Castel Volturno, nell’organismo della nazione, è un organo secondario, è la milza d’Italia, dice Edoardo De Angelis presentando il suo film. È un organo secondario, che si può asportare e sopravvivere lo stesso, ma allo stesso tempo utile a mantenere l’equilibrio del sistema corporeo. Così è Castel Volturno, rifugio di peccatori, di donne e uomini in fuga da fame, guerre o semplicemente da sé stessi. Un luogo altro, dove venticinquemila abitanti regolari e altrettanti irregolari convivono sull’orlo del conflitto scambiandosi soldi, cose, droga, sesso, figli, qualche tenero abbraccio e antiche malattie. E proprio qui Edoardo De Angelis ambienta Il vizio della speranza, una storia dai contorni indefiniti, sospesa nello spazio e nel tempo, proprio come il luogo in cui si svolge.
Lungo il fiume, tra baracche e cumuli di immondizia, si aggira Maria, con il cappuccio alto sulla testa e il pitbull al guinzaglio. Arranca tra i rifiuti con passo risoluto, affonda nel fango e poi risale in superficie, per portare a termine la sua missione quotidiana. Lei è la Caronte di Castel Volturno, traghettatrice di giovani prostitute incinte al servizio di una madame ingioiellata e trafficante di neonati. Sembra che l’anima le sia stata risucchiata insieme alla speranza del cambiamento, dell’assoluzione, eppure dietro i suoi modi bruschi, ci sono rapidi gesti, quasi invisibili, in cui si intravede un’ombra di umanità.
De Angelis non specifica il tempo della sua storia, ma la colloca in un inverno perenne, livido e freddo, come i personaggi che vagano lungo il fiume come anime in pena. Il tempo narrato è un tempo dell’anima, estremamente simbolico, come ogni immagine che colloca sulla scena. Eppure non serve altro per dipingere la realtà di Castel Volturno, e la sua tavolozza minimale basta a trasmettere l’angoscia, il freddo nelle ossa che si prova sulle rive del suo fiume.
Allo stesso modo non c’è alcuna presentazione dei personaggi, nessuna divagazione sul loro passato, e a parlare ancora una volta sono le immagini, i volti sfregiati dei personaggi, i loro corpi feriti ma allo stesso tempo vivi, vibranti, pronti alla ribellione. Come fuochi che scaldano l’inverno e illuminano il buio, i corpi portati in scena da De Angelis chiamano vita, e lo fanno disperatamente, con tutte le loro forze.
Con una rappresentazione del reale così astratta e vivida allo stesso tempo, Il vizio della speranza diventa un racconto universale del dolore, e dello slancio vitale insito in ogni essere umano che, per quanto siano disperate le condizioni in cui versa, per quanto l’inverno in cui si dibatte sembri infinito, trova sempre un modo di reagire, resistere e rinascere.