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Rogue One: A Star Wars Story, di Gareth Edwards

Se mai un giorno la nostra civiltà sparisse e qualcuno dovesse studiarne la cultura, come noi abbiamo analizzato le antiche vicende di eroi della Grecia antica, l’archeologo incaricato non potrà esimersi dalla visione dell’intera saga di Star Wars, ma soprattutto, non potrà non notare le analogie che Rogue One: A Star Wars Story scatena con alcuni tra i brani più famosi dell’epos omerico e virgiliano, nonché con la più moderna epica cavalleresca.

Senza scendere troppo nel dettaglio per non togliere sorprese a quanti ancora non hanno goduto della visione di questo colossal, grandiosamente scritto a tal punto da suscitare l’approvazione fino alla commozione anche dello spettatore più scettico o meno ferrato.

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«Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana….»

Così, ovviamente, inizia anche Rogue One ed è subito chiaro che Edwards, pur mantenendo vivo il suo bambino interiore che ha plasmato quell’universo ormai consolidato in modo da adattarlo al suo mondo interiore, sfrondandolo dagli eccessi, dalla retorica fine a se stessa e dall’autocelebrazione a tutti i costi e generando tutta una serie di personaggi nuovi che vivono eventi, di cui, in realtà, si conosce già l’esito, ma che tengono con il fiato sospeso, sempre e comunque. Il merito va ad una sceneggiatura solida che unisce alla fervida e briosa immaginazione di Chris Weitz [Cenerentola, ma anche About a boy] e all’alto tasso di adrenalina di Tony Gilroy [a lui si deve l’adattamento della saga di Jason Bourne], sul soggetto originale del visionario Gary Whitta [Codice Genesi, After Earth e The Walking Dead: The Game – Season 1], che ha supportato John Knoll, alla sua prima prova da scrittore, ma che è, in realtà, una pietra miliare della saga, avendo saltato, da supervisore degli effetti speciali, solo Episodio V – L’impero colpisce ancora.

Una sceneggiatura che, tra le tante gesta degne di nota, narra un episodio di amicizia virile sincera e leale fino al comune tragico destino, un episodio simile a quello di Eurialo e Niso, reso esemplare da Virgilio nell’Eneide, ma anche imprese eroiche di uomini e donne con sommi ideali di giustizia e libertà gridati a gran voce e sbandierati fino al sacrificio estremo, come si tramanda nelle leggende popolari di tutto il mondo; e quando una figura si staglia sul campo di battaglia e attende inamovibile l’inesorabile destino, viene in mente la fierezza del gigantesco Aiace di Omero. Il legame con la leggenda diventa esplicito, poi, se il titolo usato per consegnare segretamente Rogue One nelle sale americane è stato The Alamo.

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Anche i nomi della tradizione lucasiana continuano a rimandare a duelli ancestrali tra il Bene e il Male, Yin contro Yang, che assumono le fattezze originarie di Mon Mothma, figura positiva legata anche etimologicamente al concetto ancestrale di dea “madre”, e Darth Vader, che rimanda alla radice indoeuropea da cui si è formata la parola “padre” e che possiede caratteristiche simili a quelle dell’Oscuro Signore di tolkeniana memoria, nonché al primordiale dio cornuto, la bestia che porterà all’armageddon attraverso un’arma di distruzione di massa, la Morte Nera, che si presenta all’apparenza ingannevole, simile ad una rassicurante luna che, attraverso la luce da sempre benevola, per tutte le culture, qui è latrice di devastazione e annichilimento di ogni forma di vita.

«Tu confondi la pace con il terrore»

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Il regista Gareth Edwards – già apprezzato dalla critica per l’affascinante Monsters, uno sci-fi found-footage catastrofico a low-budget, ed il riuscitissimo reboot di Godzilla – si conferma un fanatico vero della saga ideata da George Lucas ed opera con una cura maniacale del dettaglio, andando a sopperire a mancanze sostanziali come personaggi assenti durante le riprese, per diversi motivi, ricostruiti in CGI e dei quali non basta la notevole attenzione da “addetti ai lavori” per riscontrarne la mancanza di genuinità; oppure andando a riprendere e ricostruire stretto tra le aspettative di un pubblico storicamente molto esigente e integralista fino al midollo e la differenza di mezzi tecnici ed espressivi, che intercorrono tra Episodio III – La vendetta dei Sith (2005) ed Episodio IV – Una nuova speranza (1977), tra i quali va di fatto ad inserirsi secondo la logica temporale. Sì, perché le vicende narrate in Rogue One s’inseriscono appena prima dell’Episodio IV, anzi il plot narrativo da cui è partita la stesura del soggetto è proprio un estratto dal famosissimo opening crawl da cui tutto questo intramontabile fantasy ambientato nello spazio è partito, e cinque anni dopo la serie televisiva animata Star Wars Rebels (2014), prodotta da Lucasfilm e Lucasfilm Animation, a sua volta ambientata quattordici anni dopo l’Episodio III – La vendetta dei Sith.

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Nel corso della serie animata l’Impero Galattico allarga il proprio dominio sulla galassia, dando contemporaneamente la caccia agli ultimi cavalieri jedi rimasti, mentre una nascente ribellione contro l’Impero sta prendendo forma. Lo stile visivo di Star Wars Rebels è fortemente ispirato al concept art della trilogia originale di Guerre stellari (così lo chiamavano tutti allora) ad opera del premio Oscar® Ralph McQuarrie [E.T. e Cocoon] e non poteva che essere altrimenti per Rogue One. Troppo riduttivo chiamarlo spin-off.

«Le stelle più forti hanno un cuore di kyber»

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SINOSSI:

Lo scienziato Galen Erso [Mads Mikkelsen, Valhalla rising, Doctor Strange], dopo aver lavorato per anni per l’Impero Galattico, si è ritirato sul pianeta Lah’mu per vivere in serenità con la sua famiglia. Raggiunto dal Direttore Imperiale Krennic [Ben Mendelsohn], Erso viene catturato e costretto a completare la progettazione della Morte Nera, una stazione spaziale capace di distruggere con facilità un intero pianeta in pochi minuti. La figlia Jyn riesce a fuggire e a mettersi in salvo.

Quindici anni dopo, Jyn Erso [Felicity Jones, La teoria del tutto] è in una prigione imperiale e l’ufficiale ribelle Cassian Andor [Diego Luna, Il libro della vita], accompagnato dal fedele droide K-2SO [Alan Tudyk], ha ricevuto ordine dai ribelli di liberarla per rintracciare Galen ed impedirgli di completare l’arma. Nel frattempo lo scienziato ha inviato un messaggio di fondamentale importanza per le sorti della guerra che verrà e, in gran segreto, ha operato al fine di sabotare la Morte Nera. Sottrarne i piani di progettazione è l’unica soluzione, ma chi sarà tanto pazzo?

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«Non sono ottimista sulle probabilità»

Storia di società matriarcali contro società patriarcali, scontro generazionale per antonomasia, le Guerre stellari di Lucas continuano a separare Yin e Yang e i padri dai figli per ricongiungerli amaramente in abbracci negati. Ma vi è una storia parallela, di amicizia tra uomo e donna, forse un amore in forma embrionale, fatto sta che questa amicizia è suggellata da un abbraccio che rimarrà stampato indelebile nei ricordi dello spettatore proprio per il supremo valore che questo semplice gesto d’affetto può rappresentare. Abbracciandoci entriamo in contatto con la porzione vitale del corpo, adoperando un linguaggio che, senza parole, sa comunicare una gamma di sentimenti ed emozioni superiori a quelle di un bacio, anche il più sentito. Recenti studi scientifici sostengono che abbracciarsi crei addirittura una sincronizzazione cerebrale, anche tra estranei, un’armonizzazione che genera energie positive, paragonabile all’essenza stessa della Forza, in fondo. Ebbene, in quel gesto puro i cuori di due dei personaggi di Rogue One sembrano toccarsi, il loro respiro si sincronizza, il calore umano diviene quasi tangibile anche per il pubblico in sala. Tutto Star Wars è racchiuso in quei pochi secondi in cui niente si è detto ma tutto risulta chiaro, in cui non importa se si deve in fretta prepararsi a morire, perché non ci sono rimpianti ad immolarsi per il bene della propria patria e dei propri compagni d’avventura e, soprattutto, la morte non fa paura se la si può affrontare stretti nell’abbraccio di un vero amico.

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È qualcosa che fa dimenticare anche che non c’è che una spada laser in tutto il film, e nemmeno un cavaliere jedi, anche se è magnifica la scelta di far vedere come la Forza operi nel cuore di chi ha una salda volontà di fare del bene, un esempio per tutti il cieco Chirrut Îmwe [Donnie Yen, Ip Man] che, emulando Zatoichi, rievoca uno dei riferimenti principali di Lucas: l’affascinante cultura legata alla casta guerriera dei samurai. Il successo di Rogue One è tutto nella scrittura e nel suo fornire importanza estrema ai gregari e al sentimento di speranza che pervade l’intera opera e si riannoda a quel 1977 quando qualcosa stava per accadere in una galassia lontana lontana.

«Le ribellioni si fondano sulla speranza»

Quell’abbraccio rappresenta la speranza che ci sarà sempre un sentimento positivo tanto potente da saper contrastare ogni possibile perversità del lato oscuro della Forza. Inoltre, è l’abbraccio ideale dello spettatore e del fan-regista ai personaggi che tanto hanno generato partecipazione a livello empatico, come non capitava da tempo.

«Resto in disparte anche se c’è un problema all’orizzonte: non c’è orizzonte!»

Altro elemento immancabile e, in Rogue One, davvero ben orchestrato è il lato comico, affidato, come consuetudine, soprattutto al droide K2-SO, doppiato da Alan Tudyk, caratterista e doppiatore di successo [Io, robot, Big Hero 6, Frozen]. Un robot ben poco rassicurante per la sua matematica inclinazione al pensiero negativo come il Marvin di Guida galattica per autostoppisti ma che richiama l’automa di Laputa – Castello nel cielo di Hayao Miyazaki nella fisionomia e in una straordinaria dimostrazione d’affetto per l’«imprevedibile» Jyn.

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«Tra noi c’è chi ha deciso di cambiare le cose»

Terzo lungometraggio del franchise, il primo dopo Episodio III, ad essere girato direttamente in digitale con camere Arri Alexa 65, equipaggiate con lenti Ultra Panavision 70, Rogue One si distingue dagli altri film della serie anche per la colonna sonora, affidata per la prima volta non a John Williams, ma ad un altro premio Oscar®, Michael Giacchino [Up, Zootropolis, Doctor Strange, Inside out], che crea una nuova partitura che commenta senza predominare e rubare la scena senza però dimenticarsi di citare i brani tradizionali con delle reprise ad hoc.

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E ora? Aspetteremo con ansia l’uscita di Rogue One in DVD e BluRay e poi sarà la volta di Episodio VIII e Episodio IX, che sono stati annunciati per il 2017 e 2019 e saranno diretti rispettivamente da Rian Johnson molto apprezzato dalla critica per i suoi precedenti Brick – Dose mortale, The brothers Bloom e Looper, e Colin Trevorrow, conosciuto per aver diretto film di grande successo come Safety not guaranteed e il kolossal Jurassic World.

Inoltre, come già accaduto per DC, Marvel e lo Universal Monsters Universe, è stata annunciata la produzione di una serie di spin-off, chiamati Star Wars Anthology, programmati in modo da avere dal 2015 al 2020 un film della saga ogni anno. Quello del 2018 dovrebbe avere come protagonista Han Solo, quello del 2020 ancora è segreto. Il primo dei tre spin-off, diretto da Gareth Edwards è un capolavoro. Ora, con il beneplacito della Forza provate a fare di meglio!

«Non sono ottimista sulle probabilità»

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Creed di Ryan Coogler

Epico. Monumentale. Eppure al passo coi tempi. La leggenda di Rocky continua per altre strade vincendo contro il suo nemico più forte: il tempo, che ha piegato il fisico del personaggio ma non la sua morale, la sua tenacia, quel suo modo di essere vero. Grazie alla freschezza di un sognatore determinato, in cui rivede se stesso, Rocky e il suo stesso interprete si convincono a riprendere quello che era stato dichiarato concluso, per farne qualcosa di nuovo con un retrògusto che sa di classico senza tempo.

Ryan Coogler, al suo secondo lungometraggio dopo il premiatissimo Prossima fermata Fruitvale Station, ha piazzato un bel “colpo d’incontro”, e con lui anche Sylvester Stallone che, impegnato, questa volta, solo come attore, e non come sceneggiatore e regista, può seriamente puntare ad ottenere il riconoscimento principe come non protagonista.

«Un passo alla volta. Un pugno alla volta. Una ripresa alla volta.»

Adonis Johnson [Michael B. Jordan] non ha mai conosciuto suo padre, Apollo Creed, e la madre è morta che ancora era piccolo. Adottato dalla vedova Creed, esce dal riformatorio e finalmente ottiene tutto dalla vita, ma successo, carriera e ricchezza non riescono a colmare un vuoto. Il desiderio di conoscenza di sé, di comprendere la figura paterna e conoscere lo sport per cui Apollo è morto ma anche la passione per cui ha vissuto, lo spingono verso la boxe. Dalla villa extralusso di Los Angeles inizia un viaggio dell’eroe che è un mettersi alla prova fisicamente ma anche e soprattutto un percorso emozionale e un’esplorazione interiore e dei rapporti con gli altri. Avrà davvero le carte in regola per farsi un nome tutto suo? chi crederà in lui? E lui stesso riuscirà ad acquistare abbastanza fiducia nelle proprie capacità? Presto si troverà a Philadelphia, dove c’è una “vecchia roccia” con cui suo padre ha combattuto e che ha anche allenato, un rivale e un amico. Quel nome che significa “credo, convinzione” e che rappresenta per tutti il retaggio di un grande campione, può essere una benedizione, se sarà capace di convincere e convincersi, ma se sbaglierà sarà un peso che lo schiaccerà più di una sconfitta.

Un viaggio dell’eroe che passa attraverso una solida scrittura archetipica, il cui fulcro è il rapporto che s’instaura tra Adonis e Rocky. Che sia il mentore, la sostituzione della figura paterna, o lo “zio”, come lo chiama “Donnie”, il personaggio di Stallone, in Creed, ha un tragitto anch’esso eroico, che parte da un rifiuto dell’avventura. La tenacia del ragazzo, ribaltando i ruoli, vince questo diniego, allenando la “vecchia roccia” a seguire di nuovo il suo istinto di guerriero, sotto una nuova luce di speranza, la luce di una nuova stella, figlia del dio del sole greco.

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Secondo quella che può essere una chiave di lettura allegorica, dettata dalla massiccia presenza di elementi che rimandano alla mitologia, si può azzardare una sinossi, che rivela quanto sia estremamente curata la sceneggiatura in ogni sua parte. Adonis – una sorta di semidio, in pratica – brama di arrivare al posto del padre, tra gli dei, ma viene scacciato dall’Olimpo. Si affida allora ad un mentore, quell’eroe che più umano non si può, colui che già in passato aveva sfidato gli dei, riuscendo dove gli stessi dei avevano in passato fallito, vincendo con la determinazione, con il sudore, con il sangue e con il sacrificio. Riuscirà a fare del ragazzo un guerriero capace di affrontare qualsiasi avversario e portare a testa alta il nome di suo padre? Adonis, simbolo della natura fiorente che splende dopo ogni gelido inverno, della bellezza giovanile, del desiderio di conquista e del rinnovamento a partire dalla morte, riuscirà a coronare con l’alloro della vittoria la sua ardua impresa?

«Un passo alla volta. Un pugno alla volta. Una ripresa alla volta

L’accostamento alla mitologia greca è un elemento che sottolinea l’epicità dei gesti dei personaggi, ben al di là dei nomi che portano. La Delphi Boxing Academy è una tappa fondamentale per il futuro di Adonis, come era un passaggio fondamentale nell’antichità andare a chiedere il responso del famoso oracolo che non a caso è legato all’esortazione “conosci te stesso”. Nella palestra che fu di Apollo Creed, quasi a voler sottolineare il conflitto tra un figlio illegittimo rimasto troppo presto solo ed il padre che non ha potuto conoscere, si rifiutano di allenare Adonis, ma è proprio questo nuovo abbandono, questa solitudine a diventare il motore che spinge verso un’altra anima solitaria, che sia mentore di vita prima ancora che di boxe, verso la realizzazione di un sogno che colmi quel vuoto: capire chi è Adonis Creed.

E poco importa se, per raggiungere i sogni, si devono affrontare dei danni collaterali. Ogni personaggio che incontra sembra invitarlo ad andare fino in fondo senza esitare, trovando la forza per rialzarsi dopo ogni pugno, come ha fatto il padre fino all’ultimo, come fa la fidanzata cantante affetta da perdita progressiva dell’udito, e lui capisce la lezione e sprona a sua volta Rocky a lottare contro il cancro che ormai era rassegnato a non curare. «Fare quello che amo fino alla fine» diventa il proposito di ognuno e, come in una famiglia moderna allargata, quando è Adonis a perdere fiducia, è il vecchio pugile, cresciuto nei sobborghi di Philadelphia, come Stallone stesso, a sorreggerlo e farlo uscire dalle corde in cui la vita lo aveva costretto.

«So come ti senti. Ti senti abbandonato e in guerra con il mondo. Senti il peso della sua ombra

Ed è proprio dall’ombra che emerge la luce e risplende una fotografia monumentale che accompagna la narrazione e la spinge su un piano allegorico: la diversa esposizione, la profondità dei neri e le scelte cromatiche dominanti evidenziano il contrasto tra la luce delle palestre ufficiali piene di presunzioni e interessi e l’ombra della palestra di periferia, tra la polvere, la ruggine e il sudore di chi ha dovuto imparare presto cos’è davvero la vita. A suggellare questa ascesa dall’ombra un uso mirato del piano-sequenza, utilizzato per accompagnare Adonis sul ring, ad iniziare dall’incontro clandestino oltreconfine, girato senza stacchi dal riscaldamento nello spogliatoio fino al knock-out, per finire con la ripresa dell’entrata sul ring, grande prova coreografica di tutto il cast, tecnico e attoriale. Il passaggio dall’oscurità alla luce e la tortuosità del percorso della mdp ricordano che la strada del successo non è mai lineare e priva di ombre, che l’uomo è faber fortunae suae sempre e comunque e che la grandezza dell’eroe non è data dai titoli, non scaturisce dalla vittoria fine a se stessa, ma è il risultato di un’avventura per conseguire obiettivi ben più grandi di una cintura da sfoggiare, qualcosa che trascende la stessa fatica fisica ed eleva il lavoro svolto dagli attori, dai creatori, oltre che dai personaggi, ad impresa straordinaria che merita il trionfo.

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Grande lavoro di costruzione del personaggio e della credibilità di pugile per Michael B. Jordan, che si è sobbarcato un peso non indifferente andando a raccogliere il testimone da un personaggio-attore che è leggenda, aprendo prepotentemente la strada a nuovi scenari. Il confronto generazionale tra Apollo e Adonis ha il suo parallelismo proprio nel confronto tra Jordan e Stallone, il cui personaggio ha avuto addirittura l’onore di avere una statua nel cuore di Philadelphia: un Rocky trionfante, oggetto di culto per fan di ogni età che fanno la fila per scattarsi una foto insieme, come se fosse un personaggio realmente esistito. Un simile attaccamento si annovera per un altro pugile frutto della fantasia: nel 1970, in Giappone, dopo la morte di Rikishi, eterno rivale del protagonista del manga cult Ashita no Joe (famoso in Italia come Rocky Joe) e altrettanto amato dai lettori, fu organizzato un vero e proprio funerale, a cui parteciparono centinaia di persone.

Tante le autocitazioni della serie: oltre agli oggetti di casa Balboa, che rimandano ai precedenti film, una chicca che non può sfuggire ai fan: durante il primo allenamento con lo zio Rocky, Adonis indossa una maglia con la scritta “Why do I wanna fight? Because I can’t sing and dance…”, una linea di dialogo presa dal capostipite del franchise, quando Rocky è a pattinare sul ghiaccio con Adriana.

Per concludere, alcune curiosità: Creed è il primo film della serie ad essere distribuito da Warner Bros, a non portare, in quanto spin off, il nome Rocky nel titolo, ad avere un’aspect ratio monumentale da 2.35:1. Sylvester Stallone ha espressamente richiesto che Adonis avesse gli ormai tradizionali calzoncini a stelle e strisce indossati da Apollo Creed in Rocky (1976) e da Rocky in Rocky III (1982) e Rocky IV (1985) per sottolineare l’eredità incarnata dal nuovo campione. Curioso, inoltre, come, al momento della realizzazione del film, Stallone sia chiamato ad indossare i panni di allenatore alla stessa età, 69 anni, di Mickey [Burgess Meredith] nel primo capitolo della saga.

Un finale alternativo è stato girato e sarà presente nella versione home video.

«Un passo alla volta. Un pugno alla volta. Una ripresa alla volta