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Attacco al potere 2, di Babak Najafi

Pres. Asher: «Di che diavolo sei fatto?»
Banning: «Di Bourbon e pessime scelte»

Gli Stati Uniti si sono ripresi dal precedente attacco nord coreano e vivono un periodo di pace. Fin quando a Londra il Primo Ministro muore per quelle che sembrano circostanze ordinarie. Al suo funerale parteciperanno tutti i maggiori capi di Stato, compreso il presidente Benjamin Asher [Aaron Eckhart]. Il suo capo della sicurezza, e amico, Mike Banning [Gerard Butler], in procinto di diventare padre e dare le dimissioni per occuparsi a tempo pieno della famiglia, dovrà accompagnarlo per un’ultima missione, che dovrebbe essere pura routine. Ma quello che doveva essere un evento blindatissimo si rivela un complotto ben orchestrato che mira ad uccidere i più potenti leader mondiali. Non ci vuole molto a Banning per capire che i terroristi devono essere stati aiutati da qualcuno all’interno, ma come potrà cavarsela, braccato in una Londra sotto attacco, senza potersi fidare di nessuno?

Mettere a ferro e fuoco una capitale europea e uccidere innocenti, oltre ai maggiori capi di Stato è Storia prima che trama di un film d’azione. L’atteggiamento di lotta a oltranza per la sopravvivenza, di sopraffazione totale del nemico senza alcuna remora o pietà, la vendetta come unico sentimento che muove le coscienze al pari dell’amore verso il proprio Paese e chi lo rappresenta, sono le fondamenta sulle quali è costruita la trama del seguito di Attacco al potere.

Stavolta il coriaceo agente Banning è fuori dal suo territorio e dovrà dar fondo a tutte le sue qualità militari per poter salvare il Presidente e sconfiggere un nemico che è rappresentato come vendicativo, senza scrupoli e spietato, ma votato eroicamente al sacrificio, pur di raggiungere il suo scopo: un terrorista che, dallo Yemen, mette in atto un’azione militare ben precisa, che oggi, in seguito agli attentati di Parigi, riconosciamo come fondatamente realistica. Probabilmente il ritardo nell’uscita del film nelle sale è da imputare proprio alla stretta connessione con i tragici eventi di novembre 2015.

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Thriller e terrorismo: un connubio di successo che va ben oltre il cliché cinematografico e che trova etimologicamente la sua spiegazione nell’origine dei termini, entrambi derivati dalla comune radice indoeuropea ter-, che vuol dire “tremare”. Una tensione che rimane una costante per tutta la durata del film. Un film d’azione che ha il fine ultimo di fungere da catarsi: a prescindere dal finale, lieto o tragico che sia, l’importante è dare «a quei bastardi» quello che si meritano, senza stare a pensare cosa ci sia nascosto sotto, o dietro, nell’ombra, quali conseguenze possano esserci per l’economia globale quando metropoli come Londra vengono rase al suolo per un terzo e i capi di governo sono allo sbando.

Civiltà, diplomazia, rispetto nei confronti dell’avversario, non aspettatevi di vederne che qualche fortuito secondo. Questa è una di quelle rare occasioni, ormai, in cui potete godere di una sparatutto mozzafiato, adrenalinico, a tratti condito con quell’ironia e quel sarcasmo che trovano la similitudine più recente nelle battute di John McClane nella saga di Die hard.

L’idea di base è evidentemente quella di intrattenere come può fare un videogioco, ma aggiungendo un inaspettato punto di vista, lasciato un po’ tra le righe, che però non va trascurato, dal momento che il regista è di origini iraniane: l’eroicità dei gesti nelle file nemiche, che fanno da specchio a quelle dei colleghi americani, insinuano, quasi sotto pelle, un retrogusto amaro della battaglia, in cui chi concretamente combatte ha tutto da perdere e ben poco da guadagnare.

Cambio della guardia nel settore regia. A dirigere è lo svedese di origini iraniane Babak Najafi [Sebbe, Snabba cash II], non più Antoine Fuqua [Training day, The equalizer, Brooklyn’s finest], che è in fase di post-produzione con il remake de I magnifici sette e che è annunciato come regista di The man who made it snow, con un ispirato Jake Gyllenhaal, chiamato ad interpretare Max Mermelstein, il trafficante di droga del cartello di Medellín che lavorava come ingegnere allo Sheraton Hotel.

È stato, però, mantenuto intatto il nucleo di sceneggiatori che hanno creato la storia e i personaggi del primo Attacco al potere – Olympus has fallen, Creighton Rothenberger e Katrin Benedikt, conosciutisi proprio ad un master di scrittura creativa nel 2000 a Philadelphia.

Alla coppia, nel lavoro e nella vita, si aggiungono Christian Gudegast [Il risolutore, Ragazze al limite e, prossimamente, Den of thieves, sempre con Gerard Butler] e il promettente Chad St. John che, dopo il sorprendente cortometraggio The Punisher: Dirty laundry, ha firmato la sceneggiatura di Replicas, uno sci-fi thriller con Keanu Reeves che dovrebbe uscire nel 2017.

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Un’altra caratteristica, purtroppo mantenuta inalterata, è il mancato utilizzo del titolo originale London has fallen (“Londra è caduta”), che richiamerebbe quell’Olympus has fallen del primo capitolo del franchise, che nei codice dei Servizi Segreti è “la Casa Bianca è caduta”. Non è colpa della nuova distribuzione M2 Pictures che, di fatto, si trova in qualche modo costretta a mantenere un anacronistico sequel numerato, che non fa onore all’ottimo prodotto, girato, peraltro, con una qualità audio-video indiscutibilmente  alta [Red Epic Dragon con file di lavorazione da 5K]. Fu la Notorius Pictures a distribuire a suo tempo, in Italia, il primo film, con il titolo Attacco al potere, vuoi per facilitare quella fetta di pubblico che non mastica ancora l’inglese o per sfruttamento commerciale dell’indimenticato film con Denzel Washington e Bruce Willis del 1998. Curioso, poi, che anche quel film sia stato oggetto, allora, di una fantasiosa traduzione dall’originale The Siege, che in realtà sarebbe “l’assedio”, per non creare confusione con l’altrimenti omonimo film di Bernardo Bertolucci, in contemporanea uscita nei cinema lo stesso giorno, il 5 febbraio 1999.

«La tecnologia è buona solo se non la usano gli imbecilli»

Quale sarà il prossimo obiettivo dei nemici? Roma? Madrid? Berlino? Oppure una metropoli orientale? Non è ancora stato annunciato nulla a tal riguardo. Se il franchise continuerà, lo deciderà l’accoglienza riservata dagli spettatori a questo seguito in trasferta europea.

Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti

«… cioè… un supereroe con le scarpe di camoscio non s’è mai visto!»

Quando pensiamo ai supereroi, al loro ambiente naturale, non ci verrebbe in mente mai Roma, o meglio penseremmo per prima ad una metropoli americana, reale o verosimile che sia, o al massimo, i più geek tra noi, potrebbero pensare a Hong Kong, Tokyo o qualche altra città dotata di grattacieli da buttare giù, folle urlanti di terrore al cospetto del villain di turno, oceani immensi in cui immergere giganteschi robot. Figurarsi se un produttore italiano poteva credere in un progetto così intelligente, che supera le “barriere architettoniche” di una città monumentale come Roma e le rende plausibile ambientazione di una storia fichissima. Gabriele Mainetti non fa un azzardo, semplicemente crede nel suo progetto fantastico, in se stesso e soprattutto nelle possibilità infinite del cinema,  si auto produce e dimostra sul campo tutto il suo coraggio. Per rappresentare bene un supereroe, bisogna, in fondo, un po’ esserlo.

Tor Bella Monaca fa da sfondo alle vicende di Enzo Ceccotti [Claudio Santamaria], piccolo delinquente di borgata, che entra accidentalmente in contatto con una sostanza radioattiva. Data la sua esistenza, basata su espedienti, non passerà molto prima che scopra di aver acquisito dei superpoteri. Taciturno, solitario e chiuso in se stesso, Enzo sceglie la strada della superdelinquenza, solo gli obiettivi si fanno più facili da raggiungere. Alessia, vicina dissociata per via di un lutto, rivede nelle capacità di Enzo le caratteristiche positive del suo eroe-fissazione: Jeeg robot d’acciaio. Oltre lo strato di sporcizia e criminalità, oltre il rifiuto delle responsabilità derivate dai poteri, oltre il suo lato oscuro, più oscuro della melma che lo ha elevato al di sopra di ogni altro uomo, Enzo dovrà scegliere cosa essere: un paladino del Bene, un supercriminale o un cavaliere oscuro?

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Un superhero movie sui generis, pieno di azione e divertimento, che non sfigura di fronte ai suoi stessi modelli di riferimento, ma che sa essere romantico, nel senso originario della parola, commovente e profondo e, quindi, qualcosa di imparagonabile. Trapela una diffusa tenerezza dietro tanto fragore di lotta e macerie. Un trasporto nel narrare per immagini, che assomiglia a quello riscontrato già nei corti di Mainetti, Basette, del 2008 e Tiger boy, del 2012, in cui sradica un personaggio appartenente al contesto di animazione giapponese per innestarlo in un ambiente suburbano perché sia la scintilla che serve al protagonista per crescere e reagire ad una sorte avversa che non gli si addice. Allo stesso modo in Lo chiamavano Jeeg Robot la fragilità dei personaggi dovrà fare inesorabilmente i conti con un’invulnerabilità fortuita e la voglia o no di redenzione.

La coraggiosa operazione di Gabriele Mainetti e della sua Goon Films si basa su di un perfetto equilibrio tra la forza centrifuga, esercitata dagli elementi che il pubblico non appassionato di fumetti, anime e film di genere non può che considerare fuori dal suo contesto, e la forza centripeta dell’ambientazione romana, che riporta, invece, lo spettatore alla realtà, fornendo credibilità, concretezza, tangibilità, proprietà necessarie per partecipare emotivamente alle straordinarie vicende che si abbattono sui personaggi del film.

Dopo l’adrenalinico incipit in media res del protagonista, inseguito dalla polizia, per i vicoli del centro storico, fino al Lungotevere, si viene inesorabilmente rapiti nel crescendo emozionale di un preciso meccanismo cinematografico, senza fretta, proprio come il tema musicale principale che cresce d’intensità, di pari passo con la consapevolezza di Enzo.

«Poi organizziamo per il giorno delle tenebre, eh!»

La struttura narrativa è semplice, classica, ma non per questo banale. Una sceneggiatura magistrale, quella di Nicola Guaglianone e Menotti (anche fumettista), costruita su forti contrasti: Enzo alias Jeeg Robot, o Hiroshi, come lo chiama Alessia, e Fabio, lo “Zingaro”, sono contrapposti non solo sul campo di battaglia, ma anche per la filosofia di vita, che anche se è malavita, non è detto che debba essere senza onore. Quello che Enzo desidera per sé è passare inosservato e rimanere nell’ombra e nella sporcizia, dove è sempre stato, lontano dalle preoccupazioni, senza responsabilità, abituato a fare i conti solo con se stesso. Un outsider solitario e introverso. Tutto il contrario dello Zingaro che, protetto da un manipolo di subalterni senza diritti di opinione, vuole lasciare un segno della sua presenza nel mondo, fare “er botto”, mosso da una filosofia tutta sua, senza alcun valore, tendente all’effimero. In passato ha assaporato i suoi 15 minuti di notorietà partecipando al programma TV Buona Domenica e da allora ha sempre sperato che di nuovo i riflettori potessero illuminarlo. Di nuovo, come già notato per Creed, nell’anno de Il risveglio della forza, è dall’oscurità e dalla melma che emerge l’eroe mentre il cattivo viene rappresentato sempre alla luce del sole, come a voler dire che il Male oggi non si cela nell’ombra ma, ben visibile, si mostra senza essere riconosciuto come tale.

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Lo Zingaro che Luca Marinelli diventa sul grande schermo, è una sua personale rivisitazione del personaggio del Joker, mentalmente instabile, istrionico clown e spietato assassino, crudele e ironico. Le sue battute di spirito sono memorabili, specialmente nel duello verbale con Enzo.

«Ma se po’ sapè te chi cazzo sei? T’ha mozzicato un ragno? Un pipistrello? Sei cascato da n’artro pianeta?»

Anche la musica, scelta per caratterizzare i personaggi è studiata per sottolineare questo dualismo. Da una parte il tema musicale del personaggio di Enzo e la versione intima della sigla italiana della serie televisiva, cantata con sentimento dallo stesso Santamaria mentre scorrono i credits, dall’altra, in perfetto contraltare, il repertorio “da esibizione” dello Zingaro, costituito da alcune delle canzoni più popolari degli anni della messa in onda di Jeeg in Italia: del 1978 è Un’emozione da poco di Anna Oxa, tutte del 1982, invece, Latin lover di Gianna Nannini, Non sono una signora di Loredana Bertè e, infine, Ti stringerò di Nada, impiegata magistralmente per generare un efficace straniamento in una scena di ultraviolenza che richiama Arancia meccanica e Natural born killers.

All’astrazione della trama si contrappone, infine, la solidità degli elementi scenici, degli effetti meccanici e digitali, e la tangibilità della condizione sociale rappresentata, della fotografia che fornisce solennità ma non astrae. A questo, leggiadramente, concorrono gli espliciti elementi di significazione simbolica come il murales celebrativo di un’impresa di Enzo con la scritta xenofoba che insulta invece lo Zingaro, sempre per sottolineare visivamente il contrasto tra i due avversari, e gli elementi nascosti nel sottotesto, dove a diventare un concentrato di significati allegorici è un palloncino, emblema dell’infanzia e dell’innocenza già nel famosissimo cortometraggio Il palloncino rosso, Palma d’Oro nel 1956.

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Speriamo che il coraggio e la concretezza dimostrati da Mainetti siano d’esempio e d’orgoglio per il cinema italiano, fossilizzato in un loop di romanzi criminali e solite commedie che, alla fine, non ci portano, se non raramente, alle vette che meritiamo già solo per le ambientazioni naturali e cittadine, che il mondo intero ci invidia.

«Noi restiamo tutti con te…»