drammatico

L’uomo che uccise Don Chisciotte, di Terry Gilliam

L’uomo che uccise Don Chisciotte è la rilettura del capolavoro della letteratura spagnola attraverso l’ottica grandangolare di Terry Gilliam. La sua creatività lucida e ludica – se mi passate questo facile anagramma, che è più uno scambio di consonante – ha creato col tempo, molto tempo, quasi 25 anni, una storia surreale e grottesca, un film che è un inusuale connubio di visionario e concreto: la realtà che sa illudere più della fantasia, la quale compenetra la vita reale fino a trasformarla e successivamente negarla per diventare infine rappresentazione morale dell’uomo moderno, o forse più postmoderno.

L’uomo che uccise Don Chisciotte, oggi, è un film ben diverso da quello progettato nella prima produzione andata a rotoli nel 2000. Anche se è rimasto un piccolo nucleo tematico vagamente riconducibile al romanzo Un americano alla corte di Re Artù di Mark Twain con cui era stato creato un incantevole mash-up, nella nuova produzione, arrivata dopo varie vicissitudini su cui si è speculato tanto da far capire la differenza tra “recensione” analitica e “critica” immotivatamente distruttiva.

Don Chisciotte

A lungo è stato il film che sembrava non dover mai veder la luce nel buio della sala, pertanto non poteva che meritarsi, da parte mia, una recensione che sembrava non poter essere messa nero su bianco per veder la luce del vostro schermo retroilluminato. Credo che nessuno degli addetti ai lavori possa dissentire, quantomeno per empatia: varie peripezie mi hanno portato a riprendere gli appunti, rivedere la pellicola e ragionare di nuovo a freddo sulle tematiche. Devo dire che la stratificazione dei significanti è tale da richiedere visioni successive e questo accade solo con film profondamente interessanti. Da Terry Gilliam non ci si poteva aspettare niente di più e niente di meno.

«Ho capito subito che nella sceneggiatura c’erano più livelli da scoprire, e in più era anche molto divertente. Era un modo originale di raccontare la storia di Don Chisciotte, mostrandola da una certa angolazione. L’ho trovata geniale.»

Adam Driver
Un assaggio dello storyboard del film lo trovate sul sito di Pablo Buratti

Come già aveva fatto Cervantes, Gilliam gioca con gli specchi e i simulacri, comunica attraverso le allegorie e lascia libera l’interpretazione del messaggio morale se sia la realtà a “uccidere” ogni illusione o se vivere sognando possa in qualche maniera far digerire la cinicità del quotidiano e lasciar sopravvivere ciò che di epico e cavalleresco ci sia in ognuno di noi.

A tal proposito, è illuminata la scelta di spostare l’attenzione del protagonista dalla ricerca di una vita valorosa come cavaliere errante al sogno condiviso dei personaggi principali di sfondare nel mondo del cinema, la macchina delle illusioni per eccellenza. Solo la mdp è reale. Tutto ciò che è diverso da essa, ciò che riprende, ciò che produce, è comunque finzione, simulacro della realtà. Ma come si fa a non perdersi in essa quando la fascinazione è così suggestiva?

Quello de L’uomo che uccise Don Chisciotte è un magnifico modo per modernizzare la spinta iniziale che origina le avventure del cavaliere dalla triste figura, per immedesimare il pubblico di qualsiasi età, anche il gamer più appassionato che di realtà virtuale e illusione del reale può insegnare a chiunque per quanta ne divora, o ne è divorato.

Toby [Adam Driver: Blackkklansman, Star Wars: Gli ultimi Jedi], cinico e disilluso regista pubblicitario, trova una copia del suo film sperimentale di quando era un giovane studente idealista di cinema. Si tratta della sua personale rivisitazione del Don Chisciotte, girata in un pittoresco villaggio spagnolo, sfruttando riprese dal vivo e attori non professionisti, «per uscire dai cliché» (che poi, in realtà, è da sempre lo stereotipo più in voga tra gli esordienti), secondo uno stile smaccatamente neorealista. Il mondo dello show biz lo ha reso un insensibile arrogante egocentrico narcisista, ma partire alla riscoperta di quel nostalgico passato lo porta ad incontrare quel vecchio calzolaio, Javier [Jonathan Pryce: Brazil, The wife – Vivere nell’ombra], che era diventato il suo protagonista e che non è mai più riuscito ad uscire dalla parte.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Ma il suo piccolo e modesto film non ha finito di provocare sventure: come altri del posto – Los Sueños è il nome del paesello (ammicco!) – anche Toby dovrà assecondare il redivivo “cavaliere dalla triste figura” che lo ha eletto suo fedele scudiero e così facendo ritroverà perfino un amore dimenticato, la dolce Angelica [Joana Ribeiro], non più “donna angelicata”, ma anch’essa vittima della situazione e corrotta dal desiderio di gloria, fama e ricchezze.

La convivenza con la fantasia sfrenata di Javier gli fa perdere l’aderenza con la realtà fino a viaggiare al suo fianco fra tornei cavallereschi improvvisati, giganti da sconfiggere, donzelle da salvare, cattivi da uccidere e grandi imprese da compiere per rinnovare gli antichi valori perduti di un’epoca fantastica in tutti i sensi.

Follia. Amore e morte. Eros e Thanatos. Follie d’amore. Amore per i classici. Amore e passione. Passione per il cinema.

Tematiche che Gilliam riesce nell’intento di racchiuderle in scatole intrecciate e comunicanti in un intricato gioco di intarsi che si uniscono e danno vita a nuove riflessioni che s’incastrano in un flusso continuo simile alle famose scale di Escher.

Questo straniamento dalla realtà, in un percorso onirico che porta alla luce sogni e rimossi freudiani, insieme al suo contrario, la contaminazione del fantasy con elementi della realtà, è un tema ricorrente nella sua filmografia: Brazil, Tideland, Le avventure del Barone di Munchausen, L’esercito delle 12 scimmie, Time bandits, The Zero Theorem, Parnassus.

Tutti questi ribaltamenti trovano il contraltare nel film che pubblico e critica hanno bollato quasi unanimemente come anomalia che va controcorrente al resto: I fratelli Grimm e l’incantevole strega. La verità è che in quel diverso contesto, dove è chiara la matrice fiabesca, il regista va ad operare comunque un twist concettuale esplicitando le basi reali che, rielaborate dagli scrittori sottoforma di allegorie, portano proprio alla scrittura della fiaba. La coerenza del lavoro di contaminazione reciproca tra fantasia e realtà risulta ancora più evidente dopo L’uomo che uccise Don Chisciotte, e soprattutto sapendo che a questa trasposizione ci lavora da 25 anni.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Considerata nella sua totalità, la fase di produzione attraversa come un meteorite sconosciuto tutta la pazzesca filmografia del Monty Python regista. Quante volte Terry Gilliam deve aver sfiorato l’estinzione! Deve essersi davvero sentito un dinosauro se nel frattempo ha deciso di scrivere la sua autobiografia pre-postuma quando ha ancora così tanto da dire!

Di solito la si pubblica perché si è messo un punto. Quindi è l’ultimo film? È stato preso da megalomania? È furbo? Forse un po’, ma se t’incaponisci tutto questo tempo su un progetto fatto e disfatto talmente tante volte che sembra maledetto, forse non è furbo il termine che tutti penserebbero… Pazzo? Sì, forse è un vocabolo più calzante, ma se s’intende una follia buona, quella che va a braccetto con la creatività, quel caos interiore che fa partorire una stella capace di danzare.

A mio parere, l’autobiografia sancisce un traguardo raggiunto, come una maturità o una laurea e il film L’uomo che uccise Don Chisciotte rappresenta l’elaborato di fine corso. È mettere un punto su qualcosa che sembrava irrealizzabile. È celebrarne la riuscita in faccia a chi non voleva e tuttora bistratta per invidia. È mettere il punto e lasciare un’eredità per chi vuol capire e per chi verrà a scontrarsi con gli stessi problemi. Mi piace pensare che sia un punto ma che si possa voltar pagina e trovare nuove pagine bianche da riempire con la stessa passione, goliardia, fantasia e autoironia che sono per questo autore un marchio di fabbrica distintivo.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

«Credo che Terry abbia continuato a ritardare questo film solo per farmi invecchiare abbastanza da poter interpretare Don Chisciotte. E così è stato!»

Jonathan Pryce

Sono note a tutti ormai le vicissitudini che hanno portato a procrastinare le riprese del progetto iniziale, grazie al documentario Lost in La Mancia. Quello che però è poco noto è che pare che una maledizione aleggi sopra chiunque sia intenzionato a trasporre l’opera di Cervantes. Un nome su tutti: Orson Welles. L’idea del suo Don Quixote nasce nel 1955 mentre si trovava in Spagna per alcune riprese organizzate dalla RAI, ma durante la lavorazione, il regista ha visto dilatarsi la mole di girato ben oltre l’immaginabile fino a perderne probabilmente il nucleo tematico dominante e diventando uno, nessuno e centomila film possibile e, quindi, di fatto, impossibili. Oggi di tutto quel lavoro resta un mediometraggio montato da Jess Franco, che solo in una minima parte rende giustizia alla genialità di Welles. Da quello che si evince si trattava di un film fortemente sperimentale – come quello di Toby (ammicco ammicco!) – nelle intenzioni, un’opera con una forte connotazione metacinematografica – come l’opera di Gilliam – e con gli unici quattro attori lasciati completamente liberi di improvvisare.

Fortuna per tutti che la maledizione sia finita per L’uomo che uccise Don Chisciotte e che possiamo dire «Quixote vive». D’altronde, si sa, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi e così mi sembra giusto che la mente ingegnosa di Terry Gilliam abbia partorito, come Bugs Bunny, 1001 modi per ingannare il diavolo, meglio di Parnassus. È la scelta del titolo a scatenare questa riflessione, molto più della trama, annodata come un tappeto persiano tra sogno e realtà.

Non “Don Chisciotte” e nemmeno “Don Chisciotte” con un sottotitolo tipo “un’avventura ai confini del sogno” o “la maledizione del tristo cavaliere”… bensì L’uomo che uccise Don Chisciotte.

Ok, “Don Chisciotte” c’è, ma non puoi certo esimerti dal citarlo, sarebbe finezza d’altri tempi e poi il suo nome è una condensazione di immagini, un cluster che rappresenta più concetti per antonomasia.

Don Chisciotte è affetto da una sorta di sindrome di Stendhal: legge i classici nel Seicento e questo vuol dire che s’immedesima in personaggi epici che sono eroi dalle scintillanti armature che viaggiano nel mondo per renderlo migliore, lottando contro il Male, armati soprattutto di virtù cavalleresche che sono poi andate perse nel tempo con il progresso tecnologico. Don Chisciotte ne raccoglie l’eredità, fa suoi quei valori, li incarna, ma ostinandosi a portarli avanti in un mondo che non li riconosce più. Così diventa il diverso che non è omologato e che rifiuta di esserlo. Lo rifiuta a tal punto da aderire ad un mondo di fantasia che diviene la sua personale evasione. La condizione è talmente radicata in lui da non riuscire più nemmeno a separare ciò che è reale da ciò che è mera illusione. Perciò non è pazzo di per sé ma abbraccia la follia poiché è l’unica “realtà” in cui riconosce se stesso, in cui ama se stesso, e nel film di Gilliam questo concetto è strettamente legato a quello di eredità. È come se Don Chisciotte volesse insegnare a vivere a chi è intorno a lui scegliendo un destino tanto epico nella teoria quanto sfortuna nella pratica, piuttosto che morire dentro senza far nulla mentre la vita scorre secondo omologazione di un modello diffuso. La morte è, quindi, considerata parte del percorso intrapreso, la fine di un’avventura personale che potrebbe sancire l’inizio di un’altra storia per chi eredita quella “fortuna”.

Ma il vero enigma che rimane da risolvere è chi sia L’uomo che uccise Don Chisciotte – e probabilmente è anche giusto che il mistero rimanga tale per non lasciare la sfinge senza enigmi. Ma proviamo comunque a formulare qualche congettura dato che non genera nessuno spoiler. Il titolo del film è usato nella maniera ermetica di Ungaretti come un verso in più, per aggiungere significato al resto e moltiplicare le chiavi di lettura.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Dalla tematica del cinema in quanto macchina delle illusioni potremmo essere portati a pensare che sia stato quel “maledetto” film su Don Chisciotte ad “uccidere” l’identità del calzolaio Javier che è rimasto imprigionato nella parte e poi la passione e spontaneità del regista sperimentale Toby per mano della sua copia meschina ed egoista creata dal successo. Le promesse non mantenute, i desideri non esauditi, però, significherebbero una critica estremamente negativa del cinema prima che dello show biz, non certo nuova per Gilliam. Un messaggio non tanto diverso da quello de L’uomo delle stelle di Giuseppe Tornatore. Di nuovo “l’uomo” nel titolo, quasi a voler sottolineare la fallacità umana, a voler attribuire ai comportamenti delle persone le magagne di un’industria cinematografica che sappiamo benissimo quanto sappia investire sul personaggio che rappresenta la moda del momento e non accordare finanziamenti per un progetto culturalmente di interesse nazionale e internazionale come L’uomo che uccise Don Chisciotte.

Chi altro può aver ucciso Don Chisciotte? È possibile si tratti dell’uomo in generale. L’uomo moderno ha ucciso l’hidalgo di Cervantes dal momento che ha abbandonato i valori che lui amava. L’uomo postmoderno, come potrebbe essere Toby insieme al suo entourage, potrebbe aver ucciso l’opera dimenticandone la lezione di vita e preferendo l’ambizione di gloria, fama e ricchezze.

Il gitano viene chiamato “Diaz ex machina” negli end credits per alludere alla sua funzione

Oggi sono in tanti a riscoprire questo classico della letteratura e a proporne delle interpretazioni o a citarlo senza travisarne il messaggio. Dopo Gilliam, anche Galder Gaztelu-Urrutia ha voluto sfruttarne gli insegnamenti per caratterizzare il protagonista del suo Il buco. Se per la produzione spagnola si tratta di un parallelismo metaforico che risulta più politico-sociale, nel visionario Monty Python è la riflessione sulla condizione umana – sul senso della vita! – in tono poetico con spunti riguardanti il retaggio per i posteri, la sottile linea tratteggiata che separa il sogno dalla realtà e la “follia” dall’omologazione travestita da “normalità”, ma soprattutto su cosa si possa o si debba considerare leggendario. Il significato di questo usatissimo gerundio latino, leggenda, è “le cose che sono da leggere”, degne di essere lette. E chi lo decide cosa è degno di entrare nella leggenda? Ormai troppo spesso questo compito è affidato alla moda o all’eccentricità piuttosto che all’esemplarità di pensiero e azione. Se anche voi confrontate con disprezzo i cartoni animati di oggi, privi di messaggi e valori, con quelli degli anni ‘70/’80, forse fin troppo da adulti a volte, allora sapete quanto possa essere attuale il nucleo tematico del Don Chisciotte e quanto sia geniale Gilliam ad averlo attualizzato in una critica allo show business.

E ad incaponirsi a finirlo ne aveva ben donde!

«Penso che il problema di Don Chisciotte sia che quando ti appassioni a questo personaggio e a quello che rappresenta, diventi tu stesso Don Chisciotte. Ti muovi nella follia, determinato a trasformare la realtà nel modo in cui la immagini. Ma che, ovviamente, si rivela molto diversa.»

Terry Gilliam
L’uomo che uccise Don Chisciotte

Infine, un fanatico di cinema classico potrebbe riconoscere una certa assonanza di titoli con uno dei migliori film di John Ford: L’uomo che uccise Liberty Valance. Un western più che crepuscolare dove un John Wayne in grande spolvero interpreta un cowboy solitario che lascia in eredità un west da rivoluzionare all’avvocato James Stewart. Costui non è di certo un pistolero provetto, ma di sicuro ha le qualità per essere un “cavaliere senza macchia e senza paura”, una figura positiva molto più utile per un nuovo mondo in cui sono la legge e l’inchiostro non il piombo dei proiettili a compiere imprese eroiche. Come il Don Chisciotte di Cervantes e di Terry Gilliam il personaggio interpretato magistralmente da John Wayne risulta fuori luogo e fuori (dal) tempo in un’epoca di innovazione politica e sociale. Come Don Chisciotte rimane un nostalgico amante dei bei tempi andati e quando i tempi cambiano in nome del progresso o ci si eclissa con loro in silenzio e solitudine o si può lasciar spazio al giovane lasciandogli in eredità un messaggio indimenticabile, immortale come una leggenda che sa andare al di là di ogni menzogna, oltre ogni illusione, verso un orizzonte che è al tramonto per qualcuno e all’alba per chi verrà dopo.

Come ne L’uomo che uccise Don Chisciotte e in Cervantes, nel metawestern di Ford svelare la menzogna non comporta di rendere pubblica la verità, che resta il fardello di un eroe incompreso per sempre.

«Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda».

L’uomo che uccise Don Chisciotte

In una realtà senza paladini, l’eroe appartiene al mondo dei sogni, non può che venire dal paese di Los Sueños e lì tornare, come un eterno Peter Pan in una Neverland dove si può essere indifferentemente bambini sperduti o leggende viventi: tutto dipende da quanto si è giovani dentro, da quanto si riesce ancora a sognare ed essere felici, di ciò che si ha e di ciò che si è.

Anche le mie parole non rimarranno immortali, per quanto lette, rilette, amate, odiate, capite ma non comprese; ve ne dimenticherete perché così è la vita, non ve ne dovete rammaricare se non me ne rammarico io. Ma se c’è un piccolo granello di sabbia splendente che vi rimane nel cuore, è proprio per quel momento di evasione che vi si è offerto. Un pensiero felice e puoi volare.

Grazie, Terry!

L’uomo che uccise Don Chisciotte

The wife – Vivere nell’ombra, di Björn Runge

Tratto dal romanzo omonimo di Meg Wolitzer, The wife è un film ordinario nella sua forma più classica, dotato di una certa robustezza emotiva, ma privo di un editing che ne dinamizzi le scene o ne svecchi il decoupage. Qualche tecnicismo di natura registica non avrebbe di certo tolto interesse alla storia in sé. Così, a coinvolgere lo spettatore rimangono “solo” la sceneggiatura, magari non troppo moderna né coraggiosa, della pluripremiata Jane Anderson e la recitazione di tutto il cast, quella davvero al di sopra delle aspettative.
La sorpresa non è tanto nell’interpretazione di Jonathan Pryce, protagonista già in Brazil e in L’uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam, ma forse dalla maggior parte degli spettatori conosciuto per il ruolo dell’Alto Passero nella serie televisiva di gran successo Il Trono di Spade. E di certo nessuno può pensare che Glenn Close [La ragazza che sapeva troppo, Seven Sisters e, ovviamente, Attrazione fatale] possa non rendere qualsiasi interpretazione come qualcosa di memorabile.


L’inaspettato giunge, invece, dai cosiddetti figli d’arte: Max Irons, figlio di Jeremy Irons e dell’attrice irlandese Sinéad Cusack, dopo essere passato un po’ inosservato in film come The host e Cappuccetto rosso sangue, si cala bene nel ruolo di David, il figlio deluso della coppia di protagonisti, aggiungendo forse qualcosa di autobiografico; ancora più sorprendente è stato, invece, poter apprezzare la figlia di Glenn Close, Annie Starke, nata dalla relazione con il produttore John H. Starke. Alla sua prima parte di un certo livello, non fa di certo pensare ad una raccomandazione tra le più classiche. Più di ogni altra considerazione si fa largo il pensiero che buon sangue non menta: Annie interpreta lo stesso personaggio della madre ma la versione giovane nei flashback e riuscire a riconoscere certi sguardi altamente espressivi e vedere quanto possa donare al pubblico, vale già il prezzo del biglietto.
«Io adoro scrivere: è la mia vita».

A completare il cast c’è anche Christian Slater [Intervista col vampiro, Nymphomaniac] che interpreta Nathaniel Bone, un giornalista che aspira a scrivere la biografia dello scrittore e che cerca, perciò, di portare alla luce non i fiori ma le spine di quel roseto che sembra essere la vita dei due protagonisti. Non è Quarto potere di Orson Welles, questo è da dire anche se scontato, ma il giornalista risulta fondamentale come espediente narrativo per scavare all’interno dei personaggi e per scatenare la riflessione.


The wife diventa, così, pretesto per discutere di guerra dei sessi, discriminazione femminile soprattutto in una delle cattedrali della società patriarcale: l’editoria. Assurdo che per certi versi non sia cambiato molto in quell’ambiente da quando la nostra Sibilla Aleramo lottò per pubblicare il suo Una donna e ancor di più per emanciparsi e autodeterminarsi liberamente secondo le proprie volontà. Assurdo anche che un’occasione come questa di trasporre per il cinema il coraggioso romanzo di Meg Wolitzer si riduca ad una tiepida protesta: il pubblico di oggi, abituato a tifare per la libertà di June e delle altre ancelle nella serie tv The handmaid’s tale forse avrebbe bisogno di un po’ più di profondità se non di azione.
«Ho letto i primi lavori giovanili di Joe… strano quanta sia migliorata la sua scrittura dopo aver conosciuto lei!».

The wife è la storia di una donna forte quanto sfortunata, la cui unica colpa risulta essere quella di aver scelto per la vita un uomo che non la merita. Quante storie di questo tipo avrete sentito raccontare da amici o familiari? Addirittura, nella peggiore delle ipotesi, potreste aver vissuto qualcosa di simile.
«Credo che lei sia stufa e stanca di essere invisibile».

La storia, incastrata in un film che purtroppo non si distacca dalle norme del cinema classico americano e dalla sua forma quanto mai rassicurante, ha un sacco di tempi morti che, però, permettono di apprezzarne, appunto, la recitazione e di riflettere. La storia è importante e rispetta i canoni del film da premio Oscar: come sempre si tramanda, giustamente, se non si ha nulla da raccontare è inutile prendere una penna in mano, mettersi davanti ad una tastiera a scrivere o dietro una macchina da presa a girare. Da raccontare E per una valida narrazione che sappia coinvolgere occorre un conflitto.  Figuriamoci in un film in cui si parla di narrazione in maniera per nulla marginale.

In The wife il conflitto principale riguarda l’autodeterminazione. Subito è sotto gli occhi dello spettatore come l’equilibrio iniziale sia un mero castello di carte:

un anziano scrittore di romanzi di successo, Joseph Castleman [Jonathan Pryce], sta per essere premiato con il Nobel. Nel viaggio verso il coronamento di una carriera magistrale lo accompagnano la moglie Joan [Glenn Close] e il figlio David [Max Irons]. David aspira a seguire le orme del padre, lo idolatra ma senza ottenere né considerazione né tantomeno l’approvazione desiderata. Joan, per il suo Joe, ha rinunciato a qualcosa di ben più grande, per lui ha vissuto una vita di rinunce, di segreti e di menzogne, da promettente romanziera a figura dimessa e marginale, costretta nel ruolo di moglie devota, pronta a sostenerlo nei momenti difficili, a colmarne le mancanze, a ricucire rapporti, a mediare con estrema diplomazia ogni rottura e ad insabbiare con assoluta discrezione qualsiasi scandalo o scappatella.
«Chi è Hersilia Fry?».

Le luci della ribalta quali scheletri tireranno fuori, in quale mostruoso abisso getteranno il loro sguardo inquisitorio?

Il fatto che l’ostacolo al successo di ognuno dei personaggi sia proprio la persona che sta per essere premiata con la più alta onorificenza nel campo della Letteratura rende la storia ben più complessa di un normale conflitto familiare.

Si dice che dietro ogni eroe si celino angoli bui che è meglio tener nascosti, ma cosa può accadere se l’eroe è solo presunto tale, se si è macchiato di un delitto, seppur figurato, distruggendo i sogni letterari della moglie, e non solo i suoi?

Oltre alle riflessioni sul ruolo femminile e sulle delusioni dei figli d’arte, il film punta a ragionare su cosa possa esserci ancora di vero in un mondo in cui, per aver successo, bisogna scendere a patti con i lati oscuri della propria anima, un mondo per cinici calcolatori, esperti di statistiche e marketing. C’è ancora una speranza di meritocrazia? È possibile una sensibilità indiscriminata nei confronti dell’Altro in quanto diverso da noi, ma egualmente meritevole di opportunità di fortuna, come si domandava in altri tempi Cicerone?

Per quanto riguarda i brani musicali è Jocelyn Pook a commentare le scene per lo più con musica da camera priva di brillantezza. Pook ha acquisito risonanza internazionale componendo la colonna sonora del film di Stanley Kubrick Eyes Wide Shut, celeberrimi i brani relativi alla sequenza del ballo in maschera. Altra perla non sfruttata nella maniera adeguata.

In conclusione, The wife è un film che interessa ma non affascina, che fa riflettere ma non illumina. E nell’ombra è difficile brillare.

Di rilievo, per contro, un tentativo di chiudere una struttura ad anello con la citazione verbale e visiva di un verso di James Joyce:
«La sua anima si dissolse lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti».

Presentato in anteprima mondiale al TIFF 2017, The wife è pronto per approdare nelle sale italiane dal 4 ottobre 2018.

Lady Bird, di Greta Gerwig

Arriva nelle sale italiane dal 1° marzo 2018 uno dei migliori film americani del 2017: Lady Bird!

Il film d’esordio di Greta Gerwig, attrice di media fama, conosciuta più per aver interpretato e/o scritto alcuni film di Noah BaumBach [Mistress America, Frances Ha, Lo stravagante mondo di Greenberg] piuttosto che per aver preso parte a film più o meno di successo come Jackie o To Rome with love. A quanto pare, però, è una regista di sensibilità e intelligenza notevoli, così la sua commedia introspettiva si posiziona al primo posto nella classifica annuale della rivista Variety, finisce al 19° posto nella classifica dei 25 migliori film dell’anno secondo Sight & Sound e guadagna un onorevole 5° posto sul sito Rotten Tomatoes, che per fama non è mai prodigo di voti, nemmeno con pellicole di indubbio successo.

Scritto e diretto dalla stessa Gerwig, Lady Bird ha aperto la sezione Special Presentations al TIFF [Toronto International Film Festival] del 2017, ricevendo una standing ovation dal pubblico estasiato. In tutto il mondo ha ricevuto e riceve tuttora ottimi riscontri da parte anche della critica, riscontri che si sono tradotti in parecchi riconoscimenti tra cui 2 Golden Globe su quattro candidature e le cinque nomination agli Oscar® 2018: miglior film; miglior regista per Greta Gerwig; miglior attrice per Saoirse Ronan; miglior attrice non protagonista per Laurie Metcalf; migliore sceneggiatura originale. Realisticamente a pochissime chance, ma le sorprese possono verificarsi.

«Chiunque parli dell’edonismo californiano non ha mai trascorso un Natale a Sacramento [Joan Didion]».

Ambientato nella città di Sacramento, città natale della regista, Lady Bird racconta un anno della vita di una teenager all’ultimo anno di high school (2002 – 2003), Christine MacPherson [Saoirse Ronan, Amabili resti, Brooklyn]. Christine vuole evadere dalla sua famiglia e dalle restrizioni della provincia americana in modo da avere la possibilità di costruire il proprio futuro in un college che sia lontano dall’asfissiante realtà in cui vive tutti i giorni. Ama farsi chiamare “Lady Bird”, proprio per una più o meno consapevole voglia di spiccare il volo e andarsene via per lasciarsi tutto alle spalle: la città, gli amici, l’amore, la famiglia. Christine vive un periodo di ribellione e contrasto nei confronti dell’autorità e di quanto la vita sembra offrirle e cambiare il nome è un primo atto di emancipazione. Lady Bird desidera l’avventura, vorrebbe «vivere qualcosa di memorabile», l’amore che cambia la vita, un’università di alto livello e frequentata da persone “strafighe”, persegue la raffinatezza o l’eccentricità, tutto pur di farsi notare, e pretende l’opportunità che l’America dovrebbe offrire a ognuno, ma non trova nulla di tutto questo né nel suo liceo cattolico né in tutta la città di Sacramento.

«Odio la California! Preferisco la East Coast»

Ad essere perennemente sotto esame per Christine è il suo rapporto con gli altri, sempre troppo patetici e problematici per una ragazza che sente di meritare di più. Si sente relegata «dal lato sbagliato della ferrovia» e sogna di abbandonare la sua bassa estrazione sociale guadagnandosi un posto migliore nei quartieri alti, poco importa se le sue azioni possono rovinare le sue più antiche amicizie o mortificare ogni dinamica familiare. In questo contesto di ribellione e ansia da prestazione, è soprattutto il rapporto di amore/odio con la madre, la sorprendente Laurie Metcalf [Io e zio Buck, Pappa e ciccia], a tessere la ragnatela di riflessioni psicologiche più fitta. Le due alternano momenti di amorevole tenerezza e gesti d’affetto a periodi di attriti continui e conversazioni asettiche da diplomatici internazionali in tempo di guerra fredda. L’incipit del film è proprio una loro discussione in macchina dopo aver ascoltato Furore di John Steinbeck e la conclusione del diverbio è a dir poco originale ed esilarante.

Questo tipo di spaccati sociali tipici del panorama indie sono da sempre amati dal pubblico americano e dalla critica autorevole delle kermesse cinematografiche, perché raccontano e riflettono una società più vicina alla realtà dello spettatore medio. Nel corso degli anni la differenza tra cinema mainstream e indie si è andata via via assottigliandosi e molte grosse case di produzione hanno investito nel settore con compagnie-satellite o hanno inglobato gli indipendenti originari, ma è bello vedere in Lady Bird quel coraggio di affrontare tematiche complesse come l’omosessualità, le angosce esistenziali, le droghe, la disoccupazione, le malattie, i rapporti difficili con la scuola o con la famiglia attraverso un registro drammatico-introspettivo che mal si abbina alla commerciabilità del prodotto film.

Lady Bird sembra continuare idealmente un viaggio psicanalitico a ritroso delle sceneggiature di Greta Gerwig: Frances Ha è la storia della fortuna altalenante di un’aspirante ballerina di 27 anni e Mistress America racconta l’esperienza poco emozionante di una matricola del college. Magari è presto per parlare di autorialità, ma la “ragazza” va tenuta d’occhio.

Nonostante una sceneggiatura spigliata, velatamente autobiografica, e una recitazione sentita, non si può dire che Lady Bird sia particolarmente curato dal punto di vista formale: non presenta un montaggio accattivante, originale o stilisticamente degno di nota; nemmeno la fotografia brilla e la musica si palesa quel tanto che occorre per alleggerire e commentare le scene. Ma allora, cosa di Lady Bird ha conquistato l’America e il resto del mondo, tanto da far inserire il film nella lista dei migliori film dell’anno o da renderlo meritevole di una statuetta o più agli Oscar® 2018? Pare che negli ultimi tempi sia molto in auge premiare chi segue il detto LESS IS MORE, da intendersi, ovviamente, non nell’interpretazione operata da Downsizing. Greta Gerwig scrive e dirige un’opera che fa dell’essenzialità il suo pregio più grande.


La trama scorre senza divagazioni sterili coinvolgendo gli spettatori, chi più chi meno, in una crisi esistenziale di fine adolescenza, nella quale risulta importante il percorso e non la meta finale, parafrasando la massima di Thomas Stearns Eliot. Il Nobel 1948 per la letteratura non è l’unico ad aver ispirato le riflessioni filosofiche della neoregista americana: l’intero viaggio esistenziale della protagonista richiama alla mente le riflessioni di Marcel Proust, “la scoperta non consiste nel cercare nuovi posti ma nel vedere con occhi diversi”, e di Seneca, per il quale “viaggiare e cambiare luogo infonde nuovo vigore alla mente”. Ma è citando Steinbeck nell’incipit che la regista fornisce la chiave per interpretare il film: L’uomo è un animale che vive d’abitudini. Si affeziona ai luoghi, detesta i cambiamenti. […] Ho finito per persuadermi che un uomo deve lasciarsi vivere. Prendere la vita come viene, e non cercare di modificarla.

«Alcuni non sono fatti per essere felici»

Nota a margine: il compositore di Se mi lasci ti cancello e Ubriaco d’amore, Jon Brion, ha curato la colonna sonora di Lady Bird inserendo anche brani tratti da musical di successo: Being alive [Company], Everybody says don’t [Anyone can whistle] e Giants in the sky [Into the Woods], tutte scritte da Stephen Sondheim, che ha anche composto il musical “Merrily we roll along” in cui si esibiscono Lady Bird e gli altri membri del corso di recitazione.

Fa parte del cast anche Timothée Chalamet, candidato all’Oscar® 2018 per il ruolo di Elio Perlman nel film Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino.

Downsizing – Vivere alla grande, di Alexander Payne

E se la soluzione ai più grandi problemi dell’umanità fosse rimpicciolire l’uomo?

È la tesi portata avanti da Downsizing – Vivere alla grande, il film che ha aperto il Festival di Venezia 2017. Il regista, Alexander Payne, stavolta tira di molto su l’asticella e punta a modernizzare il concetto stesso di commedia innestando ad un plot che parte da un presupposto fantascientifico una ramificazione di riflessioni su concetti che vanno dal concreto materialismo alla filosofica ricerca della felicità, dall’ironia della sorte al sottile confine tra volontà e possibilità.
«La porta per la felicità si apre verso l’esterno».

Payne è stato autore di grandi successi di critica come A proposito di Schmidt, Election, Citizen Ruth o Nebraska, il più recente, che gli è valso la nomination come miglior regia agli Oscar® 2014. Come sceneggiatore invece l’Oscar® l’ha ottenuto: nel 2012 e nel 2005 per le sceneggiature rispettivamente di Paradiso amaro (The descendants) e Sideways – In viaggio con Jack.
«Rimpiccioliscono le persone, vanno su Marte, ma non sanno curare la mia fibromialgia».

Uno scienziato norvegese trova il modo di ridurre la massa cellulare degli organismi viventi. Questa già enorme scoperta scientifica diventa ancora più significativa quando 36 volontari decidono di sperimentare la vita da un altro punto di vista. Rimpicciolire l’uomo diventa quindi un modo per rimediare in una botta sola a sovrappopolazione, inquinamento, crisi economica e sfruttamento delle risorse energetiche. Questa «sostenibilità a misura d’uomo» giunge all’orecchio di Paul e Audrey Safranek.
Paul [Matt Damon, Sopravvissuto – The Martian, The Zero theorem, The Great Wall] è quello che si sarebbe potuto definire “un piccolo uomo”, senza grandi ambizioni, «tendente al patetico», con un lavoro che ama, ma che non gli fornisce né prestigio né guadagni considerevoli, mentre Audrey [Kristen Wiig, I sogni segreti di Walter Mitty, Sopravvissuto – The Martian, Ghostbusters], invece, vuol fare le cose in grande, ha progetti ambiziosi, fra cui la casa dei sogni che, però, mal si abbina al loro tenore di vita.
Quando scoprono da una coppia di amici già sottoposti al trattamento, i Lonowski, che con il loro misero reddito nelle nuove metropoli possono campare di rendita e permettersi lussi da arcimilionari, i coniugi Safranek decidono di miniaturizzarsi, ma all’alba della loro nuova esperienza dire che qualcosa va storto è un eufemismo (che poi sarebbe minimizzare!).
«Riduciti al minimo. Ottieni il massimo».

Il premio Oscar® Christoph Waltz [Bastardi senza gloria, Django Unchained, The Zero theorem] ha volentieri aderito al progetto ambizioso di Downsizing – Vivere alla grande e interpreta Dušan Mirkovic, il nuovo vicino di Paul nella minimetropoli di Leisureland. Insieme a lui in scena ritroviamo quasi sempre una vecchia gloria del cinema, il caratterista Udo Kier, conoscenza comune di Lars Von Trier e Dario Argento. I già citati coniugi Lonowski sono interpretati da Jason Sudeikis [Come ti spaccio la famiglia, Race – Il colore della vittoria] e Laura Dern [Jurassic Park, The founder]. Solo un breve cammeo, invece, per Neil Patrick Harris, noto per aver preso parte alla serie tv How I met your mother, ma più di recente per essere il nuovo volto del Conte Olaf nella nuova versione di Una serie di sfortunati eventi su Netflix, e per James Van Der Beek, il Dawson Leery della serie tv Dawson’s creek.
Chi ricava il massimo dalla sua partecipazione dal nuovo film di Alexander Payne è Hong Chau [Vizio di forma]: l’attrice di origini thailandesi è candidata con merito a numerosi premi tra cui spicca il Golden Globe 2018 come miglior attrice non protagonista.

Le riflessioni che scaturiscono dalla visione di Downsizing – Vivere alla grande sono tantissime e l’effetto domino dei ragionamenti mantiene costante la soglia dell’attenzione dello spettatore che vive un’avventura cinematografica continuamente sospesa tra la commedia e il dramma sentimentale in un contesto fantascientifico che presenta risvolti romantici di natura squisitamente umanitaria. Quando il personaggio di Matt Damon si miniaturizza è costretto a “riciclarsi” e si trova a guardare il mondo che lo circonda da un’altra prospettiva, ma a cambiare maggiormente è il suo modo di percepire sé stesso e i rapporti con gli altri.


Per compiere imprese grandiose non serve essere un grande uomo, 12 centimetri sono più che sufficienti! questa è il primo messaggio che passa costante nella visione del film. Che la felicità sia nelle piccole cose, quelle di ogni giorno, è una seconda morale, magari all’apparenza anche scontata, che s’intreccia alla forza dei piccoli gesti, quelli che, si sa, sono capaci di accendere sorrisi splendenti in chi rappresenta il gradino più basso della scala sociale. Questo sì che è un risvolto davvero inaspettato, che quasi fa ombra alle mille trovate scenografiche della clinica miniaturizzante e di Leisureland, trovate che riecheggiano i surreali prodotti della fantasia di Terry Gilliam, ma che sostituiscono al gusto retro di quella fantascienza un’estetica nitida e pulita da film classico americano che colma il gap tra finzione e realtà. Probabilmente la scelta di non calcare la mano, di non andare mai sopra le righe né con la fotografia né con un editing maggiormente accattivante e nemmeno con effetti speciali più sbalorditivi serve a non distrarre dalle riflessioni, che rappresentano il vero obiettivo di Downsizing – Vivere alla grande. Il pelo nell’uovo: un pizzico in più di ironia e sarcasmo lo avrebbe reso un piccolo grande capolavoro, ma comunque resta un film da vedere, assolutamente.

Equals, di Drake Doremus in DVD

Equals è un futuristico Romeo & Giulietta o un Pleasantville di ambientazione fantascientifica? Un ibrido non troppo coraggioso, vediamo insieme perché.

Reduce dai successi di Like Crazy (2011, Gran premio della giuria alla 27a edizione del Sundance Film Festival), interpretato da Anton Yelchin, Jennifer Lawrence e Felicity Jones (vincitrice del premio speciale della giuria per la sua interpretazione) e di Breathe In (2013), interpretato da Guy Pearce, Felicity Jones, di nuovo, e Amy Ryan, il regista Drake Doremus stavolta ambienta il suo genere-cardine, ovvero il dramma sentimentale, in una società che sembra aver realizzato alcune utopie dello stoicismo e dell’epicureismo azzerando ogni emozione.

«Immagina un mondo dove i sentimenti sono fuorilegge». [tagline]

Su Atmos, in una società chiamata Collettivo, vivono gli Equals, esseri umani incapaci di provare sentimenti, una caratteristica volutamente ottenuta attraverso esperimenti genetici. Il fine è quello di realizzare una società stabile e non violenta, creare un equilibrio di convivenza perfetto che permetta di concentrarsi sulle esplorazioni spaziali. Ma la natura trova sempre una strada e l’amore, in ogni sua forma, è la cosa più naturale che ci sia, il nemico per eccellenza di questo mondo apatico dove domina il bianco e il grigio asettico. Il seme della rivoluzione emotiva sboccerà solo nel cuore di pochi eletti o sarà soffocato dalla repressione dell’omologazione sociale?

«L’amore è strano: è come un tornado…».

«In un futuro distopico privo di avidità, povertà, violenza e sentimenti, una nuova malattia risveglia emozioni dimenticate, infondendo l’amore, la depressione, la sensibilità e la paura. Chi contrae questa malattia viene allontanato dalla società e mai più rivisto. Nia [Kristen Stewart; Personal shopper, Billy Lynn: Un giorno da eroe] e Silas [Nicholas Hoult; Mad Max: Fury Road e Bestia in X-Men Apocalypse] vivranno sulla loro pelle il dramma generato da un rapporto proibito». [sinossi dal retro di copertina]

In una società di questo tipo il normale stato di salute è essere totalmente privo di sentimenti. Chi non è omologato non fa parte del Collettivo, è considerato un Imperfetto e se, nonostante gli inibitori che gli vengono somministrati, prova qualcosa “fuori dagli schemi” è malato, ha una «malattia debilitante», la Sindrome Da Eccitazione, ed è allontanato per evitare il “contagio” e condannato a morte.

«Abbiamo curato il cancro e il raffreddore…».

«Dobbiamo resistere fino a quando non trovano una cura».

Interessante la ricerca di un’estetica cromatica che sappia trascendere la bidimensionalità dello schermo e fornire una multisensorialità che renda tridimensionali e suggestivi i sentimenti e la filosofia da bignami che Equals ha da offrire: il bianco è il colore dominante, accompagnato, dicevamo, da un grigio freddo, metallico, ma quando gradualmente le mani si sfiorano furtive, i colori si scaldano, la musica elettronica viene sostituita da un commento musicale in un timido crescendo emotivo, quando i baci sono immersi nella paura, l’oscurità in cui si celano i protagonisti si tinge di blu e verde. Nel frattempo la mdp, pur privilegiando i dettagli, maggiormente suggestivi, in quanto più vicini all’azione, azzarda qualche inquadratura più audace, la macchina a mano, una dialettica dello spazio vuoto alle spalle del soggetto, che comunica la solitudine e la fragilità del “diverso”. Le ombre, infine, disegnano dei sottotesti, raccontano in maniera implicita quello che ai personaggi non è permesso spiegare. Sono le ombre sulle pareti traslucide a palesare agli spettatori il primo amplesso e di nuovo sono le ombre, nella scena della mensa, a disporsi in modo da rendere un concetto di prigionia, di privazione della libertà.

«Perché mi guardi in quel modo?».
«Non posso farci niente».

IL DVD

 

REGIA: Drake Doremus INTERPRETI: Kristen Stewart, Nicholas Hoult, Guy Pearce, Jacki Weaver TITOLO ORIGINALE: Equals GENERE: sci-fi, drammatico, sentimentale DURATA: 98′ ORIGINE: USA, 2016 LINGUE: Italiano 5.1 DTS, Italiano 5.1 Dolby Digital, Inglese 5.1 Dolby Digital SOTTOTITOLI: Italiano EXTRA: Trailer DISTRIBUZIONE: Koch Media

Equals ha avuto la sua anteprima mondiale nella 72ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (2015), dove ha gareggiato per il Leone d’oro al miglior film. Presentato con successo anche al Toronto International Film Festival 2015, Equals è stato accolto con “freddezza” il 4 agosto 2016 nelle sale italiane. La versione home video è in disco unico, audio multicanale, sia in DTS sia in Dolby Digital, in italiano e inglese, mentre per l’aspect ratio si è scelto un widescreen non troppo spettacolare (1.85:1). Tra gli extra il solo trailer, a conferma del fatto che la produzione ha puntato tutto sull’impatto emozionale della sceneggiatura di Nathan Parker (Moon, Blitz) e l’interpretazione degli attori. Peraltro, la recitazione dei caratteristi e dei personaggi minori tradisce l’impossibilità di rendere verosimile, sul piano recitativo, l’impassibilità che la trama richiede quale presupposto fondamentale.

«Non posso starti lontano. Non posso starti vicino».

Il film NON è vietato ai minori. Questo invece, tradisce una mancanza di coraggio. Se i protagonisti scoprono la bellezza dell’amore e del fare l’amore, forse sarebbe stato il caso di spingerli verso altri tipi di esplorazioni spaziali rispetto a quelli che la società ha loro destinato: uno spazio che si conosce in sé ma che si riscopre nell’interiorità dell’altro e che genera o apre un ulteriore spazio che è all’interno di noi, che può riempirsi di sentimenti potenzialmente infiniti, non a caso il motore di ogni storia, da quando esiste la comunicazione, ossia da sempre.

«L’amore è dare e prendere tutto».

Un prodotto che risulta abbastanza interessante, soprattutto dai punti di vista filosofico e scenografico, ma che non riesce a fare quel passo necessario che la renda un’opera esteticamente adeguata al pathos e alle riflessioni generate dalla trama. Equals è girato senza i giusti “sentimenti” di evoluzione, sperimentazione, ribellione che sono alla base di prodotti simili ma di ben altro successo, primo fra tutti il già citato Pleasantville.

Curioso come nel film si crei un parallelo tra l’impossibilità di amarsi dei protagonisti e l’impossibilità di volare del bombo. Una vecchia leggenda metropolitana, infatti, affermava che secondo le leggi dell’aerodinamica il bombo non dovrebbe essere in grado di volare per un’apertura alare ed una frequenza di battito d’ali non adatte a sostenere il proprio peso. In realtà, nel corso di esperimenti di aerodinamica con altri insetti si è scoperto che la viscosità dell’aria, sperimentata dal punto di vista degli insetti, che sono di piccole dimensioni, permetteva persino alle loro piccole ali di muovere un elevato volume di aria, riducendo la quantità di energia necessaria a mantenersi il volo. Tanta fatica a trattenere gli istinti naturali, tanti sacrifici per poi tornare indietro di millenni ad interrogarsi su cose strarisapute?

«Secondo le leggi della fisica non potrebbero volare ma loro non lo sanno, così volano comunque».

Barriere, di Denzel Washington

Per il suo debutto dietro la mdp, Denzel Washington sceglie l’opera teatrale FencesBarriere di August Wilson. L’attore pluripremiato dirige se stesso in un film che è stato inserito nella lista di finalisti agli Oscar® 2017.

Ambientato negli anni Cinquanta, il film Barriere porta sul grande schermo la storia di una promessa mai mantenuta del baseball professionistico, Troy Maxson [Denzel Washington], che, per quanto avesse tutte le carte in regola per sfondare e avere il mondo ai suoi piedi, finisce per fare il netturbino.
«Ho visto solo due giocare meglio di te: Babe Ruth e Josh Gibson»

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La componente prettamente sportiva risulta quasi inesistente dal punto di vista scenico, ma rappresenta sicuramente il nucleo principale attorno a cui ruota la vita del protagonista, il big bang che ha generato quell’universo parallelo che gli ha rovinato la vita. Lo sport, insomma, diventa il MacGuffin per discutere di questioni razziali, conflitti generazionali e drammi interiori.
«Perché i bianchi guidano e i neri raccolgono soltanto?»

Tra battute ironiche sulle discriminazioni, discussioni su denaro, congetture sul futuro e strampalate storielle da vecchi ubriaconi (in questo, come nell’atmosfera fornita da scenografia e costumi, ricorda molto la vecchia sit-com Sanford and son), nel cortile di una piccola casa in una bassa periferia, va in scena la vita. Una vita interpretata da Troy come fosse una enorme partita di baseball, dove non esistono buoni o cattivi, nessun perdente, ma solo vinti e vincitori; e se l’uomo tende a giocare la sua personale sfida con il destino perdendo di vista i valori del gioco di squadra per eccellenza, la famiglia, che lui stesso, nel bene e nel male, ha contribuito a forgiare, fornendo un anti-modello che è perlopiù una presenza ingombrante, un ostacolo da superare, l’ennesima barriera.
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«You have to take the crookeds with the straights!»
[Devi saper prendere sia i lanci dritti sia quelli sporchi]

Le barriere del titolo sono sicuramente gli ostacoli che non permettono agli afroamericani di affermarsi in qualsiasi ambito sociale nel periodo in questione, ma le barriere più difficili da sormontare perché fortemente radicate nelle convinzioni di un padre di famiglia che ragiona a suo modo, magari pensando di tutelare una famiglia che, in realtà, saprebbe affermarsi benissimo anche senza la sua guida, la sua ingombrante figura. Figurativamente la barriera è rappresentata da uno steccato classico americano, una recinzione che dovrebbe isolare la famiglia Maxson dal resto del mondo, un mondo che Troy non ha mai saputo prendere per il verso giusto, forse. Inevitabile in questo contesto lo scontro generazionale e il sollevarsi di nuove palizzate.
«Non hai fatto altro che ostacolarmi per paura che fossi migliore di te»

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I sentimenti che derivano dal fallimento sono facili da intuire, ma non certo da trasmettere allo spettatore. La rabbia che bolle sotto la pelle come una pentola a pressione, la delusione cocente per il mancato successo, che ha portato ad una non accettazione di sé e, di conseguenza, di tutto ciò che intorno a sé, all’interno della recinzione che Troy vuole costruire, non è come potrebbe essere, non è come dovrebbe essere, neanche per chi ami, partner e figli.
«Hai commesso un errore. Hai “sventolato” e non hai battuto. È il primo strike. Sei nel box di battuta. È il primo strike, non farti mettere strike out!»

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Ad affiancare Denzel Washington nel ruolo di Rose Lee è Viola Davis [Suicide Squad, Prisoners], miglior attrice protagonista ai Golden Globe 2017 ed in lizza per l’Oscar®. Impressionante come riesca a rendere il climax di sicurezza e presenza scenica che il suo personaggio percorre, esternando un caleidoscopio di sentimenti impressionante e suggestivo, ma nello stesso tempo misurato. Al photofinish se la vedrà con un mostro sacro come Meryl Streep [Florence], la veterana Isabelle Huppert [Elle], l’outsider Ruth Negga [Loving], la poliedrica Natalie Portman [Jackie] e la favorita Emma Stone [La La Land]. Chi la spunterà?
«Non temo la Morte. L’ho già incontrata e mi ci sono battuto»

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Rusty il selvaggio, di Francis Ford Coppola in DVD

Rusty il selvaggio [Rumble Fish], diretto, sceneggiato e prodotto nel 1983 da Francis Ford Coppola, è basato sull’omonimo romanzo per ragazzi di Susan Eloise Hinton, che ha contribuito a questa sceneggiatura che se, oggi, all’apparenza, risulta ingenua, trova la sua grandezza nelle potenzialmente infinite riflessioni filosofico-sociali che scatena ad ogni visione. Un piccolo capolavoro della storia del cinema che non può mancare nella collezione di qualsiasi cinefilo.

«Anche le società più primitive hanno un innato rispetto per gli alienati».

Rusty James [Matt Dillon] vive una vita che non è la sua. Schiavo del desiderio di emulare il fratello [Mickey Rourke], il ragazzo, ancora teenager, è il capo di una poco temibile gang in un’anonima cittadina industriale in degrado, un non-luogo che assume per antonomasia i connotati di un qualsiasi posto in qualsiasi tempo, nel palese intento di fornire all’intera vicenda valori di universalità, come fosse una parabola esemplare. Nel ricordo del fratello, nel continuo confronto a distanza, tra piccoli reati, ingenui atteggiamenti da bad boy e lotte per la supremazia territoriale, il tempo scorre inesorabile senza che per Rusty James si compia una svolta degna di nota.

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Per questo motivo gli orologi campeggiano in ogni scena del film e anche la colonna sonora è contaminata da ticchettii, battiti cardiaci e altri suoni elaborati in modo da scandire bene il tempo che passa ed il destino che incombe. Un’atmosfera surreale che sfrutta moltissimi elementi del registro espressionistico, dal bianco e nero fortemente contrastato alle ombre aggiunte in post-produzione, dalla presenza di oggetti fuori dal contesto ordinario, come la nebbia prevaricante, o fuori dimensione, come il famoso orologio senza lancette, per comunicare allo spettatore uno stato d’animo di angoscia e preoccupazione per la sorte dei personaggi, intrappolati in un loop molto simile a quello che vivono gli animali del pet shop, soprattutto i pesci combattenti del titolo originale [Rumble fish], unico elemento sempre a colori in un film significativamente in bianco e nero.

Lo straniamento visivo va di pari passo con l’alienazione vissuta dai personaggi, soprattutto dal personaggio interpretato da Mickey Rourke, che è diventato da tempo daltonico e che, quindi, coincide, anche se non perfettamente, con il punto di vista della macchina da presa e, di conseguenza, con quello dello spettatore: «Mi dispiace un po’ non vedere i colori».

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I dialoghi amletici fanno da collante alle vicende e la struttura di matrice shakespeariana è confermata dal masque finale, una figura retorica del cinema mutuata dal teatro elisabettiano che permette di inquadrare tutti i personaggi principali nello stesso long take su carrello. Un virtuosismo tecnico-poetico spesso utilizzato da autori come Peter Greenaway o Wes Anderson, ma che raramente troviamo in Francis Ford Coppola e nella corrente della Nuova Hollywood, di cui il regista ha fatto parte e nella quale va annoverato Rusty il selvaggio. Non per niente Coppola lo considera uno dei 5 propri film che gli sono più cari, probabilmente è uno dei più sentiti, dedicato al fratello August «il suo primo insegnante».

Emblematico, poi, il fatto che Rusty James venga chiamato per nome almeno 50 volte, cioè approssimativamente ogni due minuti, mentre non è mai pronunciato il nome del fantomatico fratello, il messia che tutti aspettano torni dal suo lungo viaggio e che, invece, ha maturato, nel suo percorso lontano da quell’angusta cittadina, un profondo senso critico che lo rende un corpo estraneo, in bilico tra il genio e la pazzia. Ma qual è, allora, il senso del suo ritorno? Deve riprendersi il suo regno, come predetto dalle scritte sui muri: “the motorcycle boy reigns”? Deve portare la “luce” all’uomo della caverna?

Il poliziotto che lo detesta e lo vorrebbe di nuovo lontano, mette in guardia Rusty James dicendo: «Voi lo credete qualcosa che lui non è: non è un eroe!». O forse sì, ma non secondo gli stereotipi: forse è l’outsider che ha allargato i suoi orizzonti e che si sente in dovere di liberare il fratello minore dalla prigionia di un codice comportamentale che si è autoimposto per compiacerlo ed imitarlo, per scrollargli di dosso quel destino che, tragico, sembra aspettarlo dietro ogni angolo di strada, per innalzarlo finalmente ad un livello pari o superiore al suo, dando l’esempio giusto che nessuno gli ha dato.

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Il gesto di liberare gli animali dalle gabbie e soprattutto i pesci combattenti dall’acquario assume un significato allegorico che stimola ulteriori riflessioni anche dal punto di vista tecnico.

Le inquadrature, per tutto il film, rimarcano la limitatezza umana: i personaggi sono spesso inquadrati dall’alto a comunicare un continuo senso di inferiorità e in Rusty questo si traduce nella continua sconfitta di fronte a “Quello con la moto” [“Motorcycle Boy”, nella versione originale], come tutti in città chiamano il fratello, nonostante da tempo abbia fatto perdere le sue tracce, in sella alla sua moto. Il tempo e l’assenza hanno alimentato le leggende intorno al personaggio: «Una specie di re in esilio. Accidenti! Gli riesce tutto!», nonostante la sua riluttanza – «Sono un po’ stufo di fare il Robin Hood o il pifferaio magico. Preferisco restare un’attrazione locale, se sei d’accordo…»

I personaggi sono ignari di essere fuori dal contesto e l’unico che se ne accorge, “quello della moto” passa per matto, ma ha il compito ultimo di mettere in guardia Rusty James circa il suo destino: «Ehi, su con la vita! Le bande torneranno. Basterà che sparisca la roba. Sai, La gente ricomincerà a socializzare. Le vedrai ritornare le bande… Se vivrai abbastanza!». Quello che si evince dai discorsi filosofici del carismatico fratello maggiore è che si vinca o si perda, in quella gabbia in cui vivono, il sapore che si sente tra i denti, mescolato al sangue e al sudore, è quello amaro della “vittoria di Pirro”, imprigionati come sono in un’impasse simile a quello dei pesci combattenti, oggetti d’intrattenimento senza alcuna libertà d’azione, ingranaggi di un orologio che segna solo il tempo che passa.

«Appartengono al fiume. Non combatterebbero se fossero nel fiume. Se avessero spazio»

Le inquadrature dal basso, utilizzate per attribuire importanza al soggetto, sono pochissime e sono compatibili, infatti, proprio con i tentativi di fare qualcosa per uscire dallo status quo. Anche gli elementi espressionisti decontestualizzati, ma non certo fuori posto, contribuiscono a comunicare evasione: l’angoscioso pensiero, il delirio della febbre, il viaggio astrale sono occasioni per utilizzare distorsioni sonore e visive, contrasti più forti, architetture e ombre incombenti, nebbie inverosimili, inquadrature fuori bolla, time lapse, sovrimpressioni e dissolvenze incrociate multiple, sono tutti elementi che spesso sconfinano anche nella realtà filmica, che assume, quindi, i connotati di una pseudo-realtà che si rivela costruita fin da subito su di un castello di carte, su illusioni inconcludenti che hanno il cluster più evidente nella prigionia autoinflitta di Rusty James.

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L’unica svolta possibile è uscire prepotentemente dalla gabbia, liberarsi delle zavorre che non permettono di spiccare il volo, compiere un viaggio che possa aprire gli orizzonti, un viaggio in moto, in solitaria, come lo ha fatto “quello della moto”.

L’esortazione «Voglio che tu segua il fiume fino all’oceano» segna la svolta nella vita dei due protagonisti e l’emancipazione definitiva del piccolo pesce da combattimento che prende finalmente il posto del fratello in sella alla moto e parte verso un nuovo destino, stavolta reale e di prospettiva, frutto del crepuscolo del mito, dalla morte di ogni leggenda.

Nell’ultima inquadratura, i gabbiani volano liberi intorno a Rusty James, che osserva l’oceano, sconfinato come il cielo, mentre tutta sembra comunicare libertà.

IL DVD

REGIA: Francis Ford Coppola INTERPRETI: Matt Dillon, Mickey Rourke, Vincent Spano, Diane Lane, Diana Scarwid, Nicolas Cage, Dennis Hopper, Tom Waits, Lawrence “Larry” Fishbourne, Chris “Christopher” Penn  TITOLO ORIGINALE: Rumble fish GENERE: drammatico DURATA: 90′ ORIGINE: USA, 1983 LINGUE: Italiano 5.1, Italiano 2.0, Inglese 5.1 SOTTOTITOLI: Italiano EXTRA: Making of – Clip musicale “Don’t box me in” – “The percussion bassed score” – Scene tagliate DISTRIBUZIONE: CG Entertainment

Pubblicato da CG Entertainment, Rusty il selvaggio è disponibile in dvd e blu ray, corredato da una nutrita sezione extra composta dalla sequenza di scene tagliate, dall’interessante Making of corredato di storyboard, in cui spicca il dietro le quinte del viaggio astrale di Rusty James mentre è esanime dopo una rissa, e da un ancora più suggestivo The percussion bassed score, che approfondisce la realizzazione della colonna sonora a cura di Stewart Copeland [Wall Street, Talk Radio], ex-batterista dei Police, scioltisi proprio l’anno precedente al film.

Molto istruttivo ascoltare come, in tempi lontanissimi dalle odierne tecniche digitali, si dovevano creare artigianalmente i temi musicali che, per questo film surreale, basato sul circolo vizioso e sulle prigioni mentali, non potevano che essere replicati in un loop.

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Marguerite e Julien – La leggenda degli amanti impossibili, di Valérie Donzelli

Marguerite [Anaïs Demoustier] e Julien de Ravalet [Jérémie Elkaim] si amano fin da bambini e, divenuti ragazzi il loro sentimento non si stabilizza su un registro affettivo familiare. Fratello e sorella non desiderano altro che stare l’uno accanto all’altro. Tutti si accorgono del rischio dell’incesto, così li separano più volte con matrimoni combinati o facendoli sorvegliare da governanti, che finiscono con il simpatizzare con i due amanti infelici. Ogni ostacolo diventa una prova da superare che rinnova il loro legame fino a renderlo indissolubile. L’avrà vinta la ragione o il sentimento?

«Che cosa siamo?
Qualcosa che non esiste
Allora va bene, non rischiamo niente se non esistiamo».

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Valérie Donzelli, al suo quarto lungometraggio, si sente pronta a riscrivere con il partner di lavoro e di vita, nonché attore protagonista, Jérémie Elkaim, la sceneggiatura che nel 1971 Jean Gruault aveva preparato per Francois Truffaut. Il progetto era stato abbandonato dal regista de I quattrocento colpi e, una qualsiasi persona sensata si sarebbe domandata a fondo il perché senza incaponirsi a voler portare a casa un risultato frutto di mille espedienti e compromessi che depauperano la storia e l’arte cinematografica, inasprendo il giudizio del pubblico, che rimane deluso di un prodotto che si prende troppo sul serio senza avere né una struttura solida né un’estetica tale da sopperire ai notevoli buchi di sceneggiatura e alle brusche cadute di stile.

Diversamente dai film precedenti, la Donzelli non presenta uno spaccato della sua vita, discutibilmente interessante, bensì l’adattamento di una storia vera (da qui in avanti c’è il rischio SPOILER): Julien e Marguerite de Ravalet, figli del signore di Tourlaville, vengono catturati, processati e condannati alla decapitazione per adulterio e incesto nel 1603. Primo escamotage: non volendo sbattersi per una costosa ricostruzione d’epoca, si tenta grossolanamente un’operazione simile a quella di Titus, senza essere Julie Taymor, senza inserire abbastanza “anacronismi” per propendere verso un’interpretazione surreale postmoderna, senza verve. Come afferma la stessa regista, si è cercato di «incarnare una leggenda… un film senza tempo, che non fosse legato ad un’era in particolare, radicato nel mondo delle favole, ma senza appartenergli completamente». Di nuovo un “senza”.

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La location principale è proprio il vero castello di Tourlaville, che comunica Seicento in ogni inquadratura mentre sullo schermo si alternano automobili, radio, elicotteri, microfoni e altoparlanti, e poi tableaux vivants e costumi ottocenteschi a fornire un continuo straniamento spaziale, temporale e narrativo, nell’intento di lasciare gli spettatori confusi sulla poltrona allo stesso modo in cui sono smarriti i due amanti nel bosco, così come nella vita. Questi due Hansel e Gretel vivono una favola dove, però, la morale non c’è. Di moralisti, invece, ce n’è quanti se ne vuole, ma si tratta di oppositori che si pentono e che si trasformano in aiutanti, comunque inetti.

La tragedia familiare è dietro l’angolo, rovescio della medaglia di questo amore maledetto, eppure chi segue le vicende degli amanti impossibili non teme per la loro sorte, non si affeziona a loro, né prende posizione, come era del resto l’intento registico. Il conflitto che porta avanti la narrazione non è insito nella coppia, nel loro rapporto che è e rimane indissolubile, bensì nell’altrui testa, nell’educazione sessuale ricevuta anche per questioni di patrimonio genetico di un eventuale erede. Così si pensava, forse, di sviluppare una tragedia senza avere motivazioni valide, una favola senza una morale più o meno celata dietro tipiche allegorie, una leggenda o un sogno senza un rimosso o una cornice abbastanza surreale e un adattamento di una storia vera togliendo concretezza grazie agli elementi stranianti.

Anche la recitazione non è né melodrammatica né minimalista, indecisa non incide, e nelle occasioni più importanti si sbotta a ridere involontariamente. Una tragedia come quella di Romeo e Giulietta diventa una mediocre farsa teatrale su palcoscenico parrocchiale.

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La perla è il secondo stratagemma: la storia è narrata da una giovane ragazza in un orfanotrofio femminile come storia della buonanotte per far addormentare bambine neanche adolescenti. A parte la scelta discutibile dell’argomento incestuoso per addormentarsi, ci si domanda come mai si sia scelto di dare una struttura che preannuncia una chiusura ad anello per poi tradirla con il terzo espediente narrativo: non avendo mai deciso se della sceneggiatura, che Truffaut, guarda un po’, non ha mai voluto realizzare, farne un film poetico o un film erotico, ecco che, dopo un pecoreccio amplesso nel bosco tra i due amanti, mentre tempus fugit e sono braccati da un intero esercito di guardie, manco fossero dei terroristi, giunge la conclusione tragica con risvolti comici e un epilogo con poesia di Walt Whitman, recitata dalla voce di Marguerite sopra alcuni dettagli di elementi naturali giustapposti, in un montaggio che dovrebbe sostenere emotivamente le parole finalmente di unione indissolubile dei due: «Ora siamo qui… siamo corteccia… siamo rocce…». Questa trovata altro non è se non l’ennesima scappatoia per non dover rappresentare graficamente le ultime parole della sceneggiatura originale, cioè un dantesco «Spiriti volate via…». Sebbene non vi sia negli annali alcuna documentazione circa eventuali apparizione da fantasmi dei due amanti maledetti, in seguito a questa grossolana trasposizione cinematografica della loro vera triste sorte, non è escluso che ora abbiano davvero qualche conto in sospeso con qualcuno.

Con i “senza” come si può costruire qualcosa di buono?

Tutte le notizie su Truth: Il prezzo della verità

È basato su uno dei più controversi casi della storia americana, Truth: Il prezzo della verità, il film d’esordio alla regia di James Vanderbilt, sceneggiatore e produttore, capace di alternare capolavori assoluti e coinvolgenti come Zodiac a blockbusters caciaroni ma di poco spessore come White house down o la nuova saga di Amazing Spider-man, per non parlare di horror flop come Al calar delle tenebre.

La mattina del 9 settembre 2004 la produttrice della CBS News Mary Mapes [Cate Blanchett] aveva tutte le ragioni per essere orgogliosa del suo servizio giornalistico. Ma alla fine di quella giornata, non solo lei, ma anche la CBS News e il famoso conduttore di “60 Minutes”, Dan Rather [Robert Redford], furono messi al centro di una bufera. Questo perché la sera precedente avevano trasmesso un reportage investigativo secondo il quale il Presidente George W. Bush aveva trascurato il suo dovere nel periodo in cui prestava servizio come pilota nella Guardia Nazionale dell’Aeronautica del Texas, dal 1968 al 1974, e che addirittura potesse avere dei legami comprovati con il movimento di Al-Qaeda. Una notizia basata su dei documenti che si sospettò fossero stati falsificati. In pochi giorni dallo scandalo, i registri del servizio militare di Bush smisero di essere al centro dell’attenzione dei media e del pubblico che, da quel momento in poi, puntarono il dito contro la trasmissione, la giornalista e il conduttore, rovinando carriere, reputazioni e vite private.

Truth: Il prezzo della verità è tratto dal memoriale scritto dalla stessa Mary Mapes e intitolato proprio “Truth and Duty: The Press, the President, and the Privilege of Power”, pubblicato da St. Martin’s Press solo nel 2015.

Un cast che, oltre al Premio Oscar® Robert Redford e alla due volte Premio Oscar® Cate Blanchett, può vantare anche la presenza di un altro grande interprete che ha raccolto finora troppo poco dalla sua carriera, Dennis Quaid.

Girato totalmente in Australia, per venire incontro alle esigenze della protagonista, con la ARRI Alexa e in formato widescreen con l’aspect ratio da 2,35 : 1. Spettacolare, nonostante la tematica drammatico-biografica.

Ecco il TRAILER italiano: