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Quel bravo ragazzo – Intervista esclusiva allo sceneggiatore Andrea Agnello

Il 17 novembre uscirà Quel bravo ragazzo, di Enrico Lando, e la Redazione di ShakeMovies ha colto l’occasione per un’intervista in esclusiva ad Andrea Agnello, uno degli sceneggiatori del film, uno dei fiori all’occhiello del cinema italiano, professionista della scrittura cinematografica, scaturito dalla fucina del Centro Sperimentale di Cinematografia (CSC) ed eccellente firma di molti successi cinematografici e televisivi di ultima generazione: tra i film ricordiamo Ma che ci faccio qui!, di Francesco Amato, premiato con David di Donatello e Globo d’Oro; Com’è bello far l’amore, regia di Fausto Brizzi, in testa al box office per due settimane; I più grandi di tutti, regia di Carlo Virzì; Italians, Genitori & figli – Agitare bene prima dell’uso, riconosciuto di interesse culturale dal Ministero dei Beni Culturali, Manuale d’amore 2 e Manuale d’amore 3, tutti di Giovanni Veronesi e tutti campioni d’incassi; tra le serie TV: I licealiPiper, Benvenuti a tavola – Nord vs Sud, Fuoriclasse.

L’intervista esclusiva diventa una stupenda occasione per parlare anche del cinema a tutto tondo e per immaginare un futuro per il cinema italiano, che porti al raggiungimento di uno stile inconfondibile, che sappia di nuovo lasciare un segno indelebile, non sporadico, nel panorama mondiale per far esprimere sempre di più le eccellenze e le professionalità come quella di Andrea Agnello. Una storia, la sua, che è quella di tanti scrittori, filmmaker, direttori della fotografia. Una storia che vive di abnegazione e fede in una passione, quella per il cinema, che vale sempre i “rischi” lavorativi e che sa dare soddisfazioni enormi, se alimentata costantemente.

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1 – Come nasce il soggetto di Quel bravo ragazzo? Qual è il nucleo da cui è partito tutto?

Il soggetto nasce da un’idea di Ciro Zecca, un giovane ex-allievo del corso di produzione al CSC, molto bravo nel fare i “pitch”, cioè nel raccontare uno spunto con poche parole ma molto efficaci. Gli do una mano a tirare giù una paginetta di numero. Scriviamo solo l’incidente scatenante, lo spunto da cui tutta la storia prende le mosse, dopodiché lui un giorno mi chiama e mi dice che l’ha mandata in lettura alla Lotus di Marco Belardi. In cuor mio, la prima cosa che penso è che non la leggeranno mai; e invece – caso unico più che raro – ci chiamano per farci un contratto!

2 – Da fonti certe (IMDB, wikipedia) risulta: soggetto scritto da 3 persone e sceneggiatura scritta da 5. Perché? Come vi siete divisi il lavoro? com’è stato il lavoro in team? Vi siete divisi i personaggi? Quali sono stati i vostri ruoli? Tu hai scritto soggetto e sceneggiatura, ma i dialoghi?

2) Allora, il soggetto lo firmiamo in tre perché sin da subito Belardi ci ha affiancato Gianluca Ansanelli, lo sceneggiatore di fiducia di Alessandro Siani. Lui e Herbert già stavano lavorando da un po’, credo su un’altra idea. Tiriamo giù in tre una scaletta abbastanza dettagliata del film, costruendolo bene sul personaggio di Herbert, anche se effettivamente già l’idea originaria sembrava davvero cucita a misura su di lui. A questo punto passiamo in sceneggiatura e si aggiungono i contributi di Herbert e Enrico: Herbert ha fatto diverse riunioni con noi, molte battute di dialogo sono sue e ci ha dato tanti spunti esilaranti per costruire scene; Enrico è invece entrato sul progetto un po’ dopo ma ha comunque suggerito diverse cose che si sono rivelate molto efficaci. A dire il vero non c’è stata una vera divisione del lavoro, abbiamo sempre lavorato insieme, a sei, poi otto e poi dieci mani, cosa non semplice ma per un film comico spesso vitale.

3 – Sei soddisfatto del processo realizzativo di Quel bravo ragazzo? Hai avuto modo di vedere almeno in parte il film o sarà una sorpresa anche per te?

Ma sai che non ho visto ancora nemmeno una scena? Anche questo è un caso finora unico, non mi era mai capitato con gli altri film che ho sceneggiato, e sinceramente sono anche contento così: vederlo in sala sarà una sorpresa.

4 – Quel bravo ragazzo è chiaramente una commedia divertente, ma di che tipo? Del genere one shot (stacchi, ridi ridi ridi e ti dimentichi della realtà e poi torni alla realtà e ti dimentichi del film) oppure è una commedia che vedi e rivedi e non ti stanchi mai di rivedere?

Diciamo che già se Quel bravo ragazzo appartenesse al primo genere di film sarei strafelice. E poi penso che in realtà se un film ti fa ridere a crepapelle non te lo dimentichi e magari ti viene anche voglia di rivederlo dopo poco tempo. A me spesso succede così.

5 – Il lavoro di scrittura nasce libero da vincoli e viene adattato quando Herbert Ballerina viene scelto per il ruolo di protagonista di Quel bravo ragazzo o il personaggio è costruito intorno a lui fin dal principio?

L’idea è nata sicuramente libera da vincoli, io e Ciro – al momento di mandare in giro la famosa paginetta – non avevamo in mente un attore preciso, ma già nel nostro primo incontro col produttore Belardi ci è stato detto che il film avrebbe avuto Herbert per protagonista, e da lì abbiamo iniziato a ragionare pensando a lui. Ma non è stato uno sforzo né una costrizione, anzi: Herbert è veramente perfetto per questo ruolo, ed ha un umorismo che non esito a definire geniale.

6 – Quando crei i tuoi personaggi li immagini interpretati da qualcuno in particolare, magari i tuoi attori preferiti?

Sì spesso sì, mi aiuta visualizzare un volto, focalizzo la scrittura su qualcosa di concreto. Anche se a dire il vero quasi sempre in fase di sceneggiatura si sa già con buona probabilità chi saranno gli attori del film.

7 – Film preferito in assoluto?

Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola: visto decine di volte, un film unico, irripetibile secondo me. Unisce tutto: alto e basso, autoriale e popolare, e con un Nino Manfredi veramente da applauso.

8 – Film preferito tra quelli scritti da te?

Sono affezionato a tutti allo stesso modo, difficile sceglierne uno. Forse Ma che ci faccio qui! di Francesco Amato, ma solo perché tutto è cominciato da lì.

9 – Regista preferito in assoluto?

Tra i viventi, David Lynch. Tra i defunti Mario Monicelli.

10 – Regista preferito, con il quale ti sei trovato meglio a lavorare?

Tutti, fortunatamente!

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11 – Leggi la Bibbia? La domanda, a trabocchetto, in realtà riguarda simpaticamente il processo creativo ed è “crei/create una bibbia dei personaggi che poi seguite nella stesura definitiva?”

Purtroppo no: è vero che sono ateo convinto, ma mi dicono che sia imprescindibile per uno sceneggiatore.

12 – La tua formazione professionale avviene al CSC. Avrai avuto modo di conoscere anche altri professionisti in erba in quell’occasione. Avremo mai in Italia un Tarantino o un Nolan? E qualora ciò avvenisse, abbiamo qualche produttore che ne riconoscerebbe il talento?

Io mi sono diplomato in sceneggiatura al CSC nel 2005, e nel mio triennio il corso di regia ha sfornato Edoardo De Angelis [Indivisibili], Matteo Oleotto [Zoran], Claudio Giovannesi [Fiore], Francesco Amato [Cosimo e Nicole], insomma direi una bella classe di regia. Io penso francamente che il cinema italiano sia pieno di professionisti di talento, il problema sta nel dar loro fiducia, ed è un problema per lo più produttivo. Solo così potranno emergere personalità davvero innovatrici, che ripeto non mancano.

13 – In Italia si producono principalmente commedie e drammi esistenziali (“lacrime strappastoria” per dirlo alla Maccio Capatonda), trascurando generi come horror, fantascienza, western. Sono generi in cui abbiamo in passato ricevuto premi, di cui abbiamo fatto la storia, film che abbiamo insegnato a fare, a  realizzare a prescindere dal budget (spesso si dice che non se ne realizzano per gli alti costi, ma esiste The invitation che è solo il primo esempio che mi viene in mente di low budget di successo). La domanda è: nessuno scrive soggetti validi in chiave horror, sci-fi, western… o si fermano allo spoglio della sceneggiatura (si dice così, no?) da parte del settore produzione che investe solo in un prodotto che può vendere meglio alla televisione?

È vero, si producono solo commedie e drammi d’autore. Ciò è dovuto secondo me in parte a un doppio retaggio, della commedia all’italiana e del neorealismo, e – per quanto riguarda la commedia – anche e soprattutto per un dato di fatto: sarà banale dirlo, ma il pubblico al cinema ci va per ridere. Ieri sera ho visto un esordio italiano in una sala piena, storia drammaticissima eppure il pubblico come poteva rideva.

È vero anche che il cinema italiano ha anche un glorioso passato di spaghetti western e horror, ma forse non una vera tradizione, a parte Sergio Leone e Dario Argento non abbiamo sfornato maestri in nessuno dei due generi.

Di recente però qualche segnale incoraggiante verso altre strade c’è stato: il caso eclatante di Lo chiamavano Jeeg Robot, film riuscitissimo, potrebbe aprire un nuovo filone, essere un po’ l’inizio di un cinema più spettacolare ed esportabile, se vogliamo…

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14 – Scriveresti o hai scritto soggetti di generi come horror, sci-fi…?

Horror sicuramente, e credo che mi divertirei anche tantissimo, è un genere che adoro.

15 – C’è un soggetto, realizzato da altri, che avresti voluto scrivere tu?

Tra quelli recenti, trovo che Perfetti sconosciuti sia un soggetto fantastico, e la sceneggiatura un perfetto congegno a orologeria.

16 – Tra i tuoi lavori c’è qualcosa che senti avrebbe meritato più di quanto abbia ottenuto, che avresti voluto far fruttare meglio?

Come incassi sono andati tutti molto bene, quindi son più che soddisfatto!

17 – Il target di riferimento per i tuoi lavori liberi è diverso da quelli su commissione? Si scrive molto, quasi totalmente, per le “massaie”, come diceva Mike Bongiorno, che seguono la TV come fosse un’amica chiacchierona che parla del più e del meno con pathos da soap opera o alla Barbara D’urso, mentre il pubblico giovane, che dovrebbe essere il futuro dell’economia, emigra su Netflix, dove hai un’ampia varietà di generi, tra cui quelli bistrattati dai produttori cinematografici standard (De Laurentiis, Ferrero…). Che futuro si prospetta? È auspicabile un cambio di rotta? Si testa una scrittura che si avvicini al target degli “emigrati” su Netflix e Sky?

Secondo me sì, anche perché Netflix e Sky finanziano sempre più il cinema italiano, quindi credo che in breve questo gap qualitativo tra tv generalista da un lato e nuove piattaforme dall’altro si assottiglierà sempre più.

18 – Che anticipazioni puoi/vuoi fornirci riguardo i tuoi progetti cinematografici/televisivi futuri?

Sto scrivendo l’opera prima di un giovane regista appena diplomato al CSC: è una commedia on the road, che tocca però corde più intimistiche e malinconiche rispetto ai film che ho scritto di recente. Sto poi lavorando a due serie tv ma siamo ancora alle primissime battute, è presto per parlarne.

19 – Quale sceneggiatura ti ha colpito in questo anno solare. Chi pensi che vedremo lottare per l’oscar nel tuo settore?

Tra i film italiani, le sceneggiature più solide sono quelle di Perfetti sconosciuti e Lo chiamavano Jeeg Robot, film che non avrebbero affatto sfigurato nella cinquina come miglior film straniero.

20 – C’è una domanda che avresti voluto ti facessi ma non ti ho fatto?

Qual è il film che più di tutti ti ha fatto schifo tra quelli degli ultimi cinque anni? Scherzo, per fortuna non me l’hai fatta!

Grazie, Andrea! 

Bad moms – Mamme molto cattive, di Jon Lucas e Scott Moore

Bad moms è una frizzante commedia diretta da Jon Lucas e Scott Moore, i registi di Wanted, I guardiani della notte, I guardiani del giorno, ma soprattutto del gigionesco Abraham Lincoln: Vampire Hunter. Passati alla storia più che altro per aver scritto le trionfali sceneggiature che sono alla base di successi come la saga di The Hangover, meglio conosciuto in Italia con il titolo Una notte da leoni, o la piacevole rivisitazione del Canto di Natale di Dickens realizzata in occasione de La rivolta delle ex, Lucas e Moore si cimentano stavolta in qualcosa di più profondo, nonostante lo spunto di partenza sia indissolubilmente legato ad una partitura comica, che procede con passi studiati, dallo slapstick style alla satira più sottile.

«Leggendo la sceneggiatura, si potrebbe pensare che sia stata scritta da una donna, ma parlando con Jon e Scott, ci si rende conto che è un omaggio alle loro mogli» afferma Mila Kunis, mentre Moore confessa: «sgobbano tutto il giorno, mentre noi lavoriamo da casa, davanti al nostro computer. Stanno in giro, accompagnano i bambini, preparano il pranzo… C’è un sacco di materiale drammatico alle spalle, il che è un terreno fertile per la commedia».

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Amy [Mila Kunis], mamma lavoratrice, infaticabile, estremamente stressata, cerca di incastrare ogni attività sua e dei due figli adolescenti, Dylan [Emjay Anthony, Il libro della giungla, Krampus] e Jane [Oona Laurence, Il drago invisibile], nell’arco della giornata, con l’obiettivo di rendere la loro vita il più possibile perfetta. Ma se, nella peggiore delle giornate, decidesse di scendere dalla giostra della perfezione e diventare una “cattiva mamma”? Mai più sveglia all’alba per preparare la colazione a tutti, nessun aiuto nei compiti e nelle ricerche, niente assistenzialismo o zerbinismo sul posto di lavoro o a scuola. E poi, via il marito immaturo ormai diventato un terzo figlio e più spazio per curare la propria persona e, perché no, uscire e andarsi a divertire con due nuove amiche, Kiki [Kristen Bell] e Carla [Kathryn Hahn], due outsider come lei. Ma non ha fatto i conti con la presidente dell’Associazione Genitori, Gwendolyn [Christina Applegate] che vuole tutelare la figura della leggendaria madre modello a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo, bullizzando chiunque si frapponga fra lei e il mantenimento dello status quo.

«Quando scrivi di mamme e dell’essere madre – afferma Annie Mumolo –, cammini su una linea molto sottile. Questa è una delle prime sceneggiature che ho letto che avesse risonanza emotiva e personaggi con cui potersi relazionare. È tagliente e divertente, irriverente quanto basta da indurre a riflettere».

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I registi non avevano preventivato di ingaggiare, per i ruoli delle protagoniste di Bad moms, sei attrici che fossero anche mamme, ma alla fine così è andata e il loro apporto è stato fondamentale per un risultato definitivo davvero realistico.

In Bad moms, i personaggi sono sapientemente disposti secondo una simmetria che fornisce un avvincente equilibrio alla trama: se da un lato abbiamo Amy con le sue amiche Kiki, casalinga sfruttata e bistrattata, e Carla, madre single dall’insaziabile appetito sessuale, che portano avanti una forma di ribellione alla figura materna convenzionale, dall’altro Gwendolyn ha altrettante “scagnozze” in Stacy [Jada Pinkett Smith], che reprime la Carla che è in lei, e Vicky [Annie Mumolo], la cui sbadataggine fa il paio con la personalità un po’ naif di Kiki.

Anche le due figure maschili principali sono in contrapposizione con un Jay Hernandez [Suicide Squad] che interpreta il padre più figo della scuola, un atletico vedovo che sa anche essere dolce e premuroso, diametralmente opposto al pusillanime sposato da Amy.

In un simpatico cameo i fan della NFL avranno riconosciuto J. J. Watt, estremo difensore degli Houston Texans, ridotto quasi ad una macchietta nei panni dell’allenatore-bamboccione della squadra di calcio della scuola: sembra quasi star lì a significare che nemmeno lui può nulla contro una madre imbestialita che difende la felicità del proprio figlio. Chi ne ha vista almeno una all’opera sa che è vero.

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Ironica, per chi conosce la sua storia, invece, è la partecipazione di Martha Stewart, conduttrice televisiva e intrattenitrice di origini polacche, conosciuta nel mondo televisivo e dei magazine statunitensi per i suoi progetti di cucina, giardinaggio, bon ton, fai-da-te, e, in generale, come modello-guida per il lifestyle femminile e per la corretta convivenza domestica, ha finito da poco di scontare una condanna per complotto, intralcio alla giustizia e falsa testimonianza. Incarcerata nella prigione federale di Alderson e poi messa agli arresti domiciliari nella sua casa di New York si è vista prolungare la pena di tre settimane, per aver violato i termini della prigionia. Insomma, rientra a pieno diritto tra le Bad moms!

Essere “madri molto cattive” non è essere delle cattive madri, sia ben chiaro e non bisogna commettere l’errore di sottovalutare questo film pensando sia destinata ad un ristretto ed esclusivo target di giovani madri che vogliono evadere e svagarsi, immedesimandosi nei loro alter ego su grande schermo. Bad moms è un po’ Hangover, un po’ Project X, ma non si allontana poi molto dalla morale di Mrs. Doubtfire: è nell’imperfezione che si trova la perfezione e anche se così non fosse, l’imperfezione è sempre divertente ed intrigante, perlomeno.

Tutti vogliono qualcosa, di Richard Linklater

Everybody wants some, ovvero Tutti vogliono qualcosa, è una commedia giovanile, un buddy movie, un film corale, una pellicola d’autore e una realistica ricostruzione del 1980, un film su una squadra di baseball del college, avvincente, esilarante, effervescente, emozionante senza che i personaggi giochino mai neanche una partita. Com’è possibile? Solo Richard Linklater, maestro del cinema indipendente americano, è capace di compiere questo tipo di imprese.

Sull’onda del successo di Boyhood, il regista estrae dal cilindro un nuovo capolavoro che ricrea quei meccanismi ormai consolidati nel suo modo peculiare di far cinema: l’ottimizzazione del basso budget a disposizione; attori non famosi che hanno saputo calarsi nei panni di personaggi ben caratterizzati e collocati in un’epoca ben distante dalle loro vite; la supremazia dei personaggi, sempre ordinari in contesti ordinari, rispetto all’intreccio, subordinato, in questo specifico caso, anche alla ricostruzione scenografica che è maniacale, da candidatura agli Oscar®, probabilmente. Quello che sorprende è l’utilizzo per tutto il film della parola, dei dialoghi in una maniera che riecheggia Dazed and confused – La vita è un sogno, citato visivamente in molte inquadrature, e che sembra segnare una sorta di continuità concettuale con il sopracitato Boyhood, con digressioni filosofiche che spezzano la narrazione lineare, riuscendo a mescolare gli episodi di The twilight zone – Ai confini della realtà con i Maya, i druidi e la telepatia, capacità che, ovviamente, dopo una tirata di bong, i protagonisti sperimentano, per poi tornare agli argomenti più amati: «il baseball e la passera».

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«Quando giochiamo a baseball parliamo di passera e, invece, quando abbiamo davanti tutta questa passera parliamo di baseball!».

Se poi il coach esigente dà delle regole «niente alcool in casa» e «niente ragazze nelle camere da letto» perché non vuole «compromettere il programma per un po’ di pelo!» per le quali è lui stesso a trovare un escamotage in modo da trasgredire al piano di sotto, possiamo tranquillamente metterci comodi sulla poltrona ed aspettarci un paio d’ore di divertimento senza inibizioni.

Detta così può sembrare una commedia alla Animal house e invece ci troviamo davanti ad un vero spaccato di realtà, che è fatta di chiacchiere a volte senza senso, di turni davanti allo specchio per pettinarsi, di racconti inventati e spacconate, di deliri e cazzeggi. Tutti vogliono qualcosa è un’escursione nei meandri della mente di un ex-adolescente alle prime esperienze lontane dalla famiglia e fuori da qualsiasi controllo. Al contempo è un viaggio nei ricordi di Linklater, del periodo in cui ha iniziato a frequentare il college come fa il protagonista Jake Bradford [Blake Jenner] che arriva nelle case affidate alla squadra di baseball della Texas State University e subito viene coinvolto dai compagni più socievoli nelle attività preferite: «Tutti al “Fox”!» a bere, poi tutti insieme a ballare e divertirsi alla discoteca “Sound machine”, dove la confraternita di baseball è sempre gradita guest star con entrata libera e birra gratis. Infine, soprattutto, sempre e comunque, rimorchiare in ogni locale, in ogni occasione, a qualsiasi festa, che sia a tema country, punk, disco o del corso di teatro, grazie soprattutto alle tecniche sopraffine di Finnegan [Glen Powell], il vero trascinatore del gruppo.

«Studio da cunnilinguista!».

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Una squadra quanto mai reale – chi è stato membro di una squadra sa di cosa si parla – con personaggi che possono a primo avviso sembrare macchiette ma che rispecchiano le varie tipologie di giocatore. Ogni personaggio ha le sue fisime, la sua indole, le sue superstizioni e i suoi rituali, molto carina a tal proposito la dissertazione per spiegare la differenza tra queste ultime due caratteristiche.

«Bisogna avere due strambi in ogni squadra», perciò ecco il veterano scommessa-dipendente Nesbit e la matricola spaccona Nails, che ama definirsi un «cane da combattimento». Se Finnegan è espansivo e logorroico, gli fa da contraltare il burbero Roper che a Jake si presenta così: «Io odio i lanciatori. Saremo compagni di squadra ma non saremo mai amici» o il capitano McReynolds [Tyler Hoechlin], che assolutamente non prende bene le sconfitte e non tollera che la sua leadership sia messa in discussione. Tra giovani promesse sul campo di gioco e schiappe nella vita di tutti i giorni, veri fulminati e cazzeggio dipendenti, l’assortimento di tipi umani da manicomio è quanto di più vero possa esserci in una qualsiasi squadra, che ci crediate o no.

«Copriamo tutte e nove le posizioni».

Il colpo di genio di Linklater sta proprio nel divertire e coinvolgere nella reale vita di squadra senza che succeda un evento sportivo degno di nota. Nei tre giorni che lo separano dall’inizio delle lezioni, a partire dal “28 agosto 1980”, Jake assaggerà quel nuovo mondo tra sfide a schicchere sulle nocche, bevute in compagnia, discussioni e litigi, ragazze da una notte e via, magari alla ricerca di quella speciale che alle amiche «…dirà con orgoglio: è un giocatore di baseball!», l’unica per cui lui possa affermare «sono pazzo del baseball ma c’è qualcos’altro nella vita».

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Oltre alle gag esilaranti, non mancano due chicche da nerd: il personaggio di Willoughby e le sue azioni sono una citazione sottile dell’episodio “Una sosta a Willoughby” di The twilight zone – Ai confini della realtà, serie tv di cui lui stesso vanta una collezione completa in VHS; l’altra chicca è il titolo della tesina che Jake ha portato per il diploma, “Sisifo e il baseball”, che vede il dolore del personaggio mitologico nella Divina commedia non come supplizio eterno ma come scopo per combattere ogni giorno, perché lottare per un obiettivo è un dono, nella vita come nello sport, e che le cose assumono un significato quando siamo noi ad attribuirgliene uno. Una commedia giovanile abbiamo detto, ma che dialoghi!

Il clima di cazzeggio, la sceneggiatura priva di tempi morti e il coinvolgimento dei dialoghi fa dimenticare persino che nei primi fotogrammi sia stata inserita per errore una ripresa in cui il crane si riflette sulla macchina. Un errore che somiglia un po’ a quello di Kubrick in Shining, con l’ombra dell’elicottero che entra nelle inquadrature iniziali, per essere considerato tale.

La squadra di lavoro di Linklater, ormai consolidata e coesa dopo i tanti successi e i pochi fallimenti vissuti insieme, rispecchia l’affiatamento dei personaggi di Tutti vogliono qualcosa, tra veterani e matricole promettenti: il direttore della fotografia Shane F. Kelly [Boyhood, A scanner darkly], il film editor Sandra Adair [Boyhood, Prima del tramonto, School of Rock, Me and Orson Welles, Bad News Bears – Che botte se incontri gli orsi!, Prima dell’alba, Fast food nation, Tape, La vita è un sogno], lo scenografo Rodney Becker [Boyhood, Bernie, A scanner darkly] e la costumista Kari Perkins [Boyhood, Bernie, A scanner darkly, Fast food nation]. Ognuno ha contribuito a rendere questo film un gioiello del cinema indipendente d’autore.

«Metti insieme persone competitive e diventi vittoria dipendente»

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Tutto il film permette un nostalgico tuffo nel passato grazie ad un lavoro di ricerca minuzioso sotto ogni aspetto, dalla scenografia ai costumi, dal make up agli argomenti di discussione.

«Sento che gli Astros vinceranno il campionato».

Perfino la colonna sonora è estremamente curata con 45 top hits dell’epoca che esplorano ogni genere in voga in quegli anni. Non da ultimo una stupenda performance corale degli attori che si cimentano in un brano rap originale che racconta le vicende dei personaggi da loro interpretati. Il brano è una chicca posizionata nel bel mezzo degli end credits, perciò, se vogliamo dirla con un acronimo a tema: Rimanete Al Posto!

«Ehi, Coma! Almeno togliti gli occhiali! Sembri uno della narcotici!
E togli la camicia dai pantaloni! Sembri un venditore di bibbie!».

Per concludere, Tutti vogliono qualcosa è un film indimenticabile, per chi sa cosa significhi essere parte di una squadra vera, una marmaglia mal assortita di persone che si spalleggiano reciprocamente nel campo di gioco come nella vita, che condividono gioie e dolori non solo in quell’arco di tempo in cui gli è concesso di essere giocatori. Anche se le strade poi si separano, quelle scene, quei sapori, quegli odori, le vittorie, le discussioni, le incomprensioni, le imprese, le sconfitte, le conquiste di ogni duro allenamento, le dimostrazioni d’affetto, il senso di appartenenza, il gusto di sentirsi rispettato, stimato, a volte indispensabile, sono tutte emozioni forti che compongono preziosi ricordi, che possiamo portare incastonati nel cuore per sempre e che permettono di superare gli ostacoli della vita, quelle frontiere citate sulla lavagna il primo giorno di lezione: «“LE FRONTIERE SONO DOVE LE TROVI”».

Mai farsele imporre. Superarle sempre. E Linklater, più di ogni altro, sa come valicarle con stile e originalità.

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Now you see me 2, di Jon M. Chu

«Mi sentite, Cavalieri? Avrete presto quello che vi spetta, ma nel modo che non vi aspettate!».

Un anno dopo aver ingannato l’FBI e aver guadagnato l’adulazione del pubblico con i loro spettacoli di magia in stile Robin Hood, I Quattro Cavalieri ritornano a calcare le scene con una nuova performance, che ha come obiettivo primario rendere pubbliche le pratiche non etiche di un magnate della tecnologia. Ma qualcosa non va per il verso giusto. Qualcuno si intromette e manda all’aria i loro piani svelando alcuni loro segreti. Lo stesso Dylan Rhodes [Mark Ruffalo] viene braccato dall’FBI e costretto a separarsi dagli altri. Atlas [Jesse Eisenberg], Merritt [Woody Harrelson], Jack [Dave Franco] e Lula [Lizzy Caplan] si ritrovano in un batter d’occhio in Cina, a Macau, come se avessero usato il teletrasporto. L’uomo che si cela dietro la loro fuga fallita e il viaggio inaspettato non è altro che Walter Mabry [Daniel Radcliffe], un altro prodigio della tecnologia, narcisista e psicopatico, che vuole costringere i Cavalieri a mettere in atto una rapina quasi impossibile: rubare un chip che permette di decriptare qualsiasi codice di accesso, rendendo disponibile qualsiasi tipo di informazione con lo scopo di condizionare i mercati e diventare, di fatto, al pari di una divinità in Terra. La loro unica speranza è quella di assecondare lo psicopatico ed effettuare un colpo quasi impossibile tentando di rovesciare in qualche modo la loro situazione, al fine di ripulire il loro nome e svelare contemporaneamente la vera mente che si nasconde dietro tutto questo. Chi sarà costui? E come si comporterà l’Occhio in questa situazione? Isolati e controllati a vista anche da Chase, il gemello di Merritt, i Cavalieri dovranno imparare ad agire come un unico corpo, se vorranno cavarsela, ma dovranno fare i conti con paure, ambizioni, tormenti e propositi di vendetta.

«Il più grande potere che un mago ha è nel suo pugno vuoto».

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Produttori e regista si prendono un gran rischio a cimentarsi nel sequel di un film di così grande successo come è stato il Now you see me di Louis Leterrier nel 2013. Eppure rimane il dubbio su quale dei due sia il migliore e la domanda, in realtà, diventa: si è aperto un meraviglioso ciclo di film, che possa attraversare le generazioni come ha fatto la saga di 007? Probabilmente sì. Specialmente se la collaudata struttura del format rimane inalterata, in bilico tra la action-comedy e lo spy-thriller.

Lo scrittore Ed Solomon, che ha contribuito alla scrittura del primo film, ha collaborato alla nuova storia con Peter Chiarelli riuscendo a catturare lo spirito dell’originale, ad incorporare più illusionismo, intrigo e azione e ad inserire il tutto in un contesto internazionale, partendo dall’inedito presupposto di far cadere i Cavalieri vittime di un trucco magico che li lascia senza vie d’uscita. Un rovesciamento continuo di ruoli rende la sceneggiatura abbastanza ricca di sorprese anche per gli spettatori più esperti. Il resto del fascino è a vantaggio dell’illusione, intesa come arte magica e come patto di sospensione dell’incredulità, principio basilare dell’arte cinematografica. Un parallelismo che ricorda alla lontana il The Prestige di Nolan, senza averne, ovviamente, quella struttura perfetta da meccanismo da orologio svizzero.

Sullo schermo si susseguono numeri di micromagia, mentalismo, cartomagia, prestidigitazione, ipnosi, escapologia, fachirismo, perfino grandi illusioni e si ha la vivida sensazione di essere in presenza di un vero grande spettacolo di illusionismo. «È importante che il pubblico non pensi che li stiamo ingannando – afferma Chu – perché non è così. Facciamo magia sullo schermo così come la si vede, senza tagli».

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«Non ci si rende conto – spiega lo sceneggiatore Ed Solomon, – di quanto duro lavoro richieda creare qualcosa che sembri apparentemente agevole. Non sto parlando dei trucchi da illusionista, che siano piccoli, medi o grandi. Mi riferisco alla creazione dell’atmosfera magica in tutto il film, in modo che sembri tutto un unico grande trucco. Abbiamo cercato di creare la suspense dell’incredulità che nasce quando si guarda uno spettacolo di magia».

La collaborazione, anche nelle fasi di stesura del copione, di un artista del calibro di David Copperfield, anche co-produttore, e di altri suoi colleghi come Keith Barry è stata sotto questo aspetto fondamentale e i risultati si vedono. Gli attori hanno partecipato a un corso intensivo di illusionismo per affinare la loro destrezza nel far scomparire gli oggetti. Soprattutto hanno fatto molto esercizio per diventare esperti di cartomagia per una delle scene più emblematiche di Now you see me 2. Mark Ruffalo ha persino imparato a sputare il fuoco e il maestro illusionista di Woody Harrelson asserisce che «se decidesse di smettere di recitare per dedicarsi a tempo pieno all’ipnosi, dovremmo preoccuparci tutti, davvero».

Sarà stato un lavoro duro anche per Daniel Radcliffe passare dalle magie da piccolo wizard al manipolare oggetti come un vero magician, senza trucchi e inganni da green screen! La parte dell’inetto psicopatico sempre una spanna indietro agli altri, per quanto si possa dannare l’anima, sembra gli riesca naturale. Non si distingue e non caratterizza il suo personaggio in maniera memorabile e questo continua a far parlare i suoi detrattori che lo vedono ancora indissolubilmente legato al maghetto di Hogwarts. L’auspicio è che venga anche per lui un mentore che lo faccia strisciare nella neve, nel fango e nel sangue per scappare da critici voraci quanto orsi!

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Arthur Tressler: «L’inferno, a confronto, sarà un soggiorno alle terme».
Walter Mabry: «Mi avevi già convinto ad “inferno”!»

Tra morti inscenate e resurrezioni a sorpresa, lo spettatore può godere di una stupenda partita a scacchi, farcita di bei dialoghi, mai scontati e mai inutili. Da genio della tecnologia qual è, il personaggio di Radcliffe mette la scienza, la sua amata scienza, contro la magia dei paladini della giustizia, in una guerra che in realtà è tecnologia vs scienza, in quanto l’illusionismo altro non è se non un insieme di trucchi che sfruttano proprio la fisica, la meccanica, la chimica, l’idraulica, l’ottica e, non da ultima, la psicologia. Il trionfo delle scienze su palcoscenico, la vera “rivincita dei nerds”, se vogliamo.

Interessante è poi il mistero della carta dei tarocchi che appare nel momento del trucco fallito ad inizio film. Sappiamo da Now you see me che Atlas ha gli Amanti, Merritt l’Eremita, Jack la Morte e Lula la Papessa, eredità della Henley Reeves del primo film. In questo film appare una carta in mano a Dylan quando vengono i Cavalieri subiscono l’iniziale disfatta. È il Matto, ovvero la follia, la sregolatezza, ma rappresenta anche lo zero, il caos che origina il tutto, la tabula rasa che azzera e permette di ripartire per un nuovo viaggio. Cosa rappresenterà per loro questa carta? Chi si cela dietro di essa?

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Now you see me 2 è ineccepibile anche sotto l’aspetto tecnico. L’impiego della ARRI Alexa XT permette una fotografia satura, dai toni alti, che non perde definizione nei colori scuri e nei neri e che gestisce alla perfezione i bagliori e le luci della ribalta, nonché la credibilità della scena della manipolazione delle gocce d’acqua: probabilmente anche un inglese penserà che la pioggia di Londra non è mai stata così bella. La colonna sonora, curata ancora dall’ormai ambitissimo Brian Tyler [John Rambo, Iron Man 3, Truth], è una musica briosa, frizzante e adrenalinica, che mescola sapientemente il classico con il contemporaneo, come, del resto, la regia di Jon M. Chu.

The nice guys, di Shane Black

«Ma… Ha nominato il nome di Dio invano?»

«No! Mi è tornato utile!»

Shane Black, dopo Iron man 3, torna a dirigere un genere a lui caro e congeniale. In questo effervescente buddy movie che contamina il noir con la commedia, la strana coppia di inetti detective, formata dal violento ex poliziotto Jackson Healy [Russel Crowe] e dall’inconcludente investigatore privato Holland March [Ryan Gosling], si ritrovano a dover gestire le loro divergenze ed unire le forze per sbrogliare un caso molto più grande di loro.

Dopo gli esplosivi 48 ore, Arma letale, L’ultimo boyscout, Black propone con successo, fuori concorso a Cannes, una nuova coppia mal assortita di outsider, di antieroi, che tutto vorrebbero fuorché complicarsi la vita, già di per sé mal messa, con un lavoro complicato e pericoloso. Come esterna spontaneamente il regista, fondamentale è stato il lavoro di Gosling e Crowe che, come esterna spontaneamente il regista e sceneggiatore, «sono entrambi attori di massimo livello che hanno saputo infondere la vita nei loro personaggi; e la storia non è solo una commedia o un film d’azione, ma una perfetta combinazione di entrambi».

«I giorni delle signore e dei gentiluomini è finito».

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Healy è più pragmatico e spartano: è «cresciuto da irlandese a Riverdale nel Bronx» e ha un passato mai dimenticato nella polizia, che gli ha fornito un’etica di base la quale, però, si scontra con un bisogno irrefrenabile di sfogare la violenza repressa e generata da vicende non espresse esplicitamente in questo film. March è diventato prematuramente vedovo, con progetti di famiglia e di casa rimasti miseramente incompiuti; questo lo spinge a cercare costantemente scorciatoie, immerso in un loop depressivo in cui si alternano fasi di cinica lucidità, quando deve cogliere occasioni per spillare soldi facili ad ingenui clienti, e stati di oblio dovuti all’eccesso di alcool nel sangue. Il personaggio di Gosling sarebbe un perdente irrecuperabile su tutta la linea, se non fosse per sua figlia Holly, una tredicenne cresciuta in fretta, con uno spiccato senso della giustizia, una perspicacia probabilmente, derivata sicuramente dai cromosomi materni, e una simpatica attitudine ad ignorare le regole paterne.

«Questione di genetica!»

Holly è interpretata dal talento australiano Angourie Rice, che già aveva conquistato il pubblico di Cannes come coprotagonista nel dramma di ambientazione apocalittica These final hours e che vedremo in Jasper Jones (regia di Rachel Perkins), adattamento cinematografico del romanzo di Craig Silvey. Per interpretare al meglio i ruoli di padre e figlia, i due attori hanno trascorso parecchio tempo insieme, e l’alchimia che è derivata da questo metodo la si evince palesemente sul grande schermo.

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The nice guys è un noir con molti elementi da commedia rocambolesca, un buon poliziesco dalla storia non convenzionale, leggermente surreale, nella quale si muovono personaggi esasperati eppure credibilissimi, familiari oserei dire. Healy e March sono, alla luce dei fatti, due idioti che si completano come in un’unione ben riuscita, e dire che Healy non perde occasione di rendere palese, con battute sarcastiche, che odia il matrimonio, il perché lo scopriremo in un probabile sequel.

«Vomitiamo e poi ci sbarazziamo del corpo».

Gosling coglie appieno l’essenza stessa del film: «La sceneggiatura – scritta a quattro mani da Anthony Bagarozzi [Death note] e dallo stesso Black – non si prende troppo sul serio… i personaggi sì; è proprio questo che li rende ridicoli».

Fotografata creativamente da un Philippe Rousselot [Animali fantastici e dove trovarli, Big fish, Charlie e la fabbrica di cioccolato] che ci regala un bell’incipit con ripresa aerea della città partendo da dietro la famosa insegna di Hollywood, la Los Angeles degli anni ’70, è ricostruita egregiamente dallo scenografo Richard Bridgland [Priest, Rock’n’Rolla] e dalla costumista Kym Barrett [collaboratrice fissa dei fratelli Wachowski]. Con l’aggiunta di una colonna sonora molto colorita e variegata, in tono con il resta dell’ambientazione, che evoca i party fuori di testa nel bel mezzo del boom del cinema a luci rosse. I compositori John Ottman e David Buckley radunano pezzi di storia della musica come Bee Gees, Kiss, America, Kool & the Gang, Al Green e addirittura portando fisicamente sulla scena gli Earth, Wind & Fire, una vera chicca per gli appassionati.

The nice guys è spettacolare e divertente fino alle lacrime, sin dal prologo.

Non perdetevi l’inizio!

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