Un pranzo in famiglia non sarà poi la fine del mondo, invece sì. Potrebbe scorrere rapido tra abbracci, sorrisi e frasi di convenienza. Potrebbe essere persino piacevole, invece no, non questa volta. Non quando Louis torna a casa dopo dodici anni e ritrova tutto così come lo aveva lasciato. L’isteria, le frustrazioni, e il risentimento covato in silenzio per l’uccellino che ha abbandonato il nido per seguire i suoi sogni e non è più tornato, nulla è cambiato da quando Louis è andato via e nulla lo spinge a restare. L’unico motivo che lo ha spinto a fare un passo indietro è che sente il dovere morale di dire alla sua famiglia, guardandola in faccia, che questa volta andrà via e non tornerà più perché sta morendo.
Louis (Gaspard Ulliel) però ha sempre fatto fatica a comunicare con i suoi cari, a parlare la loro stessa lingua in un certo senso, perché la voce pacata delle sue emozioni è stata sistematicamente schiacciata dalle urla di suo fratello Antoine (Vincent Cassel) o soffocata dagli sguardi di biasimo di sua madre. L’unica con cui sia mai riuscito ad entrare in contatto è sua sorella Suzanne (Léa Seydoux), che però è cresciuta lontano dai suoi occhi e quasi non lo conosce se non per ciò che ha letto di lui sui giornali. E anche questa volta le sue parole restano strozzate nella gola, non dette così come i sentimenti di tenerezza che prova per quella famiglia nevrotica, che non lo ha compreso in passato e non lo comprenderà mai, ma che in fondo lo ha reso ciò che è adesso.
Il dramma di Xavier Dolan è urlato e straziante, spacca i timpani e il cuore con le grida di aiuto di tutti i personaggi, che non riescono a interagire tra loro senza aggredirsi, ma nonostante non smettano mai di parlare non riescono mai a dire ciò che provano davvero. Ma per quanto questo ritratto familiare possa sembrare grottesco, in questo spaccato di follia collettiva Dolan dipinge alla perfezione la famiglia, le sue dinamiche contorte e perverse e lo sforzo sovrumano di far funzionare delle relazioni che evidentemente non sarebbero sopravvissute senza il legame di sangue.
È solo la fine del mondo si basa sulla piéce teatrale del 1990 del drammaturgo francese Jean-Luc Lagarce, morto di AIDS nel 1995, ed è immediatamente percepibile quanto ogni parola, urlata o sussurrata, sia frutto di una conoscenza profonda dell’essere umano e di una incessante ricerca nella fitta rete di sentimenti che avvolge la famiglia. Dolan, come Jean-Luc Lagarce prima di lui, punta tutto sull’essere umano, a cui si avvicina in maniera ossessiva, quasi per entrargli nella testa e scavare a fondo nel suo cuore per scoprire cosa prova davvero. Ma come in Tom à la ferme e Mommy Dolan osservando le dinamiche familiari dietro la lente del suo obiettivo si scontra contro un muro di incomprensione, trovando aggressività là dove si aspettava conforto. Ed è questa la fine del mondo più temibile della morte stessa, l’ennesima delusione, l’ennesimo tentativo di riappacificazione abortito. A questo punto non resta che andar via, questa volta per sempre, e senza guardarsi indietro.