Kristin Scott Thomas

The Party, di Sally Potter

The Party è una commedia che non fa ridere, senza che questo la sminuisca in alcun modo. Scritta nel corso degli ultimi anni da Sally Potter, che ne firma anche la regia, The Party è il prodotto di una lunga riflessione sulla politica e sulle relazioni sociali messa su schermo dell’autrice britannica, nota per il suo gusto sofisticato e lontano dal circuito mainstream. Artista originale e completa, Sally Potter aggiunge un nuovo, gustoso capitolo alla sua carriera puntando sulla commedia brillante e su un british/black humor sottile e di classe, che rende omaggio ai classici del genere – Saturday Night and Sunday Morning e This Sporting Life, per citarne un paio – di cui riprende anche l’estetica in bianco e nero.

Il film si svolge nell’appartamento di Janet (Kristin Scott Thomas), Ministro ombra della Sanità del governo inglese, la cui nomina è stata appena ufficializzata. Tra una chiamata di congratulazioni e un messaggio ammiccante all’amante, – mentre il marito Bill (Timothy Spall) siede assorto sulla poltrona della stanza accanto – la signora è indaffarata nell’organizzazione di un ricevimento per gli amici più stretti. L’apparente clima di festa precipita dopo poco in una tragedia annunciata, in cui il silenzioso Bill sconvolge gli invitati con due dichiarazioni esplosive. Verbosa e conflittuale, la platea è composta dalla cinica April (Patricia Clarkson), da suo marito Gottfried (Bruno Ganz), dalla professoressa di studi di genere Martha (Cherry Jones), dalla sua compagna incinta Jinny (Emily Mortimer) e, infine, dal giovane banchiere Tom (Cillian Murphy).


Ognuno dei personaggi incarna in qualche modo uno stereotipo della borghesia intellettuale e di sinistra, figlia delle marce e dei dibattiti universitari degli anni Settanta, di cui la regista si fa spia e denuncia nevrosi e ipocrisie. Nonostante i diktat di parità, opportunità e di confronto democratico, davanti ai temi più profondi e drammatici dell’esistenza le maschere non tardano a cadere, accedendendo gli animi e il linguaggio; la doppia vita dei personaggi pubblici e i tradimenti che si consumano all’interno delle “esemplari coppie progressiste” sono svelati da uno sguardo disincantato. Sally Potter punta – così – i riflettori sull’irrimediabile corruzione dell’essere umano, che neanche le ideologie sono in grado di salvare.

Questo giudizio così perentorio è edulcorato da un’innegabile simpatia che i personaggi – tutti a loro modo – hanno. In particolare, chi non appartiene a questa storia sessantottina ha dalla sua un dolcissimo senso di inadeguatezza che risolve in una costante richiesta di attenzioni – come nel caso di Jinny – o nel vivere in un mondo del tutto parallelo, come Gottfried, lo stralunato life coach interpretato da Bruno Ganz.


Il racconto di Sally Potter si rifà a topoi narrativi piuttosto consolidati: nella scelta, ad esempio, di non mostrare mai quello che è il personaggio-chiave della storia, la regista riprende quella poetica dell’assenza propria di tanti grandi autori (tra tutti, l’iraniano Asghar Farhadi). Analogamente già visto in tanti bei film l’espediente della ripresa in tempo reale e in un unico luogo, scelta dal sapore teatrale in grado di concentrare la narrazione in una sequenza dal ritmo incalzante, in cui lo spettatore non può perdersi neanche un passaggio o una parola per godere della progressiva preparazione del finale (in questo caso, a dire il vero, abbastanza intuibile).

The Party è un film che ben si integra nella felice stagione cinematografica che stiamo vivendo, una visione piacevole per chi vuole concedersi una risata a denti stretti in un clima crudele e ricercato, reso da una regia interessante e da un’escalation interpretativa di rara eleganza.

L’ora più buia, di Joe Wright

“Non posso promettervi altro che sangue, fatica, lacrime e sudore. Chiedete, qual è la nostra politica? Rispondo che è condurre la guerra per mare, per terra e nel cielo con tutta la forza e tutto lo spirito battagliero che Dio può infonderci; condurre la guerra contro una tirannide mostruosa che non ha l’eguale nel tetro, miserabile catalogo del crimine umano. […] Chiedete qual è il nostro scopo? Rispondo con una parola sola: vittoria, vittoria ad ogni costo, vittoria nonostante ogni terrore, vittoria, per quanto la strada possa essere lunga e dura. Senza vittoria infatti non c’è sopravvivenza” (Winston Churchill 13 maggio 1940)

Londra, 1940. La barbarie nazista avanza con sempre maggiore voracità, Hitler ha appena conquistato la Danimarca e sta per cadere l’ultimo baluardo democratico dell’Europa occidentale, la Francia. Nelle stesse settimane, la politica interna britannica attraversa un momento di forte crisi: la mozione di sfiducia votata dopo la fallimentare campagna in Nord Europa costringe Lord Neville Chamberlain, Primo Ministro e leader del partito conservatore, alle dimissioni e alla nomina di un candidato per guidare il paese nello scontro imminente. La scelta ricade su Winston Churchill, Primo Lord dell’Ammiragliato, famoso per le sue cronache di guerra e per la disfatta britannica di Gallipoli, in Turchia, durante la prima guerra mondiale.

Joe Wright, stella sempre più affermata della cinematografia inglese, erede ideale di James Ivory per l’innegabile raffinatezza e per la scelta ricercata di storie e interpreti, firma L’ora più buia (Darkest hour) gioiello tra i biopic storico-politici. Al centro dell’operazione, la trasformazione fisica e interpretativa di Gary Oldman che si cala perfettamente nei panni del Primo Ministro britannico Winston Churchill, restituendo a critica e pubblico un ritratto complesso, positivo, accattivante. In Darkest hour Wright rafforza la sua grande vocazione per il classico e si destreggia nella narrazione con linearità ed eleganza, concedendosi diversi momenti altamente lirici e simbolici, particolarmente adatti a rendere il messaggio indelebile. Ottimo il ritratto che Oldman riesce a imbastire del Primo Ministro britannico, supportato in maniera eccellente da Kristin Scott Thomas, imbiancata per impersonare la first lady Clementine Curchill, spalla forte e autoritaria, la classica grande donna che c’è sempre dietro un grande uomo. L’amore tra i due è sincero e appassionato, come la stima reciproca e il grande pragmatismo nell’affrontare la fase personale, pubblica, storica.

In un periodo storico – come quello attuale – in cui parlare della lotta a ogni genere di fascismo non è mai fuori luogo, Darkest hour ribadisce la retorica positiva della Resistenza raccontando il coraggio del popolo inglese durante uno dei periodi più bui della storia contemporanea e l’orgoglio di un personaggio-chiave di quel periodo, uno dei pochi ad aver sempre rifiutato ogni compromesso con il regime hitleriano. Lo stretto legame tra Churchill e lo spirito del suo popolo è perfettamente raccontato in una scena madre del film, quando lo statista si confronta direttamente con i suoi concittadini, in un dialogo simbolico ambientato nella subway londinese. La licenza poetica che Wright si concede consacra Curchill come nume tutelare della democrazia e perfetto uomo politico contemporaneo, colui che elimina ogni distanza dalla base e svolge a pieno la sua funzione di rappresentante.

Tutto il film è un elogio di Churchill e dell’Inghilterra, quando le due figure si sono sovrapposte nella straordinaria prova di forza della seconda guerra mondiale. Bene e male, democrazia e dittatura, libertà e violenza: le grandi dicotomie che il racconto afferma rendono la vicenda epica ed esemplare, libera da interpretazioni e zone grigie. (Ri)nasce così il mito di Winston Churchill, l’uomo che salutava i giornali disegnando con le dita la V di vittoria, anche nell’ora più buia.

My Old Lady, di Israel Horovitz

Senza conoscere neanche una parola di francese e con una montagna di debiti da ripagare, lo scrittore fallito Mathias Gold vola Parigi per vendere l’appartamento ereditato dal padre nel lussuoso quartiere di Jardin du Luxemburg. Come da copione il bohémien d’altri tempi porta con sé solo un vecchio quaderno, una giacca sdrucita, una bottiglia di vino per le emergenze, e un bagaglio insostenibile di ricordi legati a un padre sempre assente, che incolpa immancabilmente per suoi fallimenti. L’appartamento è estremamente raffinato, circondato da un vasto giardino, e vale quanto l’inizio di una nuova vita libera dai debiti. Sfortunatamente al suo arrivo trova ad attenderlo una sorpresa inaspettata: un’anziana signora inglese occupa l’appartamento insieme a sua figlia, ed è autorizzata a rimanerci grazie al “viager”, una forma tutta francese di vitalizio che impedisce ai legittimi proprietari di prendere possesso di un immobile fino alla morte degli occupanti. Senza un soldo per pagarsi il biglietto di ritorno per l’Ametica, Mathias è costretto a rimanere sul suolo francese per un tempo indefinito.

Travolto da una miriade di emozioni diverse, Mathias passa repentinamente dalla delusione verso l’ennesimo tiro mancino che gli ha giocato il padre defunto, all’odio verso l’anziana vedova, che cerca in ogni modo di mandare via di casa, fino alla curiosità verso il rapporto epistolare che per anni aveva intrattenuto con suo padre, nascondendo al mondo intero un amore profondo, ostacolato dalle circostanze della vita. Due matrimoni si erano piegati sotto questa passione clandestina e due bambini, ormai diventati adulti, avevano sofferto la mancanza di amore nella loro famiglia e le fughe dei loro genitori verso un amante sconosciuto. Mathias e Chloé, la figlia di Mathilde, sono molto simili, entrambi adulti incompiuti che non hanno mai avuto la forza di perdonare i loro genitori e di mettersi il passato alle spalle, eppure tra loro non si instaura una simpatia immediata e neanche un’empatia. Il loro rapporto è eternamente conflittuale, faticano ad aprirsi completamente l’uno all’altra e proprio quando stanno per lasciarsi andare a un affetto più profondo fanno un passo indietro, per timore di ripercorrere la strada tracciata dai loro genitori.

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I fantasmi del passato opprimono costantemente il presente in questa commedia agrodolce, che invita a riconciliarsi con se stessi e a rimettere in ordine i tasselli scomposti della una vita perdonando gli errori di chi ha seguito il cuore non curandosi della sofferenza degli altri. Nessuno è innocente, ognuno dei tre personaggi che girano intorno a questa piccola storia è colpevole dell’infelicità di qualcun altro, più o meno consapevolmente, e solo attraverso il dialogo e la faticosa ricerca di un punto d’incontro possono chiudere i conti con il passato e andare avanti. I personaggi si svelano attraverso il racconto di ciò che è stato e comprendono come le loro vite siano legate da sempre da un dolore taciuto e qui hanno la possibilità di crescere. L’azione passa in secondo piano rispetto a un dialogo denso che nasce per la scena più che per il grande schermo dalla penna  del commediografo Israel Horovitz che, dopo aver portato la sua pièce teatrale My Old Lady in giro per il mondo, ha deciso di adattarla per il cinema sul palcoscenico sontuoso di una Parigi autunnale. La storia, originariamente ambientata nell’abitazione della vecchia signora, assume qui un respiro più ampio e si estende a nuovi personaggi di contorno, ma conserva l’impianto fortemente teatrale dell’originale e condensa nella parola il potere di plasmare l’essere umano, qualunque sia la scena su cui si muove.