in sala

Whiplash, di Damien Chazelle

Per essere un buon musicista bisogna conoscere profondamente il tempo e il ritmo della musica, tenere sotto controllo l’emozione, essere costanti e metodici, provare i pezzi fino allo sfinimento, e naturalmente avere un talento naturale. Ma per essere il migliore bisogna superare le proprie aspettative, mettendo in gioco anima e corpo per creare un momento di estasi unico, in cui la tecnica incontra la creatività, in un equilibrio perfetto tra sangue, sudore e cervello. Andrew è uno dei candidati all’eternità nell’olimpo della musica e da quando si è iscritto nella scuola di musica più importante di New York il suo unico obiettivo è entrare a far parte della ristrettissima orchestra di Terence Fletcher, l’unico insegnante in grado di distinguere un musicista geniale da uno mediocre alla prima battuta. Fletcher non ha tempo per compassione, per le giustificazioni e per le rimostranze, perché il suo unico compito e quello di scovare l’eccellenza tra la miriade di studenti che affollano le aule della scuola con i loro strumenti pesanti e il cuore pieno di aspettative. Dal suo punto di vista chi non ha talento vale meno di niente e sta occupando deliberatamente un posto che non gli appartiene, quindi farebbe bene a fare le valigie e a tornare sui suoi passi per cercare un lavoro vero. Quando il suo orecchio sottile incontra la batteria di Andrew, uno studente di belle speranze tra i tanti, scatta in lui il desiderio di metterlo alla prova, e di sfidare senza alcuna pietà i suoi limiti fisici e mentali per scoprire la sua passione rudimentale per i grandi del jazz è supportata da un’abilità fuori dal comune.

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Il mondo dei vecchi, esperti ma saccenti, si scontra in un testa a testa senza precedenti con l’arroganza dei giovani, nutrita dalla fame di successo e dal desiderio di sfondare a costo della vita stessa. A ogni passo avanti del giovane Andrew corrisponde una flagellata sulla sua autostima, a ogni successo un atroce fallimento. Fletcher non indietreggia davanti allo sforzo sovrumano che fa il ragazzo per colpirlo, non si lascia intenerire dal sangue né dal sudore, perché anche quello fa parte del gioco e, mentre Andrew perde il sonno per affinare la tecnica, lui gioca slealmente per affermare il suo potere assoluto. La sala prove del conservatorio è il ring cruento su cui si fronteggiano discepolo e insegnante a colpi di bacchette, cadendo e rialzandosi all’infinito, pressando la psiche, consumandosi le dita, mentre Damien Chazelle li osserva in silenzio dietro la sua macchina da presa, indugiando sulle pieghe dei loro volti, sui muscoli in tensione e sui rivoli di sangue che macchinano la batteria. Per fare musica ad alto livello, come per fare cinema, bisogna lasciare che l’arte assorba la mente e consumi il corpo se neccessario, questo ci dice Chazelle. Bisogna prendere un piatto in testa per diventare Charlie Parker e suonare l’assolo più incredibile che la storia ricordi, e non bisogna mai rilassarsi, mai compiacersi, perché le possibilità di migliorarsi sono infinite. In questa battaglia contro i propri limiti le parole “ben fatto” sono il nemico più pericoloso, perché corrispondono a una sosta quando non bisogna fermarsi, e Chazelle, da giovane e talentuoso cineasta, non si ferma mai e afferma attraverso il medium musicale le possibilità infinite di espressione del medium cinematografico, che scava senza pietà nei luoghi più oscuri dell’animo umano, nelle motivazioni più incomprensibili di un maestro che non è mai diventato un grande e cerca l’autoaffermazione nella realizzazione dei suoi allievi, a costo di portare l’arte alle conseguenze più estreme, là dove non dovrebbe mai arrivare.

Mud, di Jeff Nichols

I fondali fangosi del Mississipi, coperti da rottami, nascondono sorprese inaspettate per chi ha il coraggio di scavare a fondo, di sporcarsi le mani nei nugoli di serpenti limacciosi che ne sono a guardia. Sotto la superficie dell’acqua torbida, qualche volta, si possono fare incontri rari e preziosi come le perle di fiume, visibili solo all’occhio saggio che sa distinguerle dagli scarti senza valore.

Mud è un figlio del fiume, proprio come Ellis, è nato su quelle rive ed è fatto della sua stessa materia, tanto che già dal primo incontro si riconoscono l’uno nell’altro. Mud è un fuggitivo, braccato dai cacciatori di taglie per aver ucciso un uomo, ed Ellis cerca una via di fuga da una famiglia senza amore che si sta disgregando sotto i suoi occhi e che vuole trascinarlo nella fredda città, lontano dal fiume. L’oggetto del desiderio di entrambi è una vecchia barca arroccata su un albero, un rifugio sicuro dal quale proteggersi dal mondo per Ellis, e una via di fuga verso una vita serena con Juniper, l’amore della sua vita, per Mud. Il miraggio di un amore autentico, che supera il tempo e le avversità, spingono il quindicenne Ellis e il suo amico Neckbone ad aiutare il fuggiasco a ricostruire la barca e ad architettare la fuga con la bella Juniper, ma scavando a fondo nella complessità dei sentimenti umani non troverà ciò che si aspetta.

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Il personaggio di Mud, incarnato da Matthew McConaughey, è una cosa sola con il paesaggio che lo circonda, odora di cibo in scatola e di legno imputridito, e porta sul corpo i segni della spiritualità del sud, dai serpenti tatuati agli stivali decorati con croci di chiodi per tenere lontano gli spiriti cattivi. I due ragazzi sono ipnotizzati dalla sua misteriosa sicurezza e dalla sua storia d’amore. Sanno bene che non è innocente e che nasconde un segreto ingombrante, ma come  i protagonisti di Huckleberry Finn sono estremamente attratti dalla sua personalità e sono disposti ad improvvisarsi ladri e bugiardi pur di aiutarlo a fuggire.

Juniper (Reese Witherspoon) dal canto suo è consapevole del fascino magnetico che esercita sugli uomini, è una donna molto attraente ma non abbastanza coraggiosa da seguire Mud nella sua impresa folle, e non fa altro che remare contro i sentimenti che prova lui fuggendo tra le braccia del primo malcapitato. Come tutti gli altri, anche Juniper è un personaggio controverso, al limite tra il bene e il male, sospesa tra il desiderio di libertà e quello di una sicurezza materiale e mentale che non arriverà mai.

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Nel mondo creato da Jeff Nichols nell’entroterra dell’Arkansas non esistono nè buoni nè cattivi, e come nei romanzi di Raymond Carver e Cormac McCarty i personaggi non sono altro che il frutto del territorio nel quale sono nati, e di una lotta quotidiana per la sopravvivenza in cui la violenza è all’ordine del giorno. L’isolamento e la disperazione induriscono i lineamenti e portano gli uomini a compiere azioni che non avrebbero mai immaginato, a rubare, a tradire e a uccidere se necessario. Ma in questo universo cupo e melmoso come il fiume che lo attraversa, l’unica speranza è rappresentata da un sentimento ancora più puro dell’amore stesso: l’amicizia, l’unico baluardo di complicità in un gruppo di vite disgregate, che si trascinano alla deriva di un territorio silenzioso e bucolico che sta scomparendo, inghiottito dalla città assordante.

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Bonifacio Angius porta l’Italia a Locarno

Il regista sassarese Bonifacio Angus mostra attraverso la quotidianità di una cittadina di provincia il volto di un’Italia disgregata dalla disoccupazione, dall’incomunicabilità, e dalla solitudine di un vuoto esistenziale talmente forte da soffocare qualunque aspirazione di rinascita.

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Dopo aver sfidato i venti contrari e un mare di porte che non si sono mai aperte, Perfidia ha toccato terra e, grazie a Movie Factory e Il Monello Film, ha visto materializzarsi sul grande schermo del Festival del Cinema di Locarno l’intensità dei colori e della verità che trasparivano già dalla prima lettura della sceneggiatura. Nato da ricordi di situazioni vissute e immaginate, il film di Bonifacio Angus racconta una storia semplice e straordinariamente umana, in cui padre e figlio si ritrovano e si riconoscono dopo la morte della madre, in un mondo senza speranza in cui le giornate si consumano nel grigiore dei bar di periferia.

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Nel vuoto culturale dilagante della provincia sarda, in cui la disoccupazione giovanile non lascia spazio ai sogni e l’aspirazione più grande diventa quella della banale normalità, la quotidianità è talmente stagnante da portare alla follia. Qui il cinema di Bonifacio Angus coglie, con la tenerezza e la violenza che lo contraddistinguono,  l’umanità in tutta la sua pienezza, descrivendo la moltitudine dei comportamenti umani e i momenti irripetibili in cui le emozioni culminano nella follia.