Jennifer Lawrence

Passengers, di Morten Tyldum

Passengers è un sofisticato catastrophic movie in cui si nasconde un storia d’amore o è un film sentimentale che usa come MacGuffin i tentativi di salvare una nave spaziale in avaria? Ognuno percepirà in maniera differente il piatto della bilancia che si sposta dall’una o dall’altra parte, ma il fatto è che il regista, Morten Tyldum, non è nuovo all’ibridazione dei generi, tra l’altro con esito estremamente positivo, vista la candidatura agli Oscar® con The imitation game, il biopic sul matematico inglese Alan Turing, che spazia dallo spionaggio alla riflessione sull’identità di gender.

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Durante un viaggio lungo 120 anni verso il pianeta Homestead II, sull’astronave-arca Avalon, Jim Preston [Chris Pratt, I Guardiani della Galassia, Jurassic World] si sveglia dall’ibernazione, ma è troppo presto, 90 anni prima del previsto, per la precisione, e senza alcuna possibilità apparente di soluzione: tutti gli altri si sveglieranno a 4 mesi dall’arrivo a destinazione, perciò niente equipaggio, pilota automatico e qualche intelligenza artificiale a provvedere alle necessità di routine!
A causa di un malfunzionamento al sistema della sua capsula, insomma, Jim si trova a dover vivere da solo su di una nave, lussuosa e «a prova di guasto» come il Titanic. Il destino sembra prendersi gioco delle speranze del ragazzo della classe operaia, partito per «costruire un nuovo mondo» con le sue competenze da meccanico e catapultato suo malgrado in una situazione ben sopra le sue capacità. Ma prima che il problema dell’Avalon risulti evidente ai suoi occhi, c’è un problema che gli risulta più importante al momento: deve svegliare o no la «bella addormentata» Aurora Lane [Jennifer Lawrence, Hungers games, X-Men] e “condannarla” a condividere la sua sfortuna?

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Un nome calzante, Aurora, una citazione forse anche troppo esplicita della protagonista della fiaba di Charles Perrault, ma non è l’unica e più avanti avremo modo di parlare dei riferimenti che il film semina all’interno della trama e delle scene. La ragazza rappresenta la prima svolta degna di nota della trama: la ragazza è una passeggera di prima classe (come la Rose interpretata da Kate Winslet), una scrittrice di New York che ambisce al premio Pulitzer e, per questo motivo, ha un biglietto di andata e ritorno per portare su una Terra, più vecchia di almeno 240 anni, la storia sensazionale della «più grande migrazione di massa della storia umana».
Entrambi i protagonisti hanno i loro obiettivi primari, in netto contrasto, ma il vero problema che sono chiamati a risolvere con urgenza è il guasto alla nave, un mistero che mette a repentaglio la vita di tutti i passeggeri. Non c’è tempo per egoistici traguardi, è tempo di “salvare la baracca”.

«Siamo prigionieri su una nave che affonda»

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La sceneggiatura di Jon Spaihts [Doctor Strange, Prometheus] è stata annoverata nella “black list” delle migliori sceneggiature non prodotte nel 2007. «Una delle cose che mi ha attratto di questo script è stato il modo in cui Jon ha collocato una storia intima all’interno di un grande scenario – dichiara il produttore Neal H. Moritz [Piccoli brividi, Fast & Furious 8] – è un film d’azione con una spettacolarità epica».

Chris Pratt è molto ben calato nella parte, si vede che ha dimestichezza, ormai, con il genere ed il green screen, dopo aver interpretato Star-Lord ne I Guardiani della Galassia. Pratt risulta molto espressivo mentre è in navigazione solitaria, un po’ meno incisivo quando deve interagire con il resto del cast, ma pur sempre credibile. Chi invece appare un po’ stretta nella parte è Jennifer Lawrence, che però riesce, nei momenti drammatici e adrenalinici, a ricavare lo spazio necessario perché il pubblico possa rivivere, seppur in parte, la forza e l’emozione dei personaggi che l’hanno resa celebre.

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Una menzione particolare va a Michael Sheen [Frost/Nixon, Via dalla pazza folla]. L’attore, grazie agli straordinari effetti speciali, interpreta l’androide Arthur, il barista di bordo, unica “presenza” fisica sulla nave per Jim fino al risveglio di Aurora. Il regista ne ha giustamente tessuto le lodi: «Michael ha dovuto apportargli umanità, e, allo stesso tempo, doveva emergere il fatto che nella parte inferiore è una macchina, senza farne un cliché»

«Sai tenere un segreto?»
«Non sono solo un barman, sono un gentiluomo!»

Il personaggio di Arthur richiama, insieme al bar stile retro in cui lavora, l’atmosfera dell’Overlook Hotel dello Shining di Kubrick, con tanto di discorsi al limite del paradosso con Jim, novello Jack Torrance, che dimostra scientificamente all’intelligenza artificiale la sua esistenza a bordo attraverso un ragionamento per assurdo [«Non è possibile che lei sia qui»] oppure con il robot che dispensa consigli [«Per un po’ si goda la vita»] e massime filosofiche. Una citazione che si va ad aggiungere a quella de La bella addormentata nel bosco e al riferimento principe della trama: il Titanic di James Cameron. Crea, in questo contesto, una certa indignazione il fatto che questi riferimenti non vengano mai citati in nessuna intervista, pressbook o articoli riguardanti Passengers.

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Parlando della realizzazione della gigantesca astronave Avalon, il regista Tyldum ci tiene a far notare che «guardando al futuro, hanno creato una navicella spaziale con un design molto particolare che utilizza la forza centrifuga tramite la rotazione di pale, per creare forza di gravità, e contiene robot, ologrammi, e altre tecnologie d’avanguardia» con un design generale che lui stesso definisce “nostalgico”, ispirato all’Art Déco, alla Hollywood classica de Il grande Gatsby e alle uniformi della seconda guerra mondiale. «Il passato è con noi – prosegue Tyldum – il passato ci ispira e volevo che apparisse nel film. Allo stesso tempo, ha dei robot, è una nave intelligente, ha degli schermi, e ha Artificial Intelligence. La combinazione di tutto ciò, su un piano puramente estetico e visivo, credo sia unico». Ecco, magari, proprio unico no, se addirittura Jim dice «Ti fidi di me?» ad Aurora, nella loro passeggiata mozzafiato sull’orlo di una nave di lusso che attraversa l’universo, come una qualsiasi coppia che si diverta ad emulare la scena cult di Jack e Rose sulla prua del transatlantico.
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Rendere evidente il riferimento allargherebbe maggiormente il target di Passengers alla fetta di pubblico femminile che, di solito, non apprezza le avventure spaziali catastrofiche, storicamente destinate più che altro ai gusti maschili.

Questo mancato tributo non getta di certo alle ortiche il film intero, che risulta piacevole ed avvincente, nonché spettacolare con CGI non troppo invadente. Unico problema è la flebile paura per la sopravvivenza dei protagonisti: i pericoli vengono affrontati in maniera troppo sbrigativa, eccezion fatta per la magistrale scena in piscina, forse per non distogliere dalle vicende sentimentali e mantenere un equilibrio da cinema classico, cosa che un cinefilo integralista etichetterebbe come una anacronistica mancanza di coraggio nelle scelte. Volenti o nolenti, questa non scelta rende Passengers un film per tutti.

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Jim: «Va’ a farti fottere!»
Computer: «Al tuo servizio»

Una crew d’eccezione per un blockbuster che promette spettacolo e sentimento: la colonna sonora è affidata a Thomas Newman [tredici candidature agli Oscar®, tra cui Spectre e Alla ricerca di Dory]; il direttore della fotografia è l’affidabile Rodrigo Prieto di Argo e The Wolf of Wall Street, forte di una Arri Alexa 65 equipaggiata con lenti Panavision Primo 70; le scenografie, poi, sono affidate a Guy Hendrix Dyas [Inception, I fratelli Grimm e l’incantevole strega]; inoltre, a fornire credibilità ulteriore a tute spaziali e a valorizzare il corpo della Lawrence in vestiti e costumi da bagno all’avanguardia è la costumista preferita di Alfonso Cuarón, Jani Temime [Gravity, I figli degli uomini, Harry Potter]; infine, il delicato settore dell’editing è affidato a MaryAnn Brandon [Star Wars: Episode VII – Il Risveglio Della Forza] che ha avuto il suo bel da fare a montare le scene girate in ottobre per sistemare all’ultimo ciò che non funzionava egregiamente.
Memorabile la performance di Andy Garcia!

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X-Men: Apocalypse, di Bryan Singer

Una maledizione può essere un dono e un dono può diventare una maledizione. Un motto che vale anche per la mutazione genetica, tanto nel 3600 a.C quanto nel 1983, anno di ambientazione di X-Men: Apocalypse, nono capitolo della saga dei mutanti Marvel diretto da Bryan Singer.

Tra le sabbie e le piramidi d’Egitto, En Sabah Nur/Apocalisse è venerato in qualità di dio. Le sue capacità mutanti, le prime attestate nella storia umana, sono quanto di più simile alla divinità possano esserci e continuano a potenziarsi, trasmigrando da un corpo all’altro fino a raggiungere l’immortalità. Ma la razza umana, in un moto di autodeterminazione che le è connaturato, si ribella seppellendolo sotto tonnellate di pietra e storia.
Quando il primo mutante si risveglia, sono passati più di 5000 anni. Agli occhi di Apocalisse il nuovo mondo è decadente e deludente. Le piramidi sono relegate sullo sfondo de Il Cairo, i suk e i bazar si sono estesi come funghi parassiti, l’ordine mondiale non è appannaggio di creature evolute ma di comuni esseri umani.
Al primo mutante non resta che rimodellare il mondo come creta tra le dita, seguendo il suo unico volere. E, come nella migliore tradizione biblica, quattro sono i cavalieri che lo affiancheranno. Dalla cocente sconfitta emerge Angelo, dall’ombra Psylocke, dai sobborghi e dalla povertà si eleva Tempesta e, infine, dal dolore e dalla rabbia nasce Magneto.
Per affrontare una minaccia di tale portata, deve mobilitarsi l’intera squadra di mutanti capeggiati dal professor Xavier, un corpo di combattenti dai poteri straordinari e dalle psicologie molto umane.

L’universo Marvel ha subito un cambiamento nel capitolo precedente e continua a portare avanti una scelta interessante, quella, cioè, di risalire la corrente del passato per sfociare in un presente possibilmente diverso da quello mostrato in X-Men Conflitto finale, senza dimenticare di investigare sulle origini dei mutanti più famosi, sulle loro scelte, sui traumi, sulle sfide che li hanno forgiati. Scelta che ha determinato, tra l’altro, un rinnovo totale del cast (fatta eccezione per un cammeo di Hugh Jackman) iniziato in X-Men: First class.
Sebbene X-Men – Giorni di un futuro passato abbia intrapreso una linea temporale differente rispetto ai primi capitoli della saga, portando Xavier e Raven/Mystica agli onori della cronaca, il flusso della storia è, a detta dello stesso Singer, inarrestabile. Gli eventi modificati non sono che un ciottolo gettato nel fiume, una minima deviazione e increspatura nella corrente del tempo.

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X-Men: Apocalypse è, al pari dei personaggi che presenta, una versione evoluta dei precedenti episodi: più costoso, più lungo, visivamente più elaborato, con un antagonista che rasenta la divinità. Ma gli effetti speciali non possono eliminare il dubbio che si tratti di un capitolo vuoto, fine a se stesso. Le battaglie, fisiche e di idee, non sono differenti da quelle passate, nulla di nuovo si aggiunge alla storia fin qui percorsa.
Apocalisse distrugge con una semplicità disarmante, ma rimane un personaggio bidimensionale, spesso messo in ombra dagli altri e più noti mutanti, le cui scelte e tratti psicologici appaiono ben più significativi e meglio delineati. Altri antagonisti sono ben più memorabili all’interno della saga degli X-Men, dal colonnello Stryker al Magneto dei primi capitoli.
La distruzione poi, benché visivamente spettacolare, appare quasi edulcorata. Città, edifici, paesaggi interi vengono annientati, eppure non un solo corpo, non una traccia di sangue vengono inquadrati.
Un bel pacchetto, insomma, per un regalo grande e spettacolare, ma già visto e ricevuto in passato.

Anche in questo episodio la scelta di ripercorrere la nascita di alcuni dei mutanti più famosi, da Cicolpe a Jean Grey, da Nightcrawler a Tempesta, si rivela buona e sensata. Lo sviluppo delle loro personalità, gli intrecci affettivi, le scelte umane costituiscono il vero nucleo del film e rendono tridimensionale una lotta (e una sceneggiatura) che non lo è.

La storia di X-Men Apocalypse è stata scritta da Singer in collaborazione con Simon Kinberg, già sceneggiatore di X-Men Giorni di un futuro passato e Conflitto finale, e realizzato da un cast corale, che conferma la presenza di James McAvoy, Michael Fassbender e Jennifer Lawrence, e recluta nuove leve, tra cui Sophie Turner e Evan Peters.

Joy – di David O. Russell

Si dice che gli Stati Uniti vivano e si nutrano dei sogni dei suoi abitanti, siano essi nativi o immigrati: gli USA non guardano in faccia a niente e a nessuno; ciò che conta è la qualità.

Joy Mangano (Jennifer Lawrence) è un concentrato di qualità e di valore. Non ha bisogno di trovare il principe azzurro per sentirsi realizzata: ha un dono, quello dell’invenzione e della creatività. La nonna Mimi (Diane Ladd) sa quanto conti questo dono in una realtà familiare dove la madre (Virginia Madsen) trascorre la sua vita in un tutt’uno con il letto e la camera in cui è rintanata a guardare Soap Opera scadenti e il padre (Robert De Niro) gestisce un’officina meccanica con l’energia derivata dalle sue avventure d’amore. Proprio Mimi alimenta i sogni e le aspirazioni della nipote ma la sua tenacia non basta a contrastare la realtà della vita vera, fatta di amore irrazionale per un cantante venezuelano (Edgar Ramirez), di voglia di fuggire, di bollette da pagare, di figli da sfamare e famiglia da accudire appendendo al chiodo sogni, aspirazioni e fortunati brevetti.

Joy

Joy è una pellicola che spiazza su due fronti: a livello tecnico ed emotivo.

Nel primo caso le scelte di montaggio non trovano una spiegazione logica e utile all’economia della storia: improbabile l’ambientazione onirica, inspiegabile l’inserimento dei flashback in momenti della storia cruciali, spiazzante la scelta di conferire ugual peso a gesti fini a se stessi (come il taglio di capelli) e a quelli davvero importanti (le invenzioni e la scomparsa di una figura importante nella vita della protagonista), poco chiaro il grottesco e quasi folle comportamento dei comprimari che, tuttavia, non fa altro che alimentare il secondo motivo di spiazzamento (un “lato positivo” della storia? Forse sì, visto che l’emozione permane anche dopo l’uscita dalla sala): un nervosismo costante che prende alla bocca dello stomaco, frutto di una forte empatia nei confronti di Jennifer – never a Joy – Lawrence. Succedono tutte a lei: sorellastra perfida e invidiosa, madre svampita, padre farfallone e opportunista, matrigna (Isabella Rossellini) riccona e avida, marito perfetto ma non in questo ruolo, avvocato incapace, socio truffatore, lavoro logorante, casa che va a pezzi, conto in banca in rosso, brevetto soffiato da sotto il naso. E Joy? Tenace e serena come una Pasqua, mai una sfuriata, mai un scena di sconforto o di ribellione di fronte alla cattiveria che la circonda. Tutto il nervosismo che avrebbe dovuto avere lei, se lo becca in pieno lo spettatore, anelante un lieto fine che non sembra mai arrivare.

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La tendenza più invalsa nelle screenplay contemporanee del cinema hollywoodiano vede i biopic come assoluti protagonisti (in contemporanea in sala troviamo Steve Jobs con Fassbender); David O. Russel conferma questa tendenza e sceglie Joy Mangano, l’inventrice del Miracle Mop (il mocio che pulisce i pavimenti di tutte le case del mondo), per ricamare una storia che ripropone senza innovare nella struttura o nel contenuto temi e ambientazioni cari al regista di The Fighter. In un’ambientazione storica ancora una volta ben precisa e circoscritta in un passato non lontano ma ormai, quasi, leggendario (come già era stato in American Hustle) ritornano il tema economico intrecciato alle esistenze frante di individui dalla precaria psicologia e condizione di vita. Pur con il solito approfondimento che lo contraddistingue, O. Russel non riesce ad aggiungere nulla di nuovo rispetto a quanto già detto nelle sue precedenti pellicole. Oscuro il motivo che lo spinge a calarsi in una dimensione passata, visto che la sua migliore realizzazione è una pellicola contemporanea. Il solol a non rendersi conto di questa qualità, forse, è O. Russell stesso…

Unica a salvarsi tra i feticci del regista è la fresca di Golden Globe Jennifer Lawrence (al suo terzo Globo d’oro, tutti per film diretti da O.Russell). La sua non è una semplice interpretazione facilitata perché cucitale praticamente addosso; la giovane attrice premio Oscar (indovinate un po’ chi la diresse in Silver Linings Playbook?) imprime al suo personaggio una presenza scenica che spiazza per la coerenza e la profondità: solo con la sua forza ed energia Joy Mangano assume una rotondità caratteriale che, altrimenti, sarebbe scaduta nell’anonimato.

X-Men: Apocalypse – il poster e il primo trailer del film

X-Men: Apocalypse sarà ambientato 10 anni dopo i fatti di Giorni di un Futuro Passato (cioè durante gli anni ottanta), e vedrà il ritorno di James McAvoy, Rose Byrne, Michael Fassbender, Jennifer Lawrence, Evan Peters e Nicholas Hoult. Tra le new entry, Oscar Isaac (Apocalisse), Alexandra Shipp (Tempesta), Ben Hardy (Angelo), Tye Sheridan (Ciclope), Olivia Munn (Psylocke) e Sophie Turner (Jean Grey).

X-Men: Apocalypse
Il film, scritto da Bryan Singer assieme a Dan Harris e Michael Dougherty (X-Men 2), segnerà la conclusione della saga degli X-Men inaugurata da Bryan Singer nel 2000 e lancerà un potenziale nuovo ciclo.

Nelle sale il 26 maggio 2016.