Edgar Ramirez

Joy – di David O. Russell

Si dice che gli Stati Uniti vivano e si nutrano dei sogni dei suoi abitanti, siano essi nativi o immigrati: gli USA non guardano in faccia a niente e a nessuno; ciò che conta è la qualità.

Joy Mangano (Jennifer Lawrence) è un concentrato di qualità e di valore. Non ha bisogno di trovare il principe azzurro per sentirsi realizzata: ha un dono, quello dell’invenzione e della creatività. La nonna Mimi (Diane Ladd) sa quanto conti questo dono in una realtà familiare dove la madre (Virginia Madsen) trascorre la sua vita in un tutt’uno con il letto e la camera in cui è rintanata a guardare Soap Opera scadenti e il padre (Robert De Niro) gestisce un’officina meccanica con l’energia derivata dalle sue avventure d’amore. Proprio Mimi alimenta i sogni e le aspirazioni della nipote ma la sua tenacia non basta a contrastare la realtà della vita vera, fatta di amore irrazionale per un cantante venezuelano (Edgar Ramirez), di voglia di fuggire, di bollette da pagare, di figli da sfamare e famiglia da accudire appendendo al chiodo sogni, aspirazioni e fortunati brevetti.

Joy

Joy è una pellicola che spiazza su due fronti: a livello tecnico ed emotivo.

Nel primo caso le scelte di montaggio non trovano una spiegazione logica e utile all’economia della storia: improbabile l’ambientazione onirica, inspiegabile l’inserimento dei flashback in momenti della storia cruciali, spiazzante la scelta di conferire ugual peso a gesti fini a se stessi (come il taglio di capelli) e a quelli davvero importanti (le invenzioni e la scomparsa di una figura importante nella vita della protagonista), poco chiaro il grottesco e quasi folle comportamento dei comprimari che, tuttavia, non fa altro che alimentare il secondo motivo di spiazzamento (un “lato positivo” della storia? Forse sì, visto che l’emozione permane anche dopo l’uscita dalla sala): un nervosismo costante che prende alla bocca dello stomaco, frutto di una forte empatia nei confronti di Jennifer – never a Joy – Lawrence. Succedono tutte a lei: sorellastra perfida e invidiosa, madre svampita, padre farfallone e opportunista, matrigna (Isabella Rossellini) riccona e avida, marito perfetto ma non in questo ruolo, avvocato incapace, socio truffatore, lavoro logorante, casa che va a pezzi, conto in banca in rosso, brevetto soffiato da sotto il naso. E Joy? Tenace e serena come una Pasqua, mai una sfuriata, mai un scena di sconforto o di ribellione di fronte alla cattiveria che la circonda. Tutto il nervosismo che avrebbe dovuto avere lei, se lo becca in pieno lo spettatore, anelante un lieto fine che non sembra mai arrivare.

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La tendenza più invalsa nelle screenplay contemporanee del cinema hollywoodiano vede i biopic come assoluti protagonisti (in contemporanea in sala troviamo Steve Jobs con Fassbender); David O. Russel conferma questa tendenza e sceglie Joy Mangano, l’inventrice del Miracle Mop (il mocio che pulisce i pavimenti di tutte le case del mondo), per ricamare una storia che ripropone senza innovare nella struttura o nel contenuto temi e ambientazioni cari al regista di The Fighter. In un’ambientazione storica ancora una volta ben precisa e circoscritta in un passato non lontano ma ormai, quasi, leggendario (come già era stato in American Hustle) ritornano il tema economico intrecciato alle esistenze frante di individui dalla precaria psicologia e condizione di vita. Pur con il solito approfondimento che lo contraddistingue, O. Russel non riesce ad aggiungere nulla di nuovo rispetto a quanto già detto nelle sue precedenti pellicole. Oscuro il motivo che lo spinge a calarsi in una dimensione passata, visto che la sua migliore realizzazione è una pellicola contemporanea. Il solol a non rendersi conto di questa qualità, forse, è O. Russell stesso…

Unica a salvarsi tra i feticci del regista è la fresca di Golden Globe Jennifer Lawrence (al suo terzo Globo d’oro, tutti per film diretti da O.Russell). La sua non è una semplice interpretazione facilitata perché cucitale praticamente addosso; la giovane attrice premio Oscar (indovinate un po’ chi la diresse in Silver Linings Playbook?) imprime al suo personaggio una presenza scenica che spiazza per la coerenza e la profondità: solo con la sua forza ed energia Joy Mangano assume una rotondità caratteriale che, altrimenti, sarebbe scaduta nell’anonimato.