James McAvoy

It: Capitolo due, di Andy Muschietti

27 anni dopo il loro scontro con la terrificante creatura chiamata It, il Club dei Perdenti è cresciuto e ognuno bada ai fatti suoi molto lontano da Derry. Solo Mike [Isaiah Mustafa: Shadowhunters, Crush] è rimasto in quella città maledetta come bibliotecario, così, quando le misteriose sparizioni di bambini e gli efferati omicidi ricominciano chiama i suoi vecchi amici per radunarsi, come promesso, per sconfiggere definitivamente il mostro.

Prima di tutto, però, Bill [James McAvoy: Split, X-Men: Apocalypse], Stan [Andy Bean: Swamp Thing, The Divergent Series: Allegiant], Bev [Jessica Chastain: Interstellar, Crimson Peak], Ritchie [Bill Hader: Saturday Night Live, Tropic thunder], Eddie [James Ransone: Captive state, Sinister 2], Ben [Jay Ryan: Beauty and the Beast] dovranno affrontare i loro “mostri”.

«Per ventisette anni… vi ho sognato. Vi ho bramato. Oh, mi siete mancati. …aspettando questo, preciso, momento! È tempo di galleggiare!»

It è un romanzo dalla terrificante magnificenza, capace di trattare temi come razzismo, omofobia,  narcisismo, mobbing, violenza e suscitare riflessioni sulla vita e sul nostro personale concetto di realtà, che va al di là delle verità superficiali che sfioriamo tutti i giorni senza scavare a fondo. Sarebbe riduttivo se si trattasse solo dell’eterna lotta tra Bene e Male: King disegna personaggi che devono scegliere tra vita attiva e vita contemplativa. Chi sfiderebbe un mostro dotato di poteri capaci di governare le menti in modo da sfruttarne fantasie e paure a proprio vantaggio? senza un aiuto altrettanto sovrumano, come potrebbero riuscire a fermarlo in maniera definitiva? Non c’è bisogno di andare a scomodare Platone, Aristotele o Hannah Arendt per capire che il messaggio sotteso al testo è di avere uno spirito umanistico-filantropico, un amore fraterno, che spinga a scendere in campo anche in sfide che sembrano invincibili ma anche distanti dalla nostra sfera d’influenza umana. Lavorare, operare e agire sono attività connesse ai presupposti generali dell’esistenza umana e radicate nella natalità in quanto hanno il compito di fornire e preservare il mondo per i posteri. Ed è questa la missione che si sono prefissati i Perdenti: lottare e chiudere il conto per non lasciare ad altri l’incombenza, per non dover diventare come gli altri adulti di Derry, inconsapevoli o indifferenti all’orrore che la città stessa rappresenta.

«Prima dell’universo esistevano solo due cose. Una era It e l’altra la Tartaruga. It era arrivato sulla Terra molto tempo dopo che la Tartaruga si era ritirata nel suo guscio, e lì aveva scoperto una facoltà immaginifica del tutto nuova, quasi straordinaria. Le capacità di questa immaginazione rendevano il cibo molto nutriente. I suoi denti straziavano carni paralizzate da esotici terrori e paure voluttuose: esseri che sognavano di mostri notturni e sabbie mobili; contro la loro stessa volontà, si affacciavano su baratri senza fondi.

Grazie a quel cibo nutriente It conduceva la sua esistenza in un semplice ciclo di veglia per mangiare e sonno per sognare. Aveva creato un luogo a sua immagine e lo rimirava con orgoglio dai pozzi neri che aveva per occhi. Derry era il suo mattatoio, la popolazione di Derry erano le sue greggi.

Così era stato.

Poi… quei bambini.

Un fatto nuovo. Per la prima volta da sempre.»

Pur ringraziando sentitamente Muschietti per la sua aderenza scrupolosa alla maggior parte delle vicende narrate dal Maestro, il risultato finale, facendo una media matematica fra il meritato successo del primo capitolo e il passabile secondo, è la confermata consapevolezza che il romanzo It vada trasposto in una serie TV.

La pantagruelica mole di materiale ben si presta ad una serializzazione: ogni caso irrisolto di sparizione di bambini o di resti di cadaveri ritrovati potrebbe benissimo essere la materia di un episodio o di più, tutti i personaggi potrebbero avere maggior respiro e anche le tematiche più forti troverebbero la loro naturale esposizione senza incorrere nella censura preventiva per salvaguardare i guadagni.

It: capitolo due pecca, infatti, per due principali motivazioni:

  • se non dai modo e tempo allo spettatore di approfondire di nuovo i personaggi principali nelle loro vite da adulti ottieni lo stesso risultato dell’intervento della polizia nelle indagini dei film secondo il parere di Alfred Hitchcock: una noia mortale! Inoltre, non ti affezioni agli adulti come ai bambini, quindi rimani distaccato e che cosa può ottenere di buono un film che perde il coinvolgimento del pubblico?
  • se hai confezionato una quantità di girato estremamente nutrita già dal primo capitolo, pur tagliando notevolmente, è logico dover rinunciare a qualcosa; quello che non è assolutamente accettabile è che si rinunci ad approfondire trame lasciate in sospeso nel primo capitolo; ad esempio, l’origine dell’aspetto umano preferito da It nelle sue battute di caccia, quel Pennywise che giustifica e alimenta la nostra coulrofobia: era stata vagamente accennata come legata alla tragedia di Pasqua alle Ferriere Kitchener e al clown ballerino che negli stessi anni lavorava nel circo, ma non è stata più portata avanti – comprensibile perché meritava quasi un capitolo a parte, certo, e così dura già come un kolossal d’altri tempi, ma un binario morto ingiustificato dal punto di vista diegetico è qualcosa che va contro ogni principio di narrazione.
  • la genesi del Male sfiora invece il ridicolo: la “Divoratrice di mondi” avrebbe il suo antagonista naturale in Maturin, una sorta di tartaruga gigante, altrettanto ancestrale, ma avendola completamente epurata nella trasposizione e avendo tolto la sua guida telepatica ai Perdenti, il rito di Chüd, che è la chiave di volta dello scontro finale, diventa così una sorta di sit-in di protesta non violenta che nemmeno Gandhi penserebbe di fare contro una creatura mangiabambini. La soluzione alternativa è operare degli atti di bullismo per atterrire un mostro che si nutre di paura, sfruttandone a proprio vantaggio i poteri. Geniale su carta ma insoddisfacente sullo schermo se non è accompagnata da una conclusione spettacolare almeno quanto le uccisioni che ha inflitto alle sue vittime. In questo stesso contesto risulta enigmatica la frase di It «Guardatevi… siete grandi. Ne è passato di tempo!» che lascia spazio a dissertazioni che confermano la stretta connessione dell’It come romanzo di formazione con i riti di iniziazione e passaggio dall’adolescenza all’età adulta che sono alla base della nascita della fiaba popolare.

La struttura letteraria non può essere riportata perfettamente in un racconto filmico, ovviamente. Basti pensare alla parte in forma di diario o all’inserimento di un haiku, componimento poetico primitivo, forse addirittura preistorico, che ben si abbina alla cosmogonia quasi lovecraftiana trattata:

Brace d’inverno,

i capelli tuoi,

dove il mio cuore brucia.

In questo secondo e ultimo capitolo il regista ha apportato sostanziali modifiche attraverso la sceneggiatura in parte discutibile di Gary Dauberman [Swamp Thing, Annabelle 2: Creation, Annabelle 3]. Si poteva fare molto di più. Guardando prima il lato positivo, si noterà che Pennywise è meno presente e quindi si possono vedere le diverse incarnazioni del Male. Per quanto le gigionerie macabre di Bill Skarsgård [Deadpool 2, Atomica bionda, Castle Rock] abbiano retto da sole tutto il primo capitolo, con questa mossa è possibile finalmente far strisciare nel pubblico il sospetto che il mostro sia qualcosa di ben più grande e potente di un pagliaccio mangiabambini da fiaba popolare.  

Nelle illustrazioni del concept artist Vincent Proce [La forma dell’acqua – The shape of water, Scary stories to tell in the dark, Qualcuno salvi il Natale] si può ammirare tutto il lavoro dietro le quinte per la creazione di tutto ciò che concerne la CGI. Il regista Muschietti si lascia addirittura prendere la mano in questa fase realizzativa e confeziona con Proce una meravigliosa citazione de La Cosa di John Carpenter.

Nonostante appaia in numerose forme perlopiù attinte dal repertorio d’immaginazione delle specifiche vittime e da ciò che più le terrorizza, It ha, infatti, una certa predilezione per la forma di Pennywise, alter ego di Bob Gray, un clown sadico e perverso descritto come molto simile a un incrocio tra Bozo il clown e Clarabell, con due ciuffi di capelli arancioni a punta, vestito con un largo costume di seta color argento, una cravatta blu, un colletto increspato e inquietanti pompon arancioni che sono stati sfruttati alla perfezione dal costume designer Luis Sequeira [Carrie, La madre].

Io sono la Mangiatrice di Mondi!

Dato che il flusso analitico ci ha portato praticamente a presentare già quasi tutto il cast, approfitto per “nominare” – è proprio il caso di utilizzare questo termine, data la sua presenza costante negli ultimi anni di Academy Awards – il maestro Benjamin Wallfisch [Dunkirk, Blade Runner 2049, Il diritto di contare, 12 anni schiavo, Il piccolo principe] che compone una nutrita e avvolgente musica che, praticamente, accompagna lo spettatore senza lasciarlo mai da solo nel silenzio spettrale della fotografia di Checco Varese [Pacific rim]: un altro fiore all’occhiello, senza virtuosismi, ma sempre funzionale alla concretezza materica delle mostruose fantasie, all’atmosfera asfittica e al senso di oppressione diffusa e continua del film tanto nelle tenebre del sottosuolo [come aveva fatto per The 33] quanto sotto la luce “rassicurante” del sole [vedi Miracoli dal cielo].

La luce, nelle opere di Stephen King, non rappresenta quasi mai qualcosa di buono. Siamo abituati a sentir raccontare come rassicurante “quella luce in fondo al tunnel”. La speranza, giusto? Ecco, nell’idea del Maestro la luce che nasce per contrasto dalle tenebre diventa il tradimento per eccellenza delle aspettative. Lucifero non significa, tra l’altro, letteralmente “portatore di luce”? Così l’abituale lettore di King, ormai, quando “vede” una luce in fondo ad una galleria buia come minimo si aspetta un treno che gli viene (in)contro!

Nel caso di It ci troviamo di fronte ad una luce fatta di tre elementi – una e trina – che non si può non interpretare attraverso un simbolismo religioso.

Una luce che ammalia, che fa leva sulle coscienze più suggestionabili e le rende schiave delle loro angosce, paralizzate dalle loro paure. Fino a nutrirsi della loro energia vitale. Fino a nutrirsi di loro mentre sono inermi burattini senza fili.

«Venite a giocare, Perdenti! […] Riesco a percepire l’odore della vostra paura!».

La paura diventa motore di tutto.

Da una parte la creatura ancestrale che per natura deve nutrirsi – fin qui tutto sommato niente di immorale – ma che lo fa di bambini, “più teneri e succulenti” direbbero i Grimm, perché sono privi di malizia, di esperienza, perché in una parola hanno un’innocenza pura che perderanno solo nei pochi istanti prima di essere dilaniati o che perderanno solo diventando adulti, come accadeva nei riti di iniziazione, nel passaggio fisico e simbolico nell’età adulta, nel momento delle scelte di coscienza, dei bivi e delle sliding doors che li porteranno a plasmare individui apparentemente privi di paure solo agli occhi dei bambini.

Dall’altra parte i Perdenti, ormai adulti, rappresentano proprio questo passaggio, che per loro è rimasto in sospeso. Hanno costruito le loro vite cercando di fare come gli altri cresciuti a Derry, dimenticando il bello e il brutto dell’essere bambini. La paura, per loro, è il motore del risveglio dall’oblio. In una lotta contro il tempo per fermare il mostro prima che sia abbastanza nutrito da essere invincibile, prima di dover rimandare lo scontro finale ad altri 27 anni dopo, infiacchiti dall’età avanzata, gli amici d’infanzia dovranno sfruttare proprio la paura per riportare indietro l’orologio biologico interiore. Ricordare il rimosso per riscoprire un bambino lasciato in letargo è un imperativo da cui dipendono le sorti di ognuno. Nessuno dei Perdenti ha avuto figli. Per caso? Per scelta? O piuttosto per un inconscio timore di commettere un atto di egoismo nel dare alla luce – in pasto alla luce – “un figlio in un mondo come questo” – quante volte avete sentito anche voi ultimamente la gente ripetere come un mantra una frase simile? – eppure hanno scelto di mettere un punto all’abominio perpetrato nella loro città natale.

Una Derry che somiglia terribilmente alla cittadina di Bangor, nel Maine, dove un giovane Stephen King ha scritto gran parte del romanzo ispirato da una fiaba e dalla realtà che, come al solito, sa essere più crudele della fantasia.

Mi riferisco ad un serial killer vestito da clown di cui avevo un vago ricordo… un rimosso di chissà quando a cui magari risale la mia poca simpatia verso i pagliacci. Magari grazie proprio alla nuova attenzione mediatica verso It e Joker, che aumentano la coulrofobia di tutti, non ci è voluto molto a trovarlo, e su wikipedia si può leggere un resoconto dettagliato dei suoi crimini. Si tratta di John Wayne Gacy che fu soprannominato Killer Clown per aver rapito, torturato, sodomizzato e ucciso 33 vittime, tutte adolescenti e di sesso maschile, 28 delle quali seppellite sotto la sua abitazione o ammassati in cantina, dal 1972 fino alla sua cattura avvenuta nel 1978, in seguito a un errore nell’occultamento della sua ultima vittima. Il nome con cui è diventato noto deriva dal fatto di aver intrattenuto i bambini durante alcune feste con costume e trucco da clown facendosi chiamare Pogo il Clown. Pochi sospettavano che fosse segretamente bisessuale, perché era sposato; inoltre era un tipo socievole e pareva quindi insospettabile agli occhi dei concittadini. Alla conclusione del processo venne condannato a morte e giustiziato con l’iniezione letale nel 1994.

Le perizie psichiatriche effettuate su di lui dimostrarono (come per molti serial killer “organizzati”) una notevole intelligenza; all’esame dei periti risultarono vari disturbi della personalità (disturbo istrionico di personalità, disturbo narcisistico, disturbo antisociale) correlati con il sadismo e combinati con l’omofobia interiorizzata. Alla sua morte lasciò un discreto numero di disegni raffiguranti pagliacci ora parte di collezioni private. La vicenda e gli omicidi di Gacy contribuirono ad alimentare la paura del “pagliaccio malefico” nell’immaginario popolare.

L’aneddoto legato al nucleo della storia, invece, è raccontato spesso dallo stesso King. Pare che una sera del 1978, proprio l’anno in cui fu catturato Killer Clown, King uscì a piedi per andare da solo a ritirare la macchina dall’officina. Lui e la sua famiglia in quel periodo vivevano a Boulder, in Colorado. Per raggiungere il meccanico dovette passare su un vecchio ponte di legno, con una strana forma a gobba e fu così che gli ritornò in mente una favola norvegese, I tre capretti furbetti (Three BILLY goats gruff ), in cui tre capre dovevano attraversare un ponte che un troll affamato aveva eletto a sua dimora. King decise di trapiantare la struttura e parte dello scenario della fiaba in un contesto di vita reale, ambientando la storia in un luogo che gli ricordasse la sua infanzia: Bangor, nel Maine, come è stato già detto, che diventa Derry, ma che rappresenta per antonomasia tutte quelle cittadine, quei paesi dove possono accadere le cose più terribili, tanto tutti si fanno i fatti loro e nessuno ha visto e sentito niente.

«Può un’intera città essere posseduta?».

Della fiaba sono presenti archetipi e funzioni, compresi i poteri magici dell’antagonista contrastati da quelli dell’eroe e dei suoi amici: coraggio, fantasia creativa, fede in se stessi maturati in un vogleriano viaggio dell’eroe che è prima di tutto interiore. Il bambino interiore che deve rimanere in noi anche crescendo, perché possiamo vivere apprezzando ciò che abbiamo e lasciando il mondo migliore di come l’abbiamo trovato. Non è un caso se nella Clubhouse dei Perdenti è presente il poster di Lost boys, horror vampiresco che rivisita Peter Pan.

«Ragazzi, il romanzesco è la verità dentro la bugia, e la verità di questo romanzo è semplice: la magia esiste.» [dalla dedica del romanzo]

Questo ci riporta a quella filosofia antica di cui parlavamo all’inizio. Una vita attiva fatta di curiosità, approfondimento e spirito critico porta ad assomigliare a degli eroi moderni. Una vita meramente contemplativa porta solo ad essere schiavi delle influenze di qualcun altro, che non esiterà a distruggere chi non gli è più utile. Nessuno vuol farsi divorare dai desideri altrui, quindi non diamogli questo potere. Questo insegna l’It di Stephen King, questo insegna l’It di Muschietti. La morale della fiaba!

«Io ho vissuto sempre nella paura: paura di quello che sarebbe venuto dopo, paura di quello che mi lasciavo alle spalle. Voi non fatelo. Siate chi volete essere. Con orgoglio. E se trovate qualcuno che vale la pena di tenersi stretto, non lasciatelo mai e poi mai andare. Seguite il vostro sentiero. Dovunque vi porti. Pensate a questa lettera come a una promessa. Una promessa che vi chiedo di fare. A me. L’uno all’altro. Un giuramento. Vedete la cosa bella di essere un perdente è che non hai niente da perdere. Perciò… siate sinceri. Siate coraggiosi. Siate forti. Credete… E non dimenticate mai. Noi siamo i perdenti e lo saremo sempre.»

Diventa eroe chi è in grado di superare le proprie limitazioni personali ed ambientali. L’Eroe simboleggia quell’immagine divina, creativa e redentrice che è nascosta in ognuno di noi e che attende solo di essere trovata e riportata in vita. Come nei miti e nelle fiabe popolari, in It si riflettono quei meccanismi junghiani della mente umana e si eleva, quindi, come loro, a rappresentare una sorta di moderna mappa della psiche, valida dal punto di vista psicologico e realistica dal punto di vista emotivo.

Interpretando la Mangiatrice di Mondi/It come un Mutaforma, gli si può pertanto attribuirle la funzione di catalizzatore del cambiamento, di simbolo dell’impulso psicologico alla trasformazione. Nell’affrontare un Mutaforma l’Eroe viene profondamente scosso e turbato, costretto a mutare la propria opinione sul sesso opposto o ad affrontare parti nascoste di se stesso, immagini e idee sulla sessualità e sui rapporti con gli altri. La funzione del Mutaforma è dunque quella di seminare il dubbio, creare spunti per una profonda riflessione. Questa interpretazione starebbe alla base della scena di sesso scritta da King e tanto bersagliata dalla critica, trattata sempre con l’autoironia che lo contraddistingue. E anche questo, nel suo carnascialesco cameo da negoziante/rigattiere che critica il protagonista scrittore, risulta ben chiaro:

Bill [notando un suo libro sulla cassa]: Vuole che glielo autografi?

Negoziante (Stephen King): Nah. Non mi è piaciuto il finale!

Atomica bionda, di David Leitch

Il ghiaccio la avvolge, le cura le ferite e le indurisce l’anima. E non c’è elemento che potrebbe descrivere l’agente Lorraine Broughton (Charlize Theron) meglio del ghiaccio, levigato e trasparente come la sua pelle e gelido come il suo cuore. Quando Lorraine entra in scena nessuno riesce a resisterle o a sopravvive ai suoi colpi letali, è la migliore nel suo campo, ed è per questo che i Servizi Segreti di Sua Maestà l’hanno inviata a Berlino alla vigilia della caduta del muro. La sua missione è recuperare un prezioso dossier, e per farlo deve allearsi con  l’ufficiale governativo David Percival (James McAvoy) ma, giunta nella capitale tedesca, si trova invischiata in una rete di spionaggio senza precedenti che capovolge gli equilibri internazionali e mette a repentaglio la sua vita.

Tratto dalla graphic novel The Coldest City di Antony Johnston, Atomica Bionda trasforma l’inchiostro in sangue, colorando la grigia Berlino con luci al neon saturate al massimo e un’azione travolgente, così come la sua protagonista. Lorraine è irrefrenabile, e oscilla abilmente tra party sofisticati e baruffe all’ultimo sangue senza mai perdere neanche un grammo del suo fascino. Lei è il fulcro assoluto dell’azione, una luce talmente abbagliante da mettere in ombra tutto il resto, persino la trama vera e propria del film, che scorre silenziosamente dietro le quinte mentre Lorraine si esibisce nei suoi numeri migliori.

Ad accompagnare le sue imprese una colonna sonora straordinaria, che prende il meglio del rock anni ’80 e lo riversa dritto nel cuore nell’azione, in un connubio formidabile di colori e musica che ipnotizza lo spettatore, attirando tutta l’attenzione sul contorno più che sul contenuto del film. David Leitch punta tutto sulla messa in scena, e lo fa bene, visto che non solo riesce a ricreare l’ambientazione tedesca pre-unificazione nei minimi dettagli, ma anche a trovare la bellezza in luoghi impensabili, dai pub scalcinati della Berlino underground agli hotel di lusso del centro. Ma questo è tutto ciò che si limita a fare, affidando gran parte del lavoro all’atomica Charlize Theron, che riunisce in sé le due anime della città, lo spirito ribelle e il glamour più sfrenato.

Lei è l’unica in grado di trasformare un film di spionaggio come tanti nella nascita di un’eroina, disinvolta con i tacchi a spillo quanto con le arti marziali, ed è solo grazie al suo carisma che David Leitch riesce a portare a termine la sua missione, facendo esplodere la sexy spia di Antony Johnston sul grande schermo con una forza senza precedenti.

Split, di M. Night Shyamalan

La mente umana è come un palazzo dalle innumerevoli stanze, alcune sono illuminate e accessibili a tutti, altre invece buie, nascoste, che si aprono solo in circostanze particolari, altre ancora invece restano chiuse per sempre. La mente di Kevin (James McAvoy) è in grado di aprirle tutte, una per volta o tutte insieme, e di spingersi negli anfratti più oscuri della sua coscienza, fino al punto di scoprire dentro di sè la presenza di 23 personalità diverse.

Clinicamente la sua straordinaria capacità di definisce Disturbo Dissociativo dell’Identità e chi ne soffre è in grado di sviluppare un numero infinito di identità diverse, ognuna indipendente e autosufficiente dalle altre, anche di sesso, età e personalità diverse. E se già questo sembra incredibile, l’aspetto più portentoso di questo disturbo è che anche il corpo asseconda le diverse personalità, modellandosi sul personaggio che interpreta, malattie e disturbi compresi. Ma che succede se una delle personalità crede di avere dei poteri soprannaturali?

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Dopo aver rapito tre ragazze adolescenti, e averle rinchiuse nel sotterraneo della sua abitazione, Kevin inizia una guerra per la sopravvivenza nella sua mente tra tutte le personalità che convivono in lui, cercando ossessivamente la personalità più forte, quella invincibile, quella che non teme niente e nessuno e ha il potere di distruggere chiunque si metta sul suo cammino: la bestia. Ma mentre Kevin combatte la sua battaglia interiore, le tre ragazze guidate da Casey (Anya Taylor-Joy) lottano per sopravvivere in condizioni disumane, torturate, violentate e letteralmente divorate da questi mostro dai 23 volti.

Il personaggio di Kevin è di sicuro il personaggio più complesso che M. Night Shyamalan abbia mai scritto, perché ne racchiude diversi, talvolta anche nella stessa scena, ma ciò nonostante le personalità di Kevin non appaiono come caricature, ma come personaggi veri e propri, costruiti ognuno con una propria fisicità e con un temperamento diverso. Ma oltre che di Shyamalan, gran parte del merito è dello straordinario James McAvoy, che qui da il meglio di se stesso, affrontando una delle sfide più dure della sua carriera. Oltre a incarnare 23 personaggi diversi, l’attore mette in scena una guerra interiore senza precedenti, lasciando nelle mani dei suoi personaggi l’intero sviluppo della narrazione.

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Dopo il successo dello scorso anno con The Visit, Shyamalan fa nuovamente squadra con il produttore Jason Blum per creare un thriller a basso budget, con un cast che vede in scena solo una manciata di attori e ambientato in uno spazio angusto, ma che è in grado di  dare avvio a un misterioso viaggio nella psiche turbata e frammentata della mente estremamente dotata, ma profondamente sofferente di Kevin. Tutto ruota attorno a lui, alla rabbia che cova dentro per i torti subiti e al desiderio di vendetta verso tutti coloro che hanno avuto una vita serena, ed è nei labirinti della sua mente che Split inizia e finisce, come un serpente che si morde la coda, dopo essersi dibattuto nell’orrore della vita. Ed è così, tornando a indagare l’essere umano che Shymalan riscopre l’orrore, rimanendo più ancorato alla realtà rispetto al passato, per lasciare l’elemento soprannaturale nel gran finale.

X-Men: Apocalypse, di Bryan Singer

Una maledizione può essere un dono e un dono può diventare una maledizione. Un motto che vale anche per la mutazione genetica, tanto nel 3600 a.C quanto nel 1983, anno di ambientazione di X-Men: Apocalypse, nono capitolo della saga dei mutanti Marvel diretto da Bryan Singer.

Tra le sabbie e le piramidi d’Egitto, En Sabah Nur/Apocalisse è venerato in qualità di dio. Le sue capacità mutanti, le prime attestate nella storia umana, sono quanto di più simile alla divinità possano esserci e continuano a potenziarsi, trasmigrando da un corpo all’altro fino a raggiungere l’immortalità. Ma la razza umana, in un moto di autodeterminazione che le è connaturato, si ribella seppellendolo sotto tonnellate di pietra e storia.
Quando il primo mutante si risveglia, sono passati più di 5000 anni. Agli occhi di Apocalisse il nuovo mondo è decadente e deludente. Le piramidi sono relegate sullo sfondo de Il Cairo, i suk e i bazar si sono estesi come funghi parassiti, l’ordine mondiale non è appannaggio di creature evolute ma di comuni esseri umani.
Al primo mutante non resta che rimodellare il mondo come creta tra le dita, seguendo il suo unico volere. E, come nella migliore tradizione biblica, quattro sono i cavalieri che lo affiancheranno. Dalla cocente sconfitta emerge Angelo, dall’ombra Psylocke, dai sobborghi e dalla povertà si eleva Tempesta e, infine, dal dolore e dalla rabbia nasce Magneto.
Per affrontare una minaccia di tale portata, deve mobilitarsi l’intera squadra di mutanti capeggiati dal professor Xavier, un corpo di combattenti dai poteri straordinari e dalle psicologie molto umane.

L’universo Marvel ha subito un cambiamento nel capitolo precedente e continua a portare avanti una scelta interessante, quella, cioè, di risalire la corrente del passato per sfociare in un presente possibilmente diverso da quello mostrato in X-Men Conflitto finale, senza dimenticare di investigare sulle origini dei mutanti più famosi, sulle loro scelte, sui traumi, sulle sfide che li hanno forgiati. Scelta che ha determinato, tra l’altro, un rinnovo totale del cast (fatta eccezione per un cammeo di Hugh Jackman) iniziato in X-Men: First class.
Sebbene X-Men – Giorni di un futuro passato abbia intrapreso una linea temporale differente rispetto ai primi capitoli della saga, portando Xavier e Raven/Mystica agli onori della cronaca, il flusso della storia è, a detta dello stesso Singer, inarrestabile. Gli eventi modificati non sono che un ciottolo gettato nel fiume, una minima deviazione e increspatura nella corrente del tempo.

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X-Men: Apocalypse è, al pari dei personaggi che presenta, una versione evoluta dei precedenti episodi: più costoso, più lungo, visivamente più elaborato, con un antagonista che rasenta la divinità. Ma gli effetti speciali non possono eliminare il dubbio che si tratti di un capitolo vuoto, fine a se stesso. Le battaglie, fisiche e di idee, non sono differenti da quelle passate, nulla di nuovo si aggiunge alla storia fin qui percorsa.
Apocalisse distrugge con una semplicità disarmante, ma rimane un personaggio bidimensionale, spesso messo in ombra dagli altri e più noti mutanti, le cui scelte e tratti psicologici appaiono ben più significativi e meglio delineati. Altri antagonisti sono ben più memorabili all’interno della saga degli X-Men, dal colonnello Stryker al Magneto dei primi capitoli.
La distruzione poi, benché visivamente spettacolare, appare quasi edulcorata. Città, edifici, paesaggi interi vengono annientati, eppure non un solo corpo, non una traccia di sangue vengono inquadrati.
Un bel pacchetto, insomma, per un regalo grande e spettacolare, ma già visto e ricevuto in passato.

Anche in questo episodio la scelta di ripercorrere la nascita di alcuni dei mutanti più famosi, da Cicolpe a Jean Grey, da Nightcrawler a Tempesta, si rivela buona e sensata. Lo sviluppo delle loro personalità, gli intrecci affettivi, le scelte umane costituiscono il vero nucleo del film e rendono tridimensionale una lotta (e una sceneggiatura) che non lo è.

La storia di X-Men Apocalypse è stata scritta da Singer in collaborazione con Simon Kinberg, già sceneggiatore di X-Men Giorni di un futuro passato e Conflitto finale, e realizzato da un cast corale, che conferma la presenza di James McAvoy, Michael Fassbender e Jennifer Lawrence, e recluta nuove leve, tra cui Sophie Turner e Evan Peters.