Federica Carruba Toscano

Yesus Christo Vogue, di Joele Anastasi

Scendiamo lentamente lungo un tunnel di orrore e vacuità. Il nostro sguardo viene intrappolato da tre piccoli monitor, tre occhi appesi lungo il breve corridoio, che testimoniano il disfacimento dell’umanità, inquadrando il terrore e screziandolo di vuoto. È un rito di passaggio che scartavetra la patina superficiale di ognuno di noi ed espone le nostre ferite al buio della sala e della storia. È questo pugno allo stomaco il primo obolo da pagare per vedere “Yesus Christo Vogue”, nuovo spettacolo della compagnia Vuccirìa Teatro per la regia di Joele Anastasi.

Una nebbia fitta ci avvolge una volta superata la porta socchiusa. Trovare le poltrone è come cercare un posto nel mondo, e quando riusciamo sembra che i nostri sensi siano ottusi, anch’essi avvolti dal velo nebuloso. Attendiamo con pazienza che tutti compiano il rituale, che tutti vengano lacerati dalla consapevolezza della decomposizione dell’umanità, mentre un Cristo sporco, alcolizzato, drogato è relegato in un angolo della sala, illuminato dall’unico fascio di luce.

Quando il palco si rivela, realizziamo che di esso non rimangono che due strisce appena. Un incrocio di strade interrotte, una croce consumata. La storia non esiste più, il mondo è stato divorato e vomitato e noi sediamo tra le sue macerie fumanti. E mentre il Yesus Christo Vogue viene inghiottito dal buio della nicchia della memoria, due figure emergono indistinte dalla nebbia. La corruzione ha intaccato i corpi dei due esseri umani sopravvissuti, ma soprattutto ha sbreccato le loro anime, che travasano all’esterno l’inquietudine del vivere. La foschia non si dirada, è la nebbia della ragione e della speranza, precipitate nel baratro assieme all’umanità. L’apocalissi ha cancellato l’uomo e l’amore, e ha partorito infelicità e solitudine. Adamo ed Eva della nuova genesi hanno già perso la purezza, la speranza, la capacità di sognare, ma sono condannati ad una vita eterna, senza un passato e senza un futuro, in un costante presente senza redenzione. Sono divinità nate dal fango che non tendono al cielo.

È allora che la morte diviene desiderio. La stasi di vita in cui sono immersi i due sopravvissuti non genera altro che sofferenza, e anche la possibilità di concepire un altro essere umano, unico embrione di cambiamento, sembra dolorosa, infausta. Non c’è nemmeno un Dio a cui appellarsi, scomparso con l’umanità stessa, divorato dalla falsa onnipotenza della sua creatura più bella. Adamo ed Eva sono soli, lottano, si graffiano, si sottraggono all’amore perché non riescono a riconoscerlo. Sono anime dissonanti che non entrano in risonanza e tra loro si genera una cacofonia di vuoto e paura e rabbia.

Yesus Christo Vogue 2

“Yesus Christo Vogue” è un’apocalissi in nuce. Ogni essere umano contiene in sé quell’annientamento, quel dolore, che esplode ogni volta in cui assurgiamo a divinità, ogni volta che scagliamo giù Dio e ci sostituiamo a lui, convinti che l’infinito sia ad un passo e basti tendere la mano per afferrarlo. È il cataclisma di fango e superbia con cui l’uomo ha ricoperto il divino. Yesus Christo Vogue, però, ci osserva, sporco e ferito e attende di essere lavato e purificato per redimere l’amore. La nebbia si dirada solo quando viene sostituita dalla consapevolezza.

Vuccirìa Teatro, ancora una volta, non teme di affrontare il buio dell’umanità, le sconfitte dell’uomo che intessono la storia, quella personale e quella del mondo. Già il nome Vuccirìa è di per sé evocativo. È infatti il nome di un famoso mercato palermitano, che se da una parte trae origine dal termine francese boucherie, cioè macelleria, dall’altro, in dialetto locale significa confusione. Un ammasso disordinato di carne, come appunto l’umanità stessa, le sue speranze, i suoi conflitti, le sue bassezze e aspirazioni.
La regia di Joele Anastasi (Yesus Christo), drammaturgo e attore neanche trentenne, si dimostra cruda e di forte impatto, sicuramente evocativa. Adamo, Enrico Sortino, appare sottotono, quasi spaesato, soverchiato in più punti dalla forza e dalla determinazione dell’ultima Eva, l’ottima Federica Carruba Toscano.

I Vuccìria Teatro hanno vinto il “Roma Fringe Festival 2013” e il “San Diego Fringe Festival” con “Io, mai niente con nessuno avevo fatto“, mentre Federica Carruba Toscano è reduce dallo spettacolo Ogni volta che guardi il mare

Ad ospitare “Yesus Christo Vogue” in prima nazionale fino al 26 marzo sarà il Teatro dell’Orologio di Roma.

Ogni volta che guardi il mare, di Mirella Taranto

Sara si è spaccata in due per sopravvivere, e tra una metà e l’altra c’è un mare intenso, non celeste, non azzurrino, ma blu. Blu come quello calabrese, quello che non conosce e non accetta mezze misure. È il mare del silenzio e dell’omertà, un gorgo che divora, che inghiotte tutto intero. Da quel mare è scappata a cinque anni con sua madre, moglie di un mafioso ma non della mafia, una donna che ha reciso le proprie radici per dare ali a sua figlia. “Ogni volta che guardi il mare”, sul palco del Teatro Lo Spazio di Roma, è lo spettacolo intenso, struggente, doloroso scritto dalla giornalista Mirella Taranto, diretto da Paolo Triestino e interpretato da Federica Carruba Toscano in ricordo di Lea Garofalo, vittima della ‘Ndrangheta ma prima di tutto figlia del coraggio. Una pièce che dura il tempo di cucinare un dolce, un monologo che è un dialogo tra generazioni, uno sguardo lucido sulle ferite dell’anima che non scade mai nel pietismo o nel melenso. È un racconto di parole su parole, di suoni e rumori in cui il silenzio non trova posto, perché fin troppo ne ha trovato nella vita delle due donne.

Il breve ritorno a casa dopo la morte della madre dura per Sara quanto la fuga stessa, trascinando con sé un passato ingombrante e rumoroso che il piccolo paese della Calabria si rifiuta di guardare. I ricordi affiorano con la potenza di un’onda che si infrange contro lo stomaco e lascia senza fiato, ma Sara si fa scoglio e li affronta senza abbassare lo sguardo, il mento alto come le ha insegnato sua madre. Dopo anni in cui l’unico bagaglio è stata la nostalgia, il sentimento dell’assenza, la giovane donna può tornare a immergere le mani nella terra alla ricerca delle radici materne, ad aspirare il profumo di origano, di arance, di acqua salmastra per nutrire una sete ancestrale e dare sfogo alla rabbia e al pianto, antichi come la terra in cui non si riconosce.

“Ogni volta che guardi il mare” risuona dentro come la risacca, come la risata che riempie le stanze vuote, che colma le distanze, che tiene a galla nel mare di silenzio e omertà. È il canto di libertà che la madre di Sara le insegna quotidianamente, «quell’esplosione improvvisa che uccideva la paura», è la brezza che Lea Garofalo ha soffiato sulle ali di sua figlia per farla sollevare sopra le brutture della sua terra, per farla volare in cieli che a lei sono stati negati. E non c’è interprete migliore di Federica Carruba Toscano per raccontare tutto questo. Già apprezzata al Roma Fringe Festival del 2013 con lo spettacolo “Io, mai niente con nessuno avevo fatto”, la giovane attrice è capace di rendere suo ogni frammento della storia, di accogliere in sé l’anima delle due donne, di partorire il dramma senza orpelli inutili. Un’intensità straordinaria che si infiamma con il dialetto, terrigno e concreto, e plasma figure reali e ferite. Alla fine di “Ogni volta che guardi il mare”, sospesa nel limbo delle luci che si spengono e delle parole che si affievoliscono, rimane l’eco lontana e solo immaginata delle ossa spezzate di Lea Garofalo, che nemmeno da morta ha voluto piegarsi al silenzio.

Lo spettacolo sarà in scena al Teatro Lo Spazio di Roma fino al 21 febbraio.