Guy de Maupassant

Lady Macbeth, di William Oldroyd

L’erica, le colline, la brughiera, e il vento che taglia il viso come una lama. Questo è tutto ciò che si mostra allo sguardo di Katherine il giorno delle sue nozze. Poi la porta della casa padronale si chiude alle sue spalle e da allora solo il vuoto. Suo marito le proibisce di uscire. Tutto ciò che le concede è alzarsi dal letto, strizzare la sua giovinezza in un corpetto, e attendere il suo ritorno, a volte per ore, a volte per giorni. Poi quando torna le porta disprezzo invece che amore. Il silenzio di quella casa è assordante, le toglie il fiato più degli abiti abbottonati fino alla gola, e il tempo non passa mai. Il corpo è immobile, mentre la mente si agita incessante, cerca di liberarsi in ogni maniera dai lacci che la lacerano, fino a che accade qualcosa.

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L’incontro con un giovane stalliere alle dipendenze del marito accende in lei qualcosa che non aveva mai provato prima, un desiderio bruciante, più vicino all’ossessione che all’amore, che le da la forza di reagire all’oppressione, a liberarsi dalle catene e a scatenare il suo lato più bestiale. Da moglie mansueta Katherine si trasforma in una regina sanguinaria, disposta a tutto pur di vivere indisturbata la sua passione, anche ad uccidere degli innocenti. Ed è qui che la donna oppressa del 1865 incontra la Lady Macbeth di shakespeariana memoria, che non sa cos’è la compassione, e forse neanche l’amore, accecata com’è dall’unico obiettivo che si è posta: la libertà. Le mani macchiate di sangue si perdono tra le pieghe dei suoi abiti, e l’atteggiamento compassato, quasi inumano, che mantiene per tutto il tempo spaventa più dei suoi crimini, trasformando l’empatia iniziale in terrore. Ed è su questo che William Oldroyd calca la mano, concentrandosi sui tratti morbidi e allo stesso tempo granitici del suo volto di donna, che sa tradurre un urlo di odio in una lieve increspatura delle labbra, e raccontare in un gesto i moti infiniti dell’animo.

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Lady Macbeth, nata nel romanzo breve di Nikolaj Leskov, Lady Macbeth del distretto di Mcensk, e diventata nota al grande pubblico nel 1934 con l’opera del compositore russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, torna a vivere nella campagna inglese dell’Ottocento, cambiando veste ma non temperamento. Dalla rivolta anti borghese alla lotta per l’indipendenza da un marito oppressore, Lady Macbeth rimane un simbolo di coraggio e di violenza efferata, di ma soprattutto di determinazione che supera la morale per un fine superiore. La sua mano assassina e quella di tutte le donne vendute e comprate come bestie, a cui il matrimonio ha strappato il cuore e soffocato i sentimenti, di tutte quelle donne la cui vita vale meno di niente, e che non possono fare altro che armarsi e cambiare il loro destino, trasformandosi da vittime in carnefici.

Una vita, di Stéphane Brizé

Une vie (Una vita) è la storia di Jeanne du Perthuis des Vauds, eroina del primo romanzo di Guy de Maupassant, elogiato da Tolstoj come la massima espressione narrativa francese, dopo “I miserabili” di Victor Hugo. Nel passaggio dal romanzo al film, il regista Stéphane Brizé rivolge lo sguardo unicamente alla protagonista, concentrando su di lei e sulle sue emozioni tutta la narrazione: il risultato è un film in costume assolutamente atipico, lontano dal temperamento romantico che ci si potrebbe aspettare dalla trasposizione di un romanzo d’appendice.

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Come premette il titolo, “Une vie” segue il percorso di formazione individuale di Jeanne – interpretata da Judith Chemla – a partire dall’amorevole rapporto con i genitori, Simon-Jacques Le Perthuis des Vauds (Jean-Pierre Darroussin) e Adélaïde Le Perthuis des Vauds (Yolande Moreau). Nata e vissuta in un contesto rurale, la giovane baronessa incontra presto Julien de Lamare (Swann Arlaud), un nobile caduto in disgrazia in cerca di una compagna e – soprattutto – di una rendita. L’incanto della vita coniugale, cullata nella bambagia familiare, svanisce presto davanti alla perpetuata infedeltà di Julien e al suo cinismo: questa crisi, che terminerà in tragedia, dà il la a una serie di disgrazie che porteranno, fino alla fine, la protagonista a scontrarsi con la dura realtà e con la definitiva perdita dell’illusione.

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Così come ne “The Measure of a Man” (2015), Brizé affronta la rottura dell’ideale attraverso l’accanimento del destino sulla vita dei suoi protagonisti, proseguendo la sua indagine artistica nel confronto tra Uomo e Società. Per rendere con maggiore intensità la sofferenza umana, il regista francese si serve, in “Une vie”, di una serie di espedienti tecnici, a partire dall’audio, volutamente in mono per rendere con maggiore efficacia il punto di vista unico del personaggio, fino ai lunghi silenzi e agli sguardi eloquenti della sua bravissima attrice protagonista. La sceneggiatura, infatti, più che sul dialogo vero e proprio, si basa sul racconto trasversale delle lettere che i personaggi scambiano tra loro e sulle reazioni espressive che queste riescono a provocare. Ancora, Brizé sceglie di rappresentare la storia quasi come un documentario, non lesinando dettagli fisici sconvenienti – quali il sudore, la sporcizia e l’invecchiamento – e seguendo spesso i personaggi con la camera a mano. Il risultato è un film impegnativo, ma che riesce senz’altro a rendere l’epoca raccontata – il diciannovesimo secolo – con uno stile immersivo, in grado di far sentire lo spettatore catapultato in un’altra epoca reale e non in una sua rappresentazione manierata.

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Lo sguardo fotografico, ristretto a un’illuminazione per lo più naturale, riesce a inquadrare con oggettività i dettagli e i paesaggi, dando vita a una serie di tableaux vivants che ricordano la produzione pittorica ottocentesca, ricca di boschi, campagne e natura incontaminata. L’effetto pittorico, non voluto – anzi osteggiato – dal regista, è però piuttosto immediato, data anche la scelta del formato 1:33, che ritaglia l’immagine in confini quasi quadrati.

“Une vie” è un racconto malinconico, con frequenti picchi tragici, che isola in maniera esemplare la bontà dell’eroina e la rende martire della buona fede. Una denuncia, attraverso un romanzo antico nella scrittura, ma contemporaneo nei temi, della condizione subalterna della donna, dal suo rapporto con il sesso e con l’amore, a quello con il denaro. Nella sentenza conclusiva, però, il regista mette un punto al senso di persecuzione di genere, dichiarando l’assoluta oggettività del caso e la responsabilità dell’individuo nei confronti delle disgrazie. “Une vie” non è un film né semplice né scorrevole, ma un prodotto fortemente intellettuale destinato a un pubblico colto e temprato ai tempi lenti e ai sottotesti esistenziali.