«L’unica cosa importante è finire la partita. Se finiamo, vinciamo!»
Zona d’ombra – Una scomoda verità, scritto e diretto da Peter Landesman [Parkland, La regola del gioco], ha come protagonista Will Smith, che interpreta il dr. Bennet Omalu, un neuropatologo plurispecializzato, preparato e scrupoloso, cristiano e con un modo tutto suo di “parlare” con i cadaveri durante le autopsie. Non come Eliza Dushku nella serie Tru calling, si capisce, ma con una delicatezza e sensibilità che in quell’ambiente è assente nella quasi totalità dei casi.
Tratto da una storia vera, il film prende spunto dall’articolo Game Brain, scritto nel 2009 da Jeanne Marie Laskas per la rivista GQ, ed è incentrato sul difficile percorso di sensibilizzazione del mondo sportivo nei confronti della CTE, l’acronimo dell’encefalopatia traumatica cronica, una malattia neurodegenerativa che colpisce chi subisce violenti e ripetuti colpi alla testa.
Nel 2002 il Dr. Omalu si trova a dover effettuare l’autopsia del corpo di un irriconoscibile “Iron” Mike Webster, giocatore dei Pittsburgh Steelers, campione nel ruolo di centro, la più violenta posizione in campo perché punto di partenza del gioco, proprio nel fulcro della linea di scrimmage, dove si può ricevere una media di 70000 colpi in carriera. Da questo episodio inizia una serie di costosissimi studi per portare alla luce quella che si preannuncia da subito come una scomoda verità. Webster, interpretato da David Morse [Il miglio verde, Contact, Disturbia], lamentava forti emicranie ed era stato abbandonato dalla famiglia per i continui cambi di umore e ripetuti segni di squilibrio mentale, dedito all’autolesionismo più volte, è infine morto solo, in miseria e considerato pazzo, nel suo pick-up, l’unico luogo dove poteva non arrecar danno ad altri. La ricerca del neuropatologo parte proprio da questo episodio e, mentre cerca connessioni e confronti con animali che per natura si trovano a dover fronteggiare violenti colpi al cranio (la suna del capo, il picchio testarossa, il montone delle montagne rocciose), la cronaca nera gli sottopone nuove morti violente e, soprattutto, evitabili, se la malattia da lui scoperta viene diagnosticata per tempo e, non da ultimo, se la National Football League, invece di minacciare e ostacolare lo scienziato, lo ascoltasse e prendesse provvedimenti e precauzioni per tutelare quelli che dovrebbero essere i migliori giocatori dello sport nazionale, e non gladiatori – morituri – chiamati a rappresentare esclusivamente una fonte di lucro e di spettacolo.
«Dio non ci ha creati perché giocassimo a football!»
A fare da contrasto con il dramma dei suicidi, della pazzia dei giocatori e della situazione di angoscia dei familiari delle vittime, il regista sceglie proprio delle immagini di repertorio che rimarcano proprio la spettacolarizzazione degli scontri fino ad allora – e tuttora, purtroppo – presente nella maggior parte dei programmi di informazione sportiva.
Un film-inchiesta, prodotto da Ridley Scott, dall’assetto più televisivo che cinematografico, nonostante le splendide riprese con la ARRI Alexa. Ma non per questo noiosa, anzi: il film è stato apprezzato in America, nonostante la contemporanea uscita in sala dell’attesissimo Il risveglio della Forza, ed ha ottenuto importanti premi e nomination. La sceneggiatura dello stesso regista presenta, infatti, una struttura in cui si rivela fondamentale l’alternanza di fasi ben legate ma distinte dal punto di vista del genere di riferimento: si passa dall’indagine modello CSI ai momenti di svago umoristico e satira sociale che allentano la tensione emotiva quanto basta, dalle vicende giudiziarie al dramma delle vittime, trattate con delicatezza ed estremo rispetto e non spettacolarizzate. A fare da contrappunto sentimentale a questa struttura ad incastri ci pensano le vicende amorose del neuropatologo con Prema [Gugu Mbatha-Raw], una ragazza appena immigrata, che rappresenta per lui un sostegno e allo stesso tempo il simulacro di sé stesso ai primi passi in America e, quindi, un contrasto netto con la possibilità di scontrarsi contro un muro di omertà e di dover andare contro colleghi che si definiscono «meccanici che lavorano per mantenere l’auto in pista» e contro la necessità di una realizzazione professionale che non calpesti il giuramento d’Ippocrate, accettando situazioni di comodo avvolte nel silenzio.
Come nel mito di Prometeo, la conoscenza portata al comune mortale dal dr. Omalu arreca sofferenze per primo a lui che, già immigrato in continua lotta per un’integrazione difficile, insegue il sogno americano. Così, sebbene si tratti di una scoperta capace di cambiare le sorti di coloro che hanno scelto il football non solo come passione, ma come mestiere, i provvedimenti sembrano non giungere mai a conclusioni definitive, come del resto la trama stessa del film, che si schiera ma non conclude, che accusa ma poi giustifica e perdona cristianamente le vittime e mediaticamente i carnefici inconsapevoli (?), sentenziando che il football è un gioco di una violenza irragionevole «ma è anche Shakespeare».
«Perdonateli. Perdonate voi stessi».
A margine due note stonate.
Una musica di commento forse poco ispirata o volutamente poco incisiva di James Newton Howard, nonostante l’importanza che il protagonista fornisce alla musica classica ascoltandola sempre durante le autopsie.
Infine, il titolo originale del film, Concussion (letteralmente: commozione cerebrale), non è stato utilizzato dalla distribuzione italiana. Viceversa, il suo impiego sarebbe stato probabilmente meno anacronistico, meno vago e, soprattutto, più significativo, favorendo un’auspicabile maggior diffusione di termini anglofoni in un’epoca in cui internet è davvero alla portata di tutti!