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Equals, di Drake Doremus in DVD

Equals è un futuristico Romeo & Giulietta o un Pleasantville di ambientazione fantascientifica? Un ibrido non troppo coraggioso, vediamo insieme perché.

Reduce dai successi di Like Crazy (2011, Gran premio della giuria alla 27a edizione del Sundance Film Festival), interpretato da Anton Yelchin, Jennifer Lawrence e Felicity Jones (vincitrice del premio speciale della giuria per la sua interpretazione) e di Breathe In (2013), interpretato da Guy Pearce, Felicity Jones, di nuovo, e Amy Ryan, il regista Drake Doremus stavolta ambienta il suo genere-cardine, ovvero il dramma sentimentale, in una società che sembra aver realizzato alcune utopie dello stoicismo e dell’epicureismo azzerando ogni emozione.

«Immagina un mondo dove i sentimenti sono fuorilegge». [tagline]

Su Atmos, in una società chiamata Collettivo, vivono gli Equals, esseri umani incapaci di provare sentimenti, una caratteristica volutamente ottenuta attraverso esperimenti genetici. Il fine è quello di realizzare una società stabile e non violenta, creare un equilibrio di convivenza perfetto che permetta di concentrarsi sulle esplorazioni spaziali. Ma la natura trova sempre una strada e l’amore, in ogni sua forma, è la cosa più naturale che ci sia, il nemico per eccellenza di questo mondo apatico dove domina il bianco e il grigio asettico. Il seme della rivoluzione emotiva sboccerà solo nel cuore di pochi eletti o sarà soffocato dalla repressione dell’omologazione sociale?

«L’amore è strano: è come un tornado…».

«In un futuro distopico privo di avidità, povertà, violenza e sentimenti, una nuova malattia risveglia emozioni dimenticate, infondendo l’amore, la depressione, la sensibilità e la paura. Chi contrae questa malattia viene allontanato dalla società e mai più rivisto. Nia [Kristen Stewart; Personal shopper, Billy Lynn: Un giorno da eroe] e Silas [Nicholas Hoult; Mad Max: Fury Road e Bestia in X-Men Apocalypse] vivranno sulla loro pelle il dramma generato da un rapporto proibito». [sinossi dal retro di copertina]

In una società di questo tipo il normale stato di salute è essere totalmente privo di sentimenti. Chi non è omologato non fa parte del Collettivo, è considerato un Imperfetto e se, nonostante gli inibitori che gli vengono somministrati, prova qualcosa “fuori dagli schemi” è malato, ha una «malattia debilitante», la Sindrome Da Eccitazione, ed è allontanato per evitare il “contagio” e condannato a morte.

«Abbiamo curato il cancro e il raffreddore…».

«Dobbiamo resistere fino a quando non trovano una cura».

Interessante la ricerca di un’estetica cromatica che sappia trascendere la bidimensionalità dello schermo e fornire una multisensorialità che renda tridimensionali e suggestivi i sentimenti e la filosofia da bignami che Equals ha da offrire: il bianco è il colore dominante, accompagnato, dicevamo, da un grigio freddo, metallico, ma quando gradualmente le mani si sfiorano furtive, i colori si scaldano, la musica elettronica viene sostituita da un commento musicale in un timido crescendo emotivo, quando i baci sono immersi nella paura, l’oscurità in cui si celano i protagonisti si tinge di blu e verde. Nel frattempo la mdp, pur privilegiando i dettagli, maggiormente suggestivi, in quanto più vicini all’azione, azzarda qualche inquadratura più audace, la macchina a mano, una dialettica dello spazio vuoto alle spalle del soggetto, che comunica la solitudine e la fragilità del “diverso”. Le ombre, infine, disegnano dei sottotesti, raccontano in maniera implicita quello che ai personaggi non è permesso spiegare. Sono le ombre sulle pareti traslucide a palesare agli spettatori il primo amplesso e di nuovo sono le ombre, nella scena della mensa, a disporsi in modo da rendere un concetto di prigionia, di privazione della libertà.

«Perché mi guardi in quel modo?».
«Non posso farci niente».

IL DVD

 

REGIA: Drake Doremus INTERPRETI: Kristen Stewart, Nicholas Hoult, Guy Pearce, Jacki Weaver TITOLO ORIGINALE: Equals GENERE: sci-fi, drammatico, sentimentale DURATA: 98′ ORIGINE: USA, 2016 LINGUE: Italiano 5.1 DTS, Italiano 5.1 Dolby Digital, Inglese 5.1 Dolby Digital SOTTOTITOLI: Italiano EXTRA: Trailer DISTRIBUZIONE: Koch Media

Equals ha avuto la sua anteprima mondiale nella 72ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (2015), dove ha gareggiato per il Leone d’oro al miglior film. Presentato con successo anche al Toronto International Film Festival 2015, Equals è stato accolto con “freddezza” il 4 agosto 2016 nelle sale italiane. La versione home video è in disco unico, audio multicanale, sia in DTS sia in Dolby Digital, in italiano e inglese, mentre per l’aspect ratio si è scelto un widescreen non troppo spettacolare (1.85:1). Tra gli extra il solo trailer, a conferma del fatto che la produzione ha puntato tutto sull’impatto emozionale della sceneggiatura di Nathan Parker (Moon, Blitz) e l’interpretazione degli attori. Peraltro, la recitazione dei caratteristi e dei personaggi minori tradisce l’impossibilità di rendere verosimile, sul piano recitativo, l’impassibilità che la trama richiede quale presupposto fondamentale.

«Non posso starti lontano. Non posso starti vicino».

Il film NON è vietato ai minori. Questo invece, tradisce una mancanza di coraggio. Se i protagonisti scoprono la bellezza dell’amore e del fare l’amore, forse sarebbe stato il caso di spingerli verso altri tipi di esplorazioni spaziali rispetto a quelli che la società ha loro destinato: uno spazio che si conosce in sé ma che si riscopre nell’interiorità dell’altro e che genera o apre un ulteriore spazio che è all’interno di noi, che può riempirsi di sentimenti potenzialmente infiniti, non a caso il motore di ogni storia, da quando esiste la comunicazione, ossia da sempre.

«L’amore è dare e prendere tutto».

Un prodotto che risulta abbastanza interessante, soprattutto dai punti di vista filosofico e scenografico, ma che non riesce a fare quel passo necessario che la renda un’opera esteticamente adeguata al pathos e alle riflessioni generate dalla trama. Equals è girato senza i giusti “sentimenti” di evoluzione, sperimentazione, ribellione che sono alla base di prodotti simili ma di ben altro successo, primo fra tutti il già citato Pleasantville.

Curioso come nel film si crei un parallelo tra l’impossibilità di amarsi dei protagonisti e l’impossibilità di volare del bombo. Una vecchia leggenda metropolitana, infatti, affermava che secondo le leggi dell’aerodinamica il bombo non dovrebbe essere in grado di volare per un’apertura alare ed una frequenza di battito d’ali non adatte a sostenere il proprio peso. In realtà, nel corso di esperimenti di aerodinamica con altri insetti si è scoperto che la viscosità dell’aria, sperimentata dal punto di vista degli insetti, che sono di piccole dimensioni, permetteva persino alle loro piccole ali di muovere un elevato volume di aria, riducendo la quantità di energia necessaria a mantenersi il volo. Tanta fatica a trattenere gli istinti naturali, tanti sacrifici per poi tornare indietro di millenni ad interrogarsi su cose strarisapute?

«Secondo le leggi della fisica non potrebbero volare ma loro non lo sanno, così volano comunque».

Personal shopper, di Olivier Assayas

Presentato al TIFF e al NY Film Festival e vincitore della Palma per la miglior regia a Cannes, nel 2016, Personal shopper, il nuovo film di Olivier Assayas, approda nelle sale italiane per l’annuale appuntamento con Rendez-vous, il festival che per la settima edizione dedica la propria programmazione al nuovo cinema francese. Il titolo, un po’ fuorviante, sembrerebbe preannunciare una sceneggiatura che abbia come fulcro la moda, con uno stile giocato sul dettaglio, colori sgargianti e un montaggio brioso e accattivante e invece si tratta di cinema autoriale, in linea con la giovane mashing up wave o corrente crossgenerica (cross-genre). Uno psychothriller mascherato da ghost movie e (tra)vestito da dramma intimista sulla moda? La grandezza del film sta proprio nel fornire elementi per riflettere senza prendere una posizione netta, in modo che anche il pubblico sia stimolato a ripensare tutto il percorso con occhi diversi. E al regista francese piace proprio far coincidere la fine del film con l’inizio di un possibile nuovo percorso per i suoi personaggi!

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Maureen [Kristen Stewart] lavora a Parigi come personal shopper di una celebrità. Ma Maureen è a Parigi soprattutto per un altro motivo: aspetta qualcosa. Suo fratello gemello, Lewis, è morto e lei, che ha la sua stessa malformazione cardiaca, aspetta da lui un segno. Infatti, i due sono sensitivi, in grado di stabilire contatti con quelle entità che rimangono bloccate in una dimensione intermedia fra la vita quotidiana e l’ultraterrena. Maureen e Lewis avevano stipulato un patto: qualora uno dei due fosse venuto a mancare, avrebbe fatto di tutto per aprire una porta e comunicare con l’altro. Ma i segni che Maureen ha colto sono davvero riconducibili al sovrannaturale? E l’utente sconosciuto che chatta con lei è reale o un’anima evoluta che ha facoltà di parlare attraverso un medium tecnologicamente avanzato come uno smartphone?

Personal shopper è un film sensuale che sa scavare nel profondo dell’animo umano. Intimo e cerebrale cinema di genere che ha bisogno di essere analizzato a ritroso. Il nuovo film di Olivier Assayas è un horror psicologico, un thriller soprannaturale, un dramma che ha l’intento di riflettere sulla realtà, la virtualità dei rapporti e l’inconsistenza spesso fuorviante delle aspettative, nonché sull’illusione dell’apparire senza aver ben strutturato l’essere. In somma, Personal shopper è una discesa negli inferi dell’animo umano, nel buio dell’anima immatura di una donna incompiuta che necessita di risposte per potersi liberare da quei pesi che non le permettono di emanciparsi ed affermarsi come individuo consapevole.

«Lewis, sei tu? O sono solo io?»

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Girato per le strade di Parigi 48 ore prima degli attacchi del 13 novembre 2016, Personal shopper porta sul grande schermo il ritratto di un personaggio alienato dalla realtà oggettiva, dedito all’ossessiva ricerca di prove tangibili di una fenomenologia multidimensionale. Un personaggio per buona parte frustrato, come lo spettatore, dall’attesa di un qualsiasi segno di vitalità da un’entità apatica, come la protagonista. Una frustrazione che trova il suo parallelo diegetico nel divieto tassativo per Maureen di provare i vestiti che deve comprare per la sua cliente.

«Non c’è desiderio senza proibizione»

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Allo stesso tempo, la ragazza è oggetto delle attenzioni di uno sconosciuto che la osserva e la ascolta senza che lei possa in alcun modo impedirlo. Un interlocutore celato nel buio come, del resto, il pubblico in sala.

«Tu non sei mio fratello!»

Kristen Stewart [Café Society, Billy Lynn – Un giorno da eroe, Equals, Still Alice] sembra incarnare alla perfezione questa figura quasi astratta, sempre a cavallo fra due dimensioni senza mai poter dimostrare una decisiva appartenenza ad uno dei due mondi. La sua Maureen, con lo sguardo quasi sempre perso in pensieri imperscrutabili, trascinato a forza nell’interazione con l’altro, vivo solo quando è dedito alle ossessioni, è l’espressione di una dialettica del vuoto: dapprima inteso come “vuoto a perdere”, come un nulla in cui smarrire anche sé stessi, poi gradualmente percepito come “vuoto a rendere”, positivo in quanto spazio da riempire che fa da contraltare all’immobilità di un’attesa potenzialmente eterna di un segno da un mondo altro.

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Il contrasto tra luci e ombre è ben rappresentato visivamente da tutto il settore tecnico-formale, ma soprattutto dalla fotografia d’autore di, che gioca molto con il controluce e che si fa veicolo anche delle altre forti contrapposizioni presenti nel testo filmico: il visibile contro l’invisibile, l’apparire e l’essere, la vita in stretto legame con la morte, il buio che si mostra attraverso la luce e viceversa, senza dimenticare l’immancabile dubbio amletico tra essere e non essere che, con le storie di fantasmi, si fonde benissimo.

Parafrasando Sils Maria, sempre di Assayas e ancora con la Stewart, «c’è molta più verità nei film di fantascienza o nei fantasy che in molti film impegnati. Questi film usano simboli e metafore, ma non lo fanno in maniera superficiale e, negli ultimi anni, hanno affrontato gli stessi argomenti ed esaminato gli stessi soggetti di cui sono oggetto i film che trattano esplicitamente di psicologia». L’elaborazione del lutto e l’emancipazione dei personaggi, attraverso un percorso di formazione che prevede la maturazione e/o l’affrancamento proprio da fardelli derivati da sensi di colpa, vedi Arrival o The neon demon, per citarne due su tutti.

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«Odio i film horror»

In Francia c’è ancora chi è disposto a correre dei rischi, autori che non si lasciano schiacciare dall’ansia di far divertire e far cassa a scapito della qualità o di ripetere all’infinito formule ampiamente sperimentate su strade battute talmente tanto da aver scavato un solco. Il rischio è che il solco diventi un baratro dal quale la cinematografia nazionale non riesca a ritirarsi su. In Italia il cinema di genere e d’autore non è morto, è solo nascosto dall’ombra del comico a tutti i costi. Tiriamolo fuori.

«Aspetto»

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Billy Lynn – Un giorno da eroe, di Ang Lee

Una coproduzione Stati Uniti – Regno Unito – Cina permette ad Ang Lee di adattare per il grande schermo il romanzo di Ben Fountain Lynn’s Long Halftime Walk [È il tuo giorno, Billy Lynn!] ed il regista di Vita di Pi, La tigre e il dragone ed I segreti Brokeback Mountain, lo utilizza per sperimentare una frequenza di cattura e riproduzione dei fotogrammi da record. Billy Lynn – Un giorno da eroe è, infatti, il primo film ad essere realizzato a 120 fotogrammi al secondo in 3D con una risoluzione ad altissima definizione (4K) ottenuta grazie ad una Sony CineAlta F65, equipaggiata con lenti Zeiss Master Prime.

«È strano essere celebrato per il giorno più brutto della tua vita!»

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Il diciannovenne soldato William “Billy” Lynn diventa un eroe nazionale dopo un pericolosa azione di guerra in Iraq. Rimpatriato per due settimane insieme ai suoi commilitoni della Bravo Squad, deve affrontare il Victory Tour, ossia tutta una serie di interviste, comizi pubblici che si concludono con la partecipazione alla Thanksgiving Thursday Night, la tradizionale partita di football del giorno del ringraziamento, con tanto di show delle Destiny’s Child [controfigure sempre riprese di spalle, una vera caduta di stile e di prestigio per una produzione di così alto livello]. Lynn, ancora traumatizzato dall’esperienza in Iraq e dalla morte di un suo superiore, dovrà vedersela con un nemico interiore difficile da battere: il proprio istinto di sopravvivenza e il desiderio di essere felice, entrambi illuminati dalle luci della ribalta. Sia lui che i suoi compagni mostrano chiari i sintomi del disturbo post-traumatico da stress, o Post-Traumatic Stress Disorder (PTSD) secondo la dicitura internazionale. Riusciranno a non impazzire? E Billy cosa sceglierà tra i desideri da ragazzo che cercano di farsi largo nel suo cuore di soldato e il simulacro dell’eroe che i media hanno costruito e che lui continua ad interpretare con estrema lucidità? sempre che una scelta ce l’abbia davvero…

«Siamo una nazione di bambini andati a crescere da un’altra parte o a farsi ammazzare»

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Billy Lynn è Joe Alwyn al suo esordio come protagonista. Se la cava bene: molto espressivo e ben calato nella parte dell’ex-teenager che si ritrova catapultato in una situazione troppo spesso mitizzata dai media e che si dimostra più grande di lui. Billy Lynn dovrà decidere cosa fare della sua vita, se crescere e tornare al fronte dove forse è già stata sparata la pallottola con il suo nome sopra o se avere una seconda occasione di vivere la propria vita in tranquillità, godendosi il successo effimero delle sue gesta eroiche. Del cast fanno parte anche Kristen Stewart, Vin Diesel, Steve Martin, Chris Tucker e un sorprendente Garrett Hedlund [è stato Patroclo nel Troy di Wolfgang Petersen e James Uncino in Pan – Viaggio sull’isola che non c’è di Joe Wright], che tiene in riga la trama come i suoi sottoposti, un bel plotone di caratteristi niente male, di cui probabilmente sentiremo ancora parlare nel prossimo futuro.

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Più un film tv di lusso che una pellicola cinematografica di interesse a tuttotondo: la fotografia, anche nelle scene di azione nel deserto, è pulita, troppo pulita, come se tutto fosse irreale e quindi il trasporto delle emozioni è affidato alla sola introspezione del protagonista; il montaggio, anche in occasione dei flashback, appare giustapposto e mai studiato dal punto di vista estetico; le inquadrature sono più che altro a composizione centrale, utilizzando solo raramente diagonali e prospettive, confidando che gli occhi gonfi di lacrime del protagonista s’incontrino con quelli dello spettatore nel momento in cui guardano in macchina; gli scavalcamenti di campo disorientano lo spettatore ma ormai chi conosce lo stile (o non-stile) Ang Lee vi è abituato e può associarlo ad una volontà di dar risalto al sottotesto metacinematografico. Scavalcamenti, sguardo in macchina, montaggio giustapposto e inquadrature centrali concorrono probabilmente a fornire un punto di vista ulteriore su quanto i media possano far salire sul piedistallo alcuni eroi e farli scendere a velocità doppia una volta esaurito il serbatoio dell’interesse mediatico. Se anche può sembrare affascinante questa interpretazione, provate ad immaginare il tutto girato da Clint Eastwood e una sensazione di spreco vi prenderà lo stomaco più di ogni azione militare presente nel film. Rimane la sperimentazione tecnica, quella sì all’avanguardia:  120 fotogrammi al secondo significa cinque volte la velocità standard di 24 fps (25 nel sistema PAL) e due volte il precedente record detenuto da Peter Jackson con il suo Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato.

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Café Society, di Woody Allen

“La vita è una commedia scritta da un sadico che fa il commediografo” afferma il giovane Bobby Dorfman mentre si crogiola nei dolori dell’amore non ricambiato per Vonnie, la bellissima segretaria di suo zio Phil, che gli apre le porte del paradiso della Hollywood anni ’30 ma non quelle del suo cuore. E come dargli torto si pensa alla sua fuga dal Bronx con una valigia piena di sogni e pochi spiccioli in tasca, alla sua faticosa scalata fino all’olimpo delle star e alla rovinosa caduta in una realtà in cui l’amore è negato a chi non ha soldi e potere. E non è un caso che Vonnie, l’eterea musa di Bobby, adori trascorrere il tempo con lui e non perda occasione per criticare la vacuità dell’alta società, ma alla prima occasione gli spezzi il cuore per fuggire tra le braccia di un uomo molto più grande di lei, sposato, ma incredibilmente potente.

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Bobby, incredibilmente deluso dall’esperienza ad Hollywood, torna a New York e inizia a lavorare per suo fratello Ben in un night club, che in breve tempo diventa uno dei club più frequentati dalla Cafè Society, facendo di lui uno degli scapoli più famosi della città. In quel vortice di cocktail e lustrini Bobby posa gli occhi su Veronica, una donna dalla bellezza abbagliante, perfetta in tutto, se non nel fatto che non è la sua Vonnie. Veronica è sinceramente innamorata di lui e Bobby non potrebbe desiderare di più per la sua vita, ma è proprio quando tutto sembra andare per il meglio che alla sua porta bussa il passato, e ciò che sembrava così chiaro e splendente si fa improvvisamente confuso e oscuro.

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Senza dubbio lo sceneggiatore supremo che presiede alle nostre vite possiede una dose notevole di sadismo, ma il maestro della commedia americana Woody Allen non è da meno, visto che ancora una volta si diverte a giocare con i sentimenti dei suoi personaggi, negando loro la felicità in ogni modo possibile. Che sia l’amore non ricambiato, l’amore tradito o quello destinato a rimanere un sogno, Allen non concede un attimo di respiro al povero Bobby Dorfman, che sembra ricalcare lo stesso regista nelle movenze impacciate e nell’incapacità di relazionarsi al sesso femminile senza incappare in qualche disastro. In questo il giovanissimo Jesse Eisenberg ha eseguito alla perfezione la lezione del maestro, sostenendo ad opera d’arte una scaletta di dialoghi serratissimi, intrisi di citazioni letterarie e altamente introspettivi. Dopo tutto quello che Woody Allen ama di più è proprio disquisire sulla natura umana, raccontare la vita per anatomizzare i sentimenti umani nel momento in cui l’uomo viene messo in crisi, e anche in Cafè Society non perde occasione per farlo, assumendo la posizione di Deus ex machina con la sua voce narrante che accompagna tutto lo svolgimento del film. Allen è dentro e fuori allo stesso tempo, vive in prima persona e osserva con lo sguardo del commediografo sadico i turbamenti d’amore di un giovane che potrebbe essere lui, ma anche tutti coloro che almeno una volta hanno sofferto per amore.

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Cafè Society per contenuto e forma non si discosta troppo dalle ultime opere del regista, che hanno incastonato il dramma umano in epoche passate esteticamente raffinate e intellettualmente brillanti, come la Francia degli anni ’20 di Midnight in Paris e Magic in the moonlight, fino ad arrivare alla vibrante rappresentazione degli anni ’30 in un’America in cui fiorivano i club e ogni notte i locali jazz, i teatri e i caffè si popolavano di celebrità in smoking e modelle in abito da sera a caccia di mariti facoltosi e di pettegolezzi piccanti. Questa era anche l’epoca in cui nasceva il giornalismo scandalistico, che avidamente immortalava i frequentatori della Cafè Society sullo sfondo di una città che non dormiva mai, e che di notte mostrava il suo volto più intrigante. Come loro anche Woody Allen ha ceduto al fascino di quest’epoca d’oro, che nel suo film ha riportato in vita in tutto il suo splendore attraverso la musica jazz, i costumi sontuosi e la fotografia morbida di Vittorio Storaro, che porta un velo di magia in ogni scena e accarezza i volti delle protagoniste femminili Kristen Stewart e Blake Lively regalando loro una bellezza quasi ultraterrena. E la ricerca di una bellezza abbagliante è il leitmotiv di Cafè Society, che non brilla per originalità ma sa crogiolarsi con grazia nel sogno di un’epoca che si può vivere solo nella fantasia, così come le storie d’amore immaginate, segrete o semplicemente irrealizzabili che non trovano spazio nella vita reale ma nei sogni continuano a vivere per sempre.

Festival di Roma 2014 – Still Alice, di Wash Westmoreland e Richard Glatzer

Alice è una donna straordinaria, a detta di suo marito, la donna più bella e intelligente che abbia mai conosciuto. Ora che ha appena compiuto cinquant’anni, occupa una cattedra di linguistica alla Columbia University e la maggiore dei suoi tre splendidi figli sta per farla diventare nonna. Adesso sta iniziando quella stagione della vita in cui i figli hanno trovato la propria strada e le responsabilità sono scemate, per cui può finalmente raccoglie con soddisfazione i frutti dei suoi sacrifici e godere a pieno la vita che ha costruito con fatica. Ma all’improvviso nota che la sua memoria si sta indebolendo. All’inizio, fa fatica a ricordare gli appuntamenti e le lezioni, poi cancella inconsapevolmente brevi istanti della giornata, fino a perdere completamente coscienza del suo lavoro, della sua famiglia e dei luoghi in cui si trova. In pochi mesi l’Alzheimer cancella tutta la sua esistenza, concedendole solo pochi brevi istanti di respiro per riconoscere l’amore negli occhi dei suoi cari.

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Come si può descrivere la sensazione di perdere all’improvviso il contatto con il mondo, di vederne i contorni sbiaditi e fumosi, alla stregua di un caos informe di macchie colorate senza nome e provenienza, che girano vorticosamente annullando l’orientamento e confondendo il tempo e lo spazio? Questi sono i sintomi dell’Alzheimer, una malattia degenerativa silenziosa, che distrugge il cervello senza far rumore, cancellando una piccola porzione di informazioni alla volta, fino all’oblio. Alice è una delle tante vittime di questa malattia senza ritorno,  estranea nel mondo in cui ha sempre vissuto, incapace di riconoscere le strade che ha percorso ogni giorno, gli sguardi incrociati distrattamente e i volti che che hanno dato un senso a tutta la sua vita. Ogni giorno perde un pezzo di se stessa e della realtà che la circonda. I ricordi, i nomi dei suoi figli, tutto si fa buio. Se l’Alzheimer può essere paragonato alla morte dell’anima, per chi lo vive con la consapevolezza di una mente brillante come la sua è l’inferno.

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Raccontare una malattia è uno dei compiti più ardui, perché il rischio di lasciarsi andare a slanci patetici e di esplorare solo alcuni aspetti della questione è molto alto, ma Westmoreland e Glatzer non cadono nella trappola della spettacolarizzazione del dolore e si limitano a stare in disparte, ad osservare la vita di Alice da lontano, accompagnandola nel suo percorso prima che il processo sia concluso. Al centro della scena ci sono le piccole perdite quotidiane, quelle sviste che sembrano quasi insignificanti ma che indicano un’avanzamento inarrestabile dell’Alzheimer. Alice fa tutto ciò che è in suo potere per restare il più possibile aggrappata alla sua vita e alla sua preziosa memoria, cercando di costruire  nuovi ricordi ogni giorno, visto che i vecchi sono destinati a disciogliersi nel tempo e, al di là dell’aiuto che le può dare la tecnologia, l’unica speranza è portare con sé le sensazioni, i suoni e gli odori di una giornata al mare come tante, che per lei sarà eternamente presente.