Everest

Everest, di Baltasar Kormákur

Se siete riusciti anche voi, come me, nell’intento di non farvi spoilerare tutta la trama – pericolo alquanto concreto visto che il film narra vicende realmente accadute -, potrete maggiormente apprezzare uno dei migliori film del 2015.
Concretamente divisibile in due parti, salita e discesa, il film si apre con un setting corposo, e non poteva essere altrimenti dato il numero elevato di personaggi da presentare, tutti ben approfonditi psicologicamente. I dialoghi serrati permettono di conoscere in maniera scorrevole le forze motrici che spingono i protagonisti a mettersi in un’avventura più grande di loro. Man mano che l’ossigeno diminuisce, durante la graduale ascesa, I discorsi si fanno più rarefatti, con un corrispondente aumento di quel misto di preoccupazione ed eccitazione tipico di questo genere di avventura. Il gioco dei contrasti tra la calma prima della tempesta – è davvero il caso di dirlo! – e il pieno dell’azione è sottolineato da una fotografia dai toni molto caldi, riscontrabile negli interni dell’introduzione, in contrapposizione a quella desaturata dell’ambientazione himalayana.

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Contrariamente a quanto si possa immaginare, salita e discesa sono inversamente proporzionali alla tensione emotiva generata. È infatti il ritorno dalla vetta a coinvolgere lo spettatore, ad innescare un climax, inteso come scala di tensione, ben orchestrato e sorretto da una musica di commento che sottolinea l’epicità dei gesti senza prendere il sopravvento, affidata all’italiano Dario Marianelli, premiato nel 2008 con Oscar e Golden Globe per Espiazione.

«È bello arrivare in cima, ma in realtà tu mi paghi 65.000 dollari per riportarti indietro. Ricordatelo!» sentenzia colui che ha la responsabilità di guida della spedizione e filo conduttore narrativo, Rob Hall, interpretato da un dignitoso Jason Clarke, riserva della prima scelta Christian Bale, che rifiuta per Exodus, lasciando con non pochi rimpianti i fan che l’avrebbero visto volentieri cimentarsi di nuovo con un personaggio da survival movie, come accadeva ne L’impero del sole.
Tuttavia, se è possibile indicare da subito Rob come protagonista principale, con altrettanta facilità individuiamo come il nodo cruciale sia il bisogno di rivalsa insito in ogni personaggio e allegoricamente rappresentato dal postino Doug, tanto che si può tranquillamente affermare che il villain stavolta non sia tanto l’Everest in tutta la sua pericolosa maestà, quanto la condizione stessa dell’essere umano con la sua fallibilità nei momenti critici, l’egocentrismo degli uni abbinata all’ingenuità degli altri, il desiderio di spingersi sull’orlo dei propri limiti anche quando le conseguenze non si pagano in maniera solitaria.

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Il film risulta emozionante, a tratti commovente, grazie ad uno script che coinvolge lo spettatore e che compensa una recitazione non particolarmente convincente, eccezion fatta per una Emily Watson straordinariamente empatica, lei sì da brividi!
Una riflessione a margine riguardo i discorsi confusi, uno dei sintomi dell’ipotermia, di cui si parla nel film, mi sembra doverosa: ascoltando tribune politiche, commentatori radiofonici e televisivi o leggendo i post di molti amici sui social, nonché recensioni come questa – ma non questa! -, mi sorge il dubbio che gran parte dell’umanità non sia già in uno stadio avanzato vicino all’assideramento.