonista nel mondo in cui vive, la sensazione che si ha è di trovarsi catapultati in un Brazil variopinto e straniante, ma molto maturo, la naturale evoluzione di quel sogno premonitore, una sorta di pazzia lucida che si fa rivelatrice di verità assolute.
Dall’incipit, con un preciso movimento di macchina che asseconda il moto di rotazione di un buco nero, sino ai titoli di coda, che seguono un finale bellissimo e indimenticabile, a cui va aggiunto il significativo epilogo oltre i titoli di coda, lo spettatore è immerso in un mondo solo all’apparenza distopico, ma che è invece simulacro della nostra realtà, allegoria di uno status sociale che potrebbe verificarsi, satira a tratti anche feroce di una generazione che sta perdendo il contatto con la realtà che gli sta veramente intorno per immergersi in una tecnologia che solo in parte, e a volte solo apparentemente, risponde all’innato bisogno di vivere in società.
«Viviamo in un mondo caotico e confuso. Così tante scelte. Così poco tempo. Di che abbiamo bisogno? Chi dobbiamo amare? Cosa ci regala gioia? Mancom. Diamo senso alle cose belle della vita. “Società senza confini”».
Gli elementi della sfera onirica portano lo spettatore a pensare all’ennesima “sorpresa” da stato alterato di coscienza, ma invece Gilliam si diverte a giocare con le nostre aspettative, ci mette lì dei “MacGuffin” da seguire mentre ci porta per mano verso riflessioni sulla vita, la morte, l’effimero, la fede in qualcosa che dia senso ad un’esistenza, che si tratti di numeri o di qualcosa di soprannaturale. Siamo tutti espedienti narrativi come il “MacGuffin”, di irrilevante importanza ai fini della comprensione dell’universo, ma pura distrazione per fornire dinamicità alla storia del mondo? O siamo strumenti di un grande progetto pronti a rispondere ad una chiamata che ci dia l’istruzione per un twist meraviglioso quanto inaspettato, la stessa chiamata che ossessiona il protagonista di The Zero Theorem: Qohen Leth [intepretato dal due volte premio Oscar® Christoph Waltz]? Un’ulteriore visione fatalistica è veicolata dal responso di un medico della Divisione Patologica, interpellata dal protagonista che ha una sensazione di morte imminente, tipica dei soggetti che, come lui, hanno mille paure, crisi di panico e non hanno più memoria di momenti felici: «Non sta morendo. Anche se dal momento della nascita corriamo tutti verso la morte. La chiami… Il piano divino dell’obsolescenza. Prima o poi, mendicante o re, la morte è la fine di tutto. La vita potrebbe esser vista come un virus che infetta un organismo perfetto fino alla morte».
Gilliam trionfa laddove gli allora fratelli Wachowski, ora felicemente sorelle, hanno fallito con la trilogia di Matrix: le loro scivolate nell’autocompiacimento delle citazioni carrolliane, gli estenuanti combattimenti coreografici allungati a dismisura da rallenty insistiti ed il legame con Akira, il capolavoro di Katsuhiro Otomo, prezioso riferimento quanto impedimento ad una creatività effettivamente originale. Dentro la matrice, come dentro lo specchio, la realtà dietro la menzogna, l’inevitabile fede in qualcosa di trascendente e l’illusione di trovare le risposte, la ricerca di una verità che diventa conoscenza di sé, come sentenziava l’Oracolo di Delphi, e la volontà dell’uomo di andare oltre i suoi limiti e di lottare per ottenere la felicità meritata. Tutto questo è alla base di The Zero Theorem, o meglio del racconto breve The call [“la chiamata”], scritto nel 1999 da Pat Ruskin, un insegnante di scrittura creativa alla University of Central Florida, liberamente ispiratosi al Qoelet o Libro degli Ecclesiasti, sezione della Bibbia che verte sul lamento di un uomo che ha trascorso tutta l’esistenza a porsi domande sulla vita, sul suo senso, su cosa rappresenta morire e su quanto possa esserci dopo la morte. Il Libro degli Ecclesiasti in ebraico è Qohèlet, dal nome del presunto autore, sulla cui falsariga è stato ideato il nome del protagonista del film, che fornisce una prima chiave di lettura dell’opera. Un’altra evidente traccia per la soluzione dell’enigma è data dal reiterato ascolto di una canzone: si tratta di Creep dei Radiohead, il cui testo si fa portavoce della coscienza di Qohen Leth e la spiegazione-riassunto della trama principale, lasciando allo spettatore il compito di interpretare chi sia l’“angelo” e chi, nel film, sia veramente l’essere “alienato” [weirdo] e “repellente” [creep] di cui si parla.
«Attento a ciò che desideri».
Qohen Leth [Christoph Waltz] è un operatore di computer di enorme talento, che lavora per la Mancom, una corporazione che controlla il mondo caotico e opprimente dell’ “uomo comune” per vendergli prodotti di cui probabilmente non avrebbe bisogno. Qohen è «il più produttivo degli analisti numerici della Divisione Ricerca Ontologica» che lavora «con dati esoterici che hanno vita propria e sono sostanzialmente più complicati dei numeri». Superato questo scoglio-macguffin che introduce il setting in cui opereranno i personaggi, lo spettatore può sentirsi “libero” di immedesimarsi nelle riflessioni del protagonista, un eccentrico uomo completamente calvo, che fugge ogni relazione sociale non necessaria e vive quasi completamente isolato e in maniera spartana in una chiesa andata semidistrutta in un incendio e rivenduta da una compagnia di assicurazioni. Tutto intorno a lui gli è alieno e lo fa sentire inadatto, fuoriposto, come il suo guardaroba smorto in un mondo in technicolor. A tal punto è preda di angosce esistenziali, paure ingiustificate, crisi di identità, panico e sensazione di morte imminente – drammi che sono tristemente diffusi già nel nostro presente ipertecnologico e ipersociale – che diventa ossessionato dall’attesa di una telefonata che possa dare un senso alla sua vita.
«La natura o l’origine della telefonata rimane un mistero. Ma non possiamo non sperare che ci fornirà uno scopo, dopo aver a lungo vissuto senza».
Vista la sua richiesta di svolgere un lavoro da casa, la Direzione [Matt Damon] della Mancom, gli assegna l’arduo compito di dimostrare il Teorema Zero, un vero rompicapo che sembra voglia portarlo a pensare che nulla abbia senso nell’universo e che, quindi, qualsiasi sforzo dell’uomo di cambiare la sua situazione di base sia vano, pura illusione, un palliativo che tenga occupati nel lasso di tempo che separa la nascita dalla morte. Ma se Qohen non fosse un uomo comune? Se fosse la volontà che rende Qohen diverso dagli altri, ad essere lo strumento giusto per uscire da una gabbia dorata in cui tutti sono strumenti di un progetto che in realtà non è che un loop da cui non è permesso uscire, se non drasticamente? Sentimenti forti come l’amore e l’amicizia possono essere ancora il motore che possa innescare quel processo di cambiamento volontario di cui si ha bisogno per rompere le catene che costringono l’uomo comune a vivere come topi in trappola? Qohen è «solo un altro sballato in un mondo di sballati» come si dice in Paura e delirio a Las Vegas o, alla fine di tutto, come ne Le avventure del Barone di Munchausen, «tutti coloro che ne avevano la capacità e il talento vissero felici e contenti»?
«Annoiato dal buddismo? Stanco di Scientology? Allora la Chiesa del Batman redentore è la risposta!».
Per quanto riguarda le sottotrame, zeppe di allusioni più o meno esplicite (la distruzione dei dogmi classici e il cieco abbandono ad una qualsiasi fede possibile, compresa quella di un “Batman redentore” e la sostituzione dell’occhio divino con l’occhio scrutatore della telecamera di sorveglianza di matrice orwelliana) e figure retoriche molto significative (ad esempio, i topi, che rappresentano allegoricamente la condizione dell’uomo, recluso e in trappola, o la significativa ostinazione di due bambine di far volare un aquilone non aerodinamico), bisogna invece fare ricorso all’esperienza pregressa della filmologia di Terry Gilliam. Sono di nuovo presenti alcune tematiche care al visionario regista di Minneapolis: la satira sociale, sempre presente, in maniera più o meno intrinseca a seconda delle situazioni – innescata in tempi non sospetti dai Monty Python in forma di pesci ne Il senso della vita; la distorsione della realtà, che porta i personaggi a vivere avventure in un mondo che è diverso da quello reale e che spesso è frutto di un’alterazione di coscienza dei personaggi stessi come in Tideland, La leggenda del Re Pescatore o L’esercito delle 12 scimmie; l’eterna lotta tra il Bene e il Male vissuta in Parnassus, Time bandits, Jabberwocky, I fratelli Grimm, mentre ci si domanda dove iniziano l’illusione e il sogno e dove inizia la realtà, come in Brazil, ma in verità ovunque in Gilliam, anche nel The man who killed Don Quixote, le cui riprese inizieranno nell’ottobre 2016, finalmente.
«Il tuo stile di vita e’ la nostra priorità».
«I tuoi sogni sono i nostri sogni».
Girato interamente a Bucarest, con la Arricam Lite in 35 mm poi reso digitale in formato full screen da monitor di controllo, cioè con un’aspect ratio panoramica dagli angoli smussati, che suggeriscono un’artificiosità significativa all’immagine definitiva per l’intera durata del film [vedi epilogo], The Zero Theorem è ambientato in un futuro contaminato da elementi retro, in un non-luogo che va a rappresentare ogni possibile luogo in cui è presente l’umana specie e si fa strumento di meditazioni di carattere universale.
«Sono solo un uomo alla ricerca della verità».
The Zero Theorem è un’opera che farà discutere, cha ha bisogno di un pubblico che sappia sospendere il giudizio e abbia la pazienza di riflettere a posteriori. È un film che può dividere l’opinione pubblica, che può piacere o non piacere, ma chi lo valuterà subito in maniera negativa probabilmente è solo perché non lo ha capito.
«Hai mai avuto la sensazione che il mondo ti rida alle spalle? Che tutti nell’universo facciano parte di un grosso scherzo cosmico? Tutti tranne te. L’unica ragione per cui non ridi è perché sei la battuta finale».
Una, nessuna e centomila interpretazioni, insomma, e la presente non ha pretese di ergersi a definitiva, in quanto molti spunti rimangono fuori dal discorso per necessità di sintesi e, comunque, l’ultima parola spetterebbe sempre all’autore che, come ci ha insegnato, dopo averlo incontrato in occasione dell’uscita di Parnassus, mischierebbe le carte perché, in fondo, un film è longevo se lascia spazio ad ulteriori riflessioni e, in questo caso, credetemi, potrebbe essere infinita, come l’universo… o forse no?
«Una taglia non va bene a tutti».