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L’uomo che uccise Don Chisciotte, di Terry Gilliam

L’uomo che uccise Don Chisciotte è la rilettura del capolavoro della letteratura spagnola attraverso l’ottica grandangolare di Terry Gilliam. La sua creatività lucida e ludica – se mi passate questo facile anagramma, che è più uno scambio di consonante – ha creato col tempo, molto tempo, quasi 25 anni, una storia surreale e grottesca, un film che è un inusuale connubio di visionario e concreto: la realtà che sa illudere più della fantasia, la quale compenetra la vita reale fino a trasformarla e successivamente negarla per diventare infine rappresentazione morale dell’uomo moderno, o forse più postmoderno.

L’uomo che uccise Don Chisciotte, oggi, è un film ben diverso da quello progettato nella prima produzione andata a rotoli nel 2000. Anche se è rimasto un piccolo nucleo tematico vagamente riconducibile al romanzo Un americano alla corte di Re Artù di Mark Twain con cui era stato creato un incantevole mash-up, nella nuova produzione, arrivata dopo varie vicissitudini su cui si è speculato tanto da far capire la differenza tra “recensione” analitica e “critica” immotivatamente distruttiva.

Don Chisciotte

A lungo è stato il film che sembrava non dover mai veder la luce nel buio della sala, pertanto non poteva che meritarsi, da parte mia, una recensione che sembrava non poter essere messa nero su bianco per veder la luce del vostro schermo retroilluminato. Credo che nessuno degli addetti ai lavori possa dissentire, quantomeno per empatia: varie peripezie mi hanno portato a riprendere gli appunti, rivedere la pellicola e ragionare di nuovo a freddo sulle tematiche. Devo dire che la stratificazione dei significanti è tale da richiedere visioni successive e questo accade solo con film profondamente interessanti. Da Terry Gilliam non ci si poteva aspettare niente di più e niente di meno.

«Ho capito subito che nella sceneggiatura c’erano più livelli da scoprire, e in più era anche molto divertente. Era un modo originale di raccontare la storia di Don Chisciotte, mostrandola da una certa angolazione. L’ho trovata geniale.»

Adam Driver
Un assaggio dello storyboard del film lo trovate sul sito di Pablo Buratti

Come già aveva fatto Cervantes, Gilliam gioca con gli specchi e i simulacri, comunica attraverso le allegorie e lascia libera l’interpretazione del messaggio morale se sia la realtà a “uccidere” ogni illusione o se vivere sognando possa in qualche maniera far digerire la cinicità del quotidiano e lasciar sopravvivere ciò che di epico e cavalleresco ci sia in ognuno di noi.

A tal proposito, è illuminata la scelta di spostare l’attenzione del protagonista dalla ricerca di una vita valorosa come cavaliere errante al sogno condiviso dei personaggi principali di sfondare nel mondo del cinema, la macchina delle illusioni per eccellenza. Solo la mdp è reale. Tutto ciò che è diverso da essa, ciò che riprende, ciò che produce, è comunque finzione, simulacro della realtà. Ma come si fa a non perdersi in essa quando la fascinazione è così suggestiva?

Quello de L’uomo che uccise Don Chisciotte è un magnifico modo per modernizzare la spinta iniziale che origina le avventure del cavaliere dalla triste figura, per immedesimare il pubblico di qualsiasi età, anche il gamer più appassionato che di realtà virtuale e illusione del reale può insegnare a chiunque per quanta ne divora, o ne è divorato.

Toby [Adam Driver: Blackkklansman, Star Wars: Gli ultimi Jedi], cinico e disilluso regista pubblicitario, trova una copia del suo film sperimentale di quando era un giovane studente idealista di cinema. Si tratta della sua personale rivisitazione del Don Chisciotte, girata in un pittoresco villaggio spagnolo, sfruttando riprese dal vivo e attori non professionisti, «per uscire dai cliché» (che poi, in realtà, è da sempre lo stereotipo più in voga tra gli esordienti), secondo uno stile smaccatamente neorealista. Il mondo dello show biz lo ha reso un insensibile arrogante egocentrico narcisista, ma partire alla riscoperta di quel nostalgico passato lo porta ad incontrare quel vecchio calzolaio, Javier [Jonathan Pryce: Brazil, The wife – Vivere nell’ombra], che era diventato il suo protagonista e che non è mai più riuscito ad uscire dalla parte.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Ma il suo piccolo e modesto film non ha finito di provocare sventure: come altri del posto – Los Sueños è il nome del paesello (ammicco!) – anche Toby dovrà assecondare il redivivo “cavaliere dalla triste figura” che lo ha eletto suo fedele scudiero e così facendo ritroverà perfino un amore dimenticato, la dolce Angelica [Joana Ribeiro], non più “donna angelicata”, ma anch’essa vittima della situazione e corrotta dal desiderio di gloria, fama e ricchezze.

La convivenza con la fantasia sfrenata di Javier gli fa perdere l’aderenza con la realtà fino a viaggiare al suo fianco fra tornei cavallereschi improvvisati, giganti da sconfiggere, donzelle da salvare, cattivi da uccidere e grandi imprese da compiere per rinnovare gli antichi valori perduti di un’epoca fantastica in tutti i sensi.

Follia. Amore e morte. Eros e Thanatos. Follie d’amore. Amore per i classici. Amore e passione. Passione per il cinema.

Tematiche che Gilliam riesce nell’intento di racchiuderle in scatole intrecciate e comunicanti in un intricato gioco di intarsi che si uniscono e danno vita a nuove riflessioni che s’incastrano in un flusso continuo simile alle famose scale di Escher.

Questo straniamento dalla realtà, in un percorso onirico che porta alla luce sogni e rimossi freudiani, insieme al suo contrario, la contaminazione del fantasy con elementi della realtà, è un tema ricorrente nella sua filmografia: Brazil, Tideland, Le avventure del Barone di Munchausen, L’esercito delle 12 scimmie, Time bandits, The Zero Theorem, Parnassus.

Tutti questi ribaltamenti trovano il contraltare nel film che pubblico e critica hanno bollato quasi unanimemente come anomalia che va controcorrente al resto: I fratelli Grimm e l’incantevole strega. La verità è che in quel diverso contesto, dove è chiara la matrice fiabesca, il regista va ad operare comunque un twist concettuale esplicitando le basi reali che, rielaborate dagli scrittori sottoforma di allegorie, portano proprio alla scrittura della fiaba. La coerenza del lavoro di contaminazione reciproca tra fantasia e realtà risulta ancora più evidente dopo L’uomo che uccise Don Chisciotte, e soprattutto sapendo che a questa trasposizione ci lavora da 25 anni.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Considerata nella sua totalità, la fase di produzione attraversa come un meteorite sconosciuto tutta la pazzesca filmografia del Monty Python regista. Quante volte Terry Gilliam deve aver sfiorato l’estinzione! Deve essersi davvero sentito un dinosauro se nel frattempo ha deciso di scrivere la sua autobiografia pre-postuma quando ha ancora così tanto da dire!

Di solito la si pubblica perché si è messo un punto. Quindi è l’ultimo film? È stato preso da megalomania? È furbo? Forse un po’, ma se t’incaponisci tutto questo tempo su un progetto fatto e disfatto talmente tante volte che sembra maledetto, forse non è furbo il termine che tutti penserebbero… Pazzo? Sì, forse è un vocabolo più calzante, ma se s’intende una follia buona, quella che va a braccetto con la creatività, quel caos interiore che fa partorire una stella capace di danzare.

A mio parere, l’autobiografia sancisce un traguardo raggiunto, come una maturità o una laurea e il film L’uomo che uccise Don Chisciotte rappresenta l’elaborato di fine corso. È mettere un punto su qualcosa che sembrava irrealizzabile. È celebrarne la riuscita in faccia a chi non voleva e tuttora bistratta per invidia. È mettere il punto e lasciare un’eredità per chi vuol capire e per chi verrà a scontrarsi con gli stessi problemi. Mi piace pensare che sia un punto ma che si possa voltar pagina e trovare nuove pagine bianche da riempire con la stessa passione, goliardia, fantasia e autoironia che sono per questo autore un marchio di fabbrica distintivo.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

«Credo che Terry abbia continuato a ritardare questo film solo per farmi invecchiare abbastanza da poter interpretare Don Chisciotte. E così è stato!»

Jonathan Pryce

Sono note a tutti ormai le vicissitudini che hanno portato a procrastinare le riprese del progetto iniziale, grazie al documentario Lost in La Mancia. Quello che però è poco noto è che pare che una maledizione aleggi sopra chiunque sia intenzionato a trasporre l’opera di Cervantes. Un nome su tutti: Orson Welles. L’idea del suo Don Quixote nasce nel 1955 mentre si trovava in Spagna per alcune riprese organizzate dalla RAI, ma durante la lavorazione, il regista ha visto dilatarsi la mole di girato ben oltre l’immaginabile fino a perderne probabilmente il nucleo tematico dominante e diventando uno, nessuno e centomila film possibile e, quindi, di fatto, impossibili. Oggi di tutto quel lavoro resta un mediometraggio montato da Jess Franco, che solo in una minima parte rende giustizia alla genialità di Welles. Da quello che si evince si trattava di un film fortemente sperimentale – come quello di Toby (ammicco ammicco!) – nelle intenzioni, un’opera con una forte connotazione metacinematografica – come l’opera di Gilliam – e con gli unici quattro attori lasciati completamente liberi di improvvisare.

Fortuna per tutti che la maledizione sia finita per L’uomo che uccise Don Chisciotte e che possiamo dire «Quixote vive». D’altronde, si sa, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi e così mi sembra giusto che la mente ingegnosa di Terry Gilliam abbia partorito, come Bugs Bunny, 1001 modi per ingannare il diavolo, meglio di Parnassus. È la scelta del titolo a scatenare questa riflessione, molto più della trama, annodata come un tappeto persiano tra sogno e realtà.

Non “Don Chisciotte” e nemmeno “Don Chisciotte” con un sottotitolo tipo “un’avventura ai confini del sogno” o “la maledizione del tristo cavaliere”… bensì L’uomo che uccise Don Chisciotte.

Ok, “Don Chisciotte” c’è, ma non puoi certo esimerti dal citarlo, sarebbe finezza d’altri tempi e poi il suo nome è una condensazione di immagini, un cluster che rappresenta più concetti per antonomasia.

Don Chisciotte è affetto da una sorta di sindrome di Stendhal: legge i classici nel Seicento e questo vuol dire che s’immedesima in personaggi epici che sono eroi dalle scintillanti armature che viaggiano nel mondo per renderlo migliore, lottando contro il Male, armati soprattutto di virtù cavalleresche che sono poi andate perse nel tempo con il progresso tecnologico. Don Chisciotte ne raccoglie l’eredità, fa suoi quei valori, li incarna, ma ostinandosi a portarli avanti in un mondo che non li riconosce più. Così diventa il diverso che non è omologato e che rifiuta di esserlo. Lo rifiuta a tal punto da aderire ad un mondo di fantasia che diviene la sua personale evasione. La condizione è talmente radicata in lui da non riuscire più nemmeno a separare ciò che è reale da ciò che è mera illusione. Perciò non è pazzo di per sé ma abbraccia la follia poiché è l’unica “realtà” in cui riconosce se stesso, in cui ama se stesso, e nel film di Gilliam questo concetto è strettamente legato a quello di eredità. È come se Don Chisciotte volesse insegnare a vivere a chi è intorno a lui scegliendo un destino tanto epico nella teoria quanto sfortuna nella pratica, piuttosto che morire dentro senza far nulla mentre la vita scorre secondo omologazione di un modello diffuso. La morte è, quindi, considerata parte del percorso intrapreso, la fine di un’avventura personale che potrebbe sancire l’inizio di un’altra storia per chi eredita quella “fortuna”.

Ma il vero enigma che rimane da risolvere è chi sia L’uomo che uccise Don Chisciotte – e probabilmente è anche giusto che il mistero rimanga tale per non lasciare la sfinge senza enigmi. Ma proviamo comunque a formulare qualche congettura dato che non genera nessuno spoiler. Il titolo del film è usato nella maniera ermetica di Ungaretti come un verso in più, per aggiungere significato al resto e moltiplicare le chiavi di lettura.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Dalla tematica del cinema in quanto macchina delle illusioni potremmo essere portati a pensare che sia stato quel “maledetto” film su Don Chisciotte ad “uccidere” l’identità del calzolaio Javier che è rimasto imprigionato nella parte e poi la passione e spontaneità del regista sperimentale Toby per mano della sua copia meschina ed egoista creata dal successo. Le promesse non mantenute, i desideri non esauditi, però, significherebbero una critica estremamente negativa del cinema prima che dello show biz, non certo nuova per Gilliam. Un messaggio non tanto diverso da quello de L’uomo delle stelle di Giuseppe Tornatore. Di nuovo “l’uomo” nel titolo, quasi a voler sottolineare la fallacità umana, a voler attribuire ai comportamenti delle persone le magagne di un’industria cinematografica che sappiamo benissimo quanto sappia investire sul personaggio che rappresenta la moda del momento e non accordare finanziamenti per un progetto culturalmente di interesse nazionale e internazionale come L’uomo che uccise Don Chisciotte.

Chi altro può aver ucciso Don Chisciotte? È possibile si tratti dell’uomo in generale. L’uomo moderno ha ucciso l’hidalgo di Cervantes dal momento che ha abbandonato i valori che lui amava. L’uomo postmoderno, come potrebbe essere Toby insieme al suo entourage, potrebbe aver ucciso l’opera dimenticandone la lezione di vita e preferendo l’ambizione di gloria, fama e ricchezze.

Il gitano viene chiamato “Diaz ex machina” negli end credits per alludere alla sua funzione

Oggi sono in tanti a riscoprire questo classico della letteratura e a proporne delle interpretazioni o a citarlo senza travisarne il messaggio. Dopo Gilliam, anche Galder Gaztelu-Urrutia ha voluto sfruttarne gli insegnamenti per caratterizzare il protagonista del suo Il buco. Se per la produzione spagnola si tratta di un parallelismo metaforico che risulta più politico-sociale, nel visionario Monty Python è la riflessione sulla condizione umana – sul senso della vita! – in tono poetico con spunti riguardanti il retaggio per i posteri, la sottile linea tratteggiata che separa il sogno dalla realtà e la “follia” dall’omologazione travestita da “normalità”, ma soprattutto su cosa si possa o si debba considerare leggendario. Il significato di questo usatissimo gerundio latino, leggenda, è “le cose che sono da leggere”, degne di essere lette. E chi lo decide cosa è degno di entrare nella leggenda? Ormai troppo spesso questo compito è affidato alla moda o all’eccentricità piuttosto che all’esemplarità di pensiero e azione. Se anche voi confrontate con disprezzo i cartoni animati di oggi, privi di messaggi e valori, con quelli degli anni ‘70/’80, forse fin troppo da adulti a volte, allora sapete quanto possa essere attuale il nucleo tematico del Don Chisciotte e quanto sia geniale Gilliam ad averlo attualizzato in una critica allo show business.

E ad incaponirsi a finirlo ne aveva ben donde!

«Penso che il problema di Don Chisciotte sia che quando ti appassioni a questo personaggio e a quello che rappresenta, diventi tu stesso Don Chisciotte. Ti muovi nella follia, determinato a trasformare la realtà nel modo in cui la immagini. Ma che, ovviamente, si rivela molto diversa.»

Terry Gilliam
L’uomo che uccise Don Chisciotte

Infine, un fanatico di cinema classico potrebbe riconoscere una certa assonanza di titoli con uno dei migliori film di John Ford: L’uomo che uccise Liberty Valance. Un western più che crepuscolare dove un John Wayne in grande spolvero interpreta un cowboy solitario che lascia in eredità un west da rivoluzionare all’avvocato James Stewart. Costui non è di certo un pistolero provetto, ma di sicuro ha le qualità per essere un “cavaliere senza macchia e senza paura”, una figura positiva molto più utile per un nuovo mondo in cui sono la legge e l’inchiostro non il piombo dei proiettili a compiere imprese eroiche. Come il Don Chisciotte di Cervantes e di Terry Gilliam il personaggio interpretato magistralmente da John Wayne risulta fuori luogo e fuori (dal) tempo in un’epoca di innovazione politica e sociale. Come Don Chisciotte rimane un nostalgico amante dei bei tempi andati e quando i tempi cambiano in nome del progresso o ci si eclissa con loro in silenzio e solitudine o si può lasciar spazio al giovane lasciandogli in eredità un messaggio indimenticabile, immortale come una leggenda che sa andare al di là di ogni menzogna, oltre ogni illusione, verso un orizzonte che è al tramonto per qualcuno e all’alba per chi verrà dopo.

Come ne L’uomo che uccise Don Chisciotte e in Cervantes, nel metawestern di Ford svelare la menzogna non comporta di rendere pubblica la verità, che resta il fardello di un eroe incompreso per sempre.

«Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda».

L’uomo che uccise Don Chisciotte

In una realtà senza paladini, l’eroe appartiene al mondo dei sogni, non può che venire dal paese di Los Sueños e lì tornare, come un eterno Peter Pan in una Neverland dove si può essere indifferentemente bambini sperduti o leggende viventi: tutto dipende da quanto si è giovani dentro, da quanto si riesce ancora a sognare ed essere felici, di ciò che si ha e di ciò che si è.

Anche le mie parole non rimarranno immortali, per quanto lette, rilette, amate, odiate, capite ma non comprese; ve ne dimenticherete perché così è la vita, non ve ne dovete rammaricare se non me ne rammarico io. Ma se c’è un piccolo granello di sabbia splendente che vi rimane nel cuore, è proprio per quel momento di evasione che vi si è offerto. Un pensiero felice e puoi volare.

Grazie, Terry!

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Warcraft – L’inizio, di Duncan Jones

«Nessuno può contrastare le tenebre da solo».

Warcraft è una saga fantasy creata dalla Blizzard Entertainment e iniziata con la pubblicazione del primo videogioco strategico in tempo reale Warcraft: Orcs & Humans, datato 1993. Progettato nella speranza di venderne un milione di copie, il gioco è arrivato a 15 milioni ed è diventato un prodotto talmente trionfale che è diventato un tie-in di proporzioni colossali: oltre ad una serie potenzialmente infinita di videogiochi, sono stati prodotti romanzi, manga, fumetti nonché giochi da tavolo e di carte e ogni sorta di materiale collezionabile. Inoltre, come accaduto per altre saghe di successo planetario quali Star Wars o i supereroi Marvel e DC, l’ambientazione creata per l’occasione assurge ad essere chiamata Warcraft Universe.

Un universo fantasy popolato da creature di ispirazione tolkieniana – incantatori, re giusti e saggi, stregoni malvagi, orchi, elfi, nani – ma anche da mostri tratti direttamente dai bestiari popolari – golem di argilla, grifoni, warg, maelstrom, entità arcane che vivono in torri altissime, chimere, ippogrifi, titani – frutti di antiche leggende, contaminate dalle culture delle varie etnie affrontate in battaglia nel corso di millenni e dalla creatività dei bardi, che giravano il mondo ognuno con le proprie chansons de geste di personaggi stratificati dall’incontrollabile tradizione orale. Storie avvincenti che ricordano in parte anche il ciclo bretone, con un re giusto e lungimirante come Artù, un asso della guerra come Lancillotto e un mago potente al servizio della corona come Merlino. Il protagonista, Lothar, oltre ad una combattività senza pari, può vantare una forte componente strategica, un’evidente facilità di ragionamento e sangue freddo in situazioni complicate e veloci, che lo accomunano all’Ulisse omerico. Forse, un giorno, le generazioni future studieranno come esempi di epica cavalleresca, alla stregua de «le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese» di cui narra Ludovico Ariosto.

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Warcraft – L’inizio, il film di Duncan Jones [Moon, Souce code], figlio di David Bowie, è l’adattamento cinematografico di Warcraft: Orcs & Humans, videogioco del 1994, il primo della saga di Warcraft. Le vicende trattate coincidono con il periodo della Prima Guerra e si svilupperanno nel bel mezzo della linea temporale del Warcraft Universe che è in continua evoluzione verso una direzione qualsiasi, basti pensare che il 30 agosto ci sarà la fila per il nuovo gioco World of Warcraft: Legion. Ma torniamo al film.

Draenor, il pianeta degli orchi, sta morendo e lo stregone Gul’dan [Daniel Wu], unisce i clan degli orchi in una temibile Orda, con la promessa di guidarli in un nuovo mondo, popolato da umani: Azeroth. Attraverso un portale magico che mette in comunicazione mondi paralleli, una brigata di guerrieri scelti segue Gul’dan in avanscoperta, per catturare quanti più nemici possibile e nutrire così il Vil, la magia che attiva il portale, una magia che Gul’dan padroneggia per produrre vita ed energia a suo piacimento, ma che, allo stesso tempo esige un orrendo tributo: altre vite, rendendo malvagio il postulato del chimico Lavoiser, alla base della legge della conservazione della massa: “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.

Il pacifico regno di Azeroth è costretto, quindi, ad affrontare gli invasori. Alle prime notizie di attacchi, sir Anduin Lothar [Travis Fimmel], comandante militare del regno di Roccavento, un giovane e curioso mago di nome Khadgar [Ben Schnetzer] e il re di Roccavento Llane Wrynn [Dominic Cooper] consultano Medivh [Ben Foster], il leggendario Guardiano, ma la situazione diventa presto molto più intricata di una semplice battaglia tra imboscate, strategie, tradimenti, indagini parallele, incantesimi e personaggi che tramano nell’ombra.

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Memorabili i personaggi di Durotan [Toby Kebbell], Draka [Anna Galvin] e Orgrim Martelfato [Rob Kazinsky], orchi del Clan dei Lupi Bianchi, unici oppositori interni alla tirannia di Gul’dan. Si aggregheranno all’Alleanza che difende Azeroth o soccomberanno al potere del Vil?

Nella schiera degli orchi si fa notare, poi, Paula Patton, bellissima nei panni della mezza orchessa Garona, la “maledetta”, destinata a non essere accettata perfettamente né dall’una né dall’altra parte, come tutti i mezzosangue… o forse ci sarà un giorno del tenero con il valoroso Lothar? E poi, chi sopravvivrà? A chi apparterrà il pianeta alla fine delle guerre?

«Dalla luce viene la tenebra e dalla tenebra viene la luce».

123 giorni di riprese, interamente girato con le Arri Alexa XT Plus con tanto di lenti Leica Summilux-C ed esportato in formato ARRIRAW da 3.4K per una lavorazione ottimale degli effetti speciali e del 3D, Warcraft è distribuito nelle sale con un’aspect ratio spettacolare secondo il rapporto 2.35 : 1. Cosa vuol dire? Se volete apprezzare appieno degli stupefacenti effetti visivi della celebre Industrial Light & Magic, presenti in più di mille inquadrature, con motion capture e integrazioni digitali fornite dalla stessa Blizzard Entertainment, scegliete un cinema dotato di occhialetti con sensore e non quelli usa e getta!

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Mentre l’eroe di turno vola su un grifone una meravigliosa CGI si sbizzarrisce nel mostrarci un panorama che sembra uscito dalle opere di Fenghua Zhong. Un territorio simile a quello ameno della Contea degli hobbit con architetture cittadine e regali che richiamano l’immaginario medievale di Camelot o, se si vuole, gli scenari del tanto amato Game of thrones, con rimandi palesi alle culture orientali: il luogo del concilio dei sei maghi, il Kirin Tor, assomiglia tantissimo nel nome e nelle sembianze alla Karin Tower del manga Dragonball e, conoscendo il disegnatore Akira Toriyama, non può che trattarsi un rimando ad una qualche leggenda storpiata per l’occasione in un farsesco Karin-Tō” (カリン塔), un gioco di parole per indicare dei popolari dolci al sesamo chiamati Karintō (花林糖).

La pellicola, inizialmente programmata per il 18 dicembre 2015, è stata posticipata per evitare la sovrapposizione di due universi con l’attesissima uscita di Star Wars: Il risveglio della Forza. Verrà distribuita nei cinema statunitensi a partire dal 10 giugno 2016, mentre, in Italia è nelle sale già dal 1 giugno 2016.

«Per Azeroth! Per l’Alleanza!».

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Marguerite e Julien – La leggenda degli amanti impossibili, di Valérie Donzelli

Marguerite [Anaïs Demoustier] e Julien de Ravalet [Jérémie Elkaim] si amano fin da bambini e, divenuti ragazzi il loro sentimento non si stabilizza su un registro affettivo familiare. Fratello e sorella non desiderano altro che stare l’uno accanto all’altro. Tutti si accorgono del rischio dell’incesto, così li separano più volte con matrimoni combinati o facendoli sorvegliare da governanti, che finiscono con il simpatizzare con i due amanti infelici. Ogni ostacolo diventa una prova da superare che rinnova il loro legame fino a renderlo indissolubile. L’avrà vinta la ragione o il sentimento?

«Che cosa siamo?
Qualcosa che non esiste
Allora va bene, non rischiamo niente se non esistiamo».

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Valérie Donzelli, al suo quarto lungometraggio, si sente pronta a riscrivere con il partner di lavoro e di vita, nonché attore protagonista, Jérémie Elkaim, la sceneggiatura che nel 1971 Jean Gruault aveva preparato per Francois Truffaut. Il progetto era stato abbandonato dal regista de I quattrocento colpi e, una qualsiasi persona sensata si sarebbe domandata a fondo il perché senza incaponirsi a voler portare a casa un risultato frutto di mille espedienti e compromessi che depauperano la storia e l’arte cinematografica, inasprendo il giudizio del pubblico, che rimane deluso di un prodotto che si prende troppo sul serio senza avere né una struttura solida né un’estetica tale da sopperire ai notevoli buchi di sceneggiatura e alle brusche cadute di stile.

Diversamente dai film precedenti, la Donzelli non presenta uno spaccato della sua vita, discutibilmente interessante, bensì l’adattamento di una storia vera (da qui in avanti c’è il rischio SPOILER): Julien e Marguerite de Ravalet, figli del signore di Tourlaville, vengono catturati, processati e condannati alla decapitazione per adulterio e incesto nel 1603. Primo escamotage: non volendo sbattersi per una costosa ricostruzione d’epoca, si tenta grossolanamente un’operazione simile a quella di Titus, senza essere Julie Taymor, senza inserire abbastanza “anacronismi” per propendere verso un’interpretazione surreale postmoderna, senza verve. Come afferma la stessa regista, si è cercato di «incarnare una leggenda… un film senza tempo, che non fosse legato ad un’era in particolare, radicato nel mondo delle favole, ma senza appartenergli completamente». Di nuovo un “senza”.

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La location principale è proprio il vero castello di Tourlaville, che comunica Seicento in ogni inquadratura mentre sullo schermo si alternano automobili, radio, elicotteri, microfoni e altoparlanti, e poi tableaux vivants e costumi ottocenteschi a fornire un continuo straniamento spaziale, temporale e narrativo, nell’intento di lasciare gli spettatori confusi sulla poltrona allo stesso modo in cui sono smarriti i due amanti nel bosco, così come nella vita. Questi due Hansel e Gretel vivono una favola dove, però, la morale non c’è. Di moralisti, invece, ce n’è quanti se ne vuole, ma si tratta di oppositori che si pentono e che si trasformano in aiutanti, comunque inetti.

La tragedia familiare è dietro l’angolo, rovescio della medaglia di questo amore maledetto, eppure chi segue le vicende degli amanti impossibili non teme per la loro sorte, non si affeziona a loro, né prende posizione, come era del resto l’intento registico. Il conflitto che porta avanti la narrazione non è insito nella coppia, nel loro rapporto che è e rimane indissolubile, bensì nell’altrui testa, nell’educazione sessuale ricevuta anche per questioni di patrimonio genetico di un eventuale erede. Così si pensava, forse, di sviluppare una tragedia senza avere motivazioni valide, una favola senza una morale più o meno celata dietro tipiche allegorie, una leggenda o un sogno senza un rimosso o una cornice abbastanza surreale e un adattamento di una storia vera togliendo concretezza grazie agli elementi stranianti.

Anche la recitazione non è né melodrammatica né minimalista, indecisa non incide, e nelle occasioni più importanti si sbotta a ridere involontariamente. Una tragedia come quella di Romeo e Giulietta diventa una mediocre farsa teatrale su palcoscenico parrocchiale.

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La perla è il secondo stratagemma: la storia è narrata da una giovane ragazza in un orfanotrofio femminile come storia della buonanotte per far addormentare bambine neanche adolescenti. A parte la scelta discutibile dell’argomento incestuoso per addormentarsi, ci si domanda come mai si sia scelto di dare una struttura che preannuncia una chiusura ad anello per poi tradirla con il terzo espediente narrativo: non avendo mai deciso se della sceneggiatura, che Truffaut, guarda un po’, non ha mai voluto realizzare, farne un film poetico o un film erotico, ecco che, dopo un pecoreccio amplesso nel bosco tra i due amanti, mentre tempus fugit e sono braccati da un intero esercito di guardie, manco fossero dei terroristi, giunge la conclusione tragica con risvolti comici e un epilogo con poesia di Walt Whitman, recitata dalla voce di Marguerite sopra alcuni dettagli di elementi naturali giustapposti, in un montaggio che dovrebbe sostenere emotivamente le parole finalmente di unione indissolubile dei due: «Ora siamo qui… siamo corteccia… siamo rocce…». Questa trovata altro non è se non l’ennesima scappatoia per non dover rappresentare graficamente le ultime parole della sceneggiatura originale, cioè un dantesco «Spiriti volate via…». Sebbene non vi sia negli annali alcuna documentazione circa eventuali apparizione da fantasmi dei due amanti maledetti, in seguito a questa grossolana trasposizione cinematografica della loro vera triste sorte, non è escluso che ora abbiano davvero qualche conto in sospeso con qualcuno.

Con i “senza” come si può costruire qualcosa di buono?

Pelè, di Jeff e Michael Zimbalist

«Vincerò io un campionato del mondo. Te lo prometto!»

Esaltante. Spettacolare. Pelè riconcilia con il gioco del calcio. È l’antidoto a qualsiasi veleno di campionati e coppe, di scandali e irregolarità che vi abbia allontanato dallo sport più diffuso al mondo.

Una straordinaria storia che strappa applausi a scena aperta.

Un bambino, soprannominato Dico da amici e familiari, gioca divinamente a calcio utilizzando una tecnica particolare, la ginga, diretta evoluzione del movimento base della capoeira, l’arte marziale brasiliana tramandata in gran segreto dagli schiavi africani deportati nelle colonie americane dagli europei.

Cresciuto nel povero villaggio di Bauru, in una famiglia costretta ai lavori più umilianti per mantenersi. Dico studia e fa il lustrascarpe all’età di 9 anni [Leonardo Lima Carvalho], ma quando il Brasile viene sconfitto nel 1950, una tenace determinazione lo spinge a promettere di vincere un giorno i mondiali per il padre [Seu Jorge che, in Le avventure acquatiche di Steve Zissou interpretava curiosamente il personaggio di Pelè dos Santos], ex giocatore, conosciuto come Dondinho, che ha visto i suoi sogni di gloria svanire per un irrisolvibile infortunio al ginocchio, e per un’intera nazione, che spera nella rivalsa contro quello che le nazionali europee rappresentano: la lunga e avvilente schiavitù.

«Dai retta a tua madre ed evita il calcio come la peste!»

Ostacolato inizialmente dal pragmatismo della madre e dalla disillusione del padre, Dico deve trovare ogni volta il modo di farsi valere, di aggirare ostacoli o di saltarli in dribbling, per trasformare le antiche lacrime, di tristezza, nel 1950, e di vergogna, nel 1954, della sua gente in lacrime di gioia e ammirazione per colui che ha permesso ad una nazione di rialzare la testa e sperare, ad una squadra di “freak”, come la definiva l’allenatore della Svezia nel 1958, di mostrare al mondo intero che si poteva giocare, divertirsi, competere e vincere allo stesso tempo. Una squadra leggendaria che ha avuto il suo trascinatore in un ragazzo di 17 anni [Kevin de Paula], «il più giovane giocatore che abbia mai partecipato ai campionati del mondo di calcio».

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Il Time ha inserito Edson Arantes do Nascimento, per sempre ricordato come Pelè, fra le 100 icone del secolo, anche per il suo stile, dentro e fuori dal campo di gioco. Il più grande calciatore del secolo, Pallone d’Oro onorario e del secolo, membro della Soccer Hall of Fame, è celebrato in maniera epica e spettacolare dai fratelli Zimbalist, sceneggiatori, registi e montatori, già acclamati dalla critica per un altro biopic, The two Escobars, incentrato sul rapporto di interconnessione ma non di parentela tra il più potente boss della droga del cartello di Medellin e lo sfortunato calciatore colombiano. Di nuovo la vita dei più bassi strati sociali che si intreccia con il calcio fra trame nell’ombra e luci della ribalta.

L’incipit è affidato ad immagini di repertorio commentate da cronisti dell’epoca o da voci di giornalisti sportivi ben riconoscibili, come quella del nostro Bruno Pizzul. Pochi minuti e si entra subito nel fantastico mondo della ginga e del piccolo Dico che gioca con i suoi coetanei fra i vicoli poverissimi di Bauru al grido: «Passaggi al volo! Niente rimbalzi!» generando una sequenza altamente spettacolare e divertente che non ha nulla da invidiare alle costosissime pubblicità della Nike.

Stupendamente recitato da attori intensamente espressivi che riescono a trasmettere l’esasperazione, le umiliazioni, la determinazione che è alla base della nascita di uno dei più grandi campioni di tutti i tempi. Fondamentale il rapporto con il padre che diventa in segreto il suo primo mentore («Devi divertirti, Dico. Tutto il resto verrà da sè»), prima di essere affidato all’autorevole osservatore del Santos, un anziano Waldemar de Brito che sembra il vero ideatore della frase del maestro Yoda in Star Wars: «La ginga è molto forte in te, Dico». Sorprendenti, poi, i due giovanissimi talenti, Leonardo Lima Carvalho e Kevin de Paula, alla loro prima interpretazione. Curioso il caso della scoperta di de Paula: quando ormai nessuno sperava più di trovare un ragazzo di circa 17 anni, che somigliasse al re del calcio, che avesse una buona tecnica calcistica e che parlasse inglese, ecco spuntare sullo sfondo di un video di ragazzi che giocavano sulla spiaggia un vero talento del pallone, con una somiglianza incredibile con Pelé. Quando il destino ti piazza nel posto giusto al momento giusto…

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«Se vuoi diventare un calciatore professionista non ti devi mai vergognare di chi sei»

La fotografia, dai toni scuri e dai colori desaturati, catturati da una RED Epic Dragon, unita ad una coinvolgente colonna sonora dai toni monumentali, contribuisce a fornire epicità alla storia di un ragazzo che non aveva niente ma che era già qualcuno dentro di sé e che è riuscito a cambiare la sua sorte iniziale in un trionfo in tutti i campi. I fratelli Zimbalist celebrano una leggenda, proponendo una sceneggiatura avvincente, intensa ed esaltante, unendo epos e pathos, e donando agli ammiratori di Pelé un nuovo film da imparare a memoria. Lo stesso era successo per l’intramontabile Fuga per la vittoria, liberamente ispirato alla “Partita della morte” tenutasi a Kiev il 9 agosto 1942 tra una mista di calciatori di Dynamo e Lokomotiv e una squadra composta da ufficiali dell’aviazione tedesca Luftwaffe e che ha fatto epoca con la rovesciata al rallenty, rivista un’infinità di volte, e le giocate funamboliche di Fernandez [Pelè] e battute come «a Trinidad, per la strada, lo facevo con le arance». In questo film al posto delle arance, un più probabile mango.

Tra gli altri interpreti Vincent D’Onofrio [Full metal jacket] è il mister Feola, Diego Boneta [Rock of ages] è il rivale/amico Josè Altafini e Colm Meaney [The van, Con Air]. A produrre la pellicola Brian Grazer, premio Oscar per A beautiful mind, e lo stesso Pelé, che regala ai fan un cameo durante la sequenze di passaggi acrobatici dentro l’albergo svedese che ospitava il Brasile.

Il film, pianificato per la FIFA World Cup 2014 in Brasile, sarà al cinema in tempo per gli appuntamenti di spicco del calcio estivo, tra finali di coppa e i prestigiosi tornei internazionali del 2016: gli europei di Francia e la Copa América Centenario che si svolgerà negli USA, sotto lo sguardo fiero della leggenda, Pelè.

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«La ginga, in brasiliano, è l’ arte del movimento. è ciò che ci ispira ogni qual volta dobbiamo muoverci in modo creativo, la musica ha ginga e tutto ciò che ha a che fare con la musica ha a che fare con ginga. Non è solo questione di musica. Ginga è l’arte del movimento anche quando gioco a calcio. Nel calcio è il dribbling, è il cambio di velocità, è ciò che creo per confondere l’ avversario. Tutti noi abbiamo uno stile diverso nel ballare, uno stile che cambiamo nel corso del tempo sviluppando la nostra ginga. E così succede anche nel calcio. Musica e calcio. Ma dirò di più. Forse ogni dribbling ha una sua ginga particolare, diversa dalle altre, irripetibile. Dipende dal momento. Tutto questo è molto istintivo. Non bisogna pensare che prediligo una bella giocata o un movimento spettacolare a qualcosa di efficace. Voglio sempre dare il meglio. Per vincere con la mia squadra». – Ronaldinho.

Creed di Ryan Coogler

Epico. Monumentale. Eppure al passo coi tempi. La leggenda di Rocky continua per altre strade vincendo contro il suo nemico più forte: il tempo, che ha piegato il fisico del personaggio ma non la sua morale, la sua tenacia, quel suo modo di essere vero. Grazie alla freschezza di un sognatore determinato, in cui rivede se stesso, Rocky e il suo stesso interprete si convincono a riprendere quello che era stato dichiarato concluso, per farne qualcosa di nuovo con un retrògusto che sa di classico senza tempo.

Ryan Coogler, al suo secondo lungometraggio dopo il premiatissimo Prossima fermata Fruitvale Station, ha piazzato un bel “colpo d’incontro”, e con lui anche Sylvester Stallone che, impegnato, questa volta, solo come attore, e non come sceneggiatore e regista, può seriamente puntare ad ottenere il riconoscimento principe come non protagonista.

«Un passo alla volta. Un pugno alla volta. Una ripresa alla volta.»

Adonis Johnson [Michael B. Jordan] non ha mai conosciuto suo padre, Apollo Creed, e la madre è morta che ancora era piccolo. Adottato dalla vedova Creed, esce dal riformatorio e finalmente ottiene tutto dalla vita, ma successo, carriera e ricchezza non riescono a colmare un vuoto. Il desiderio di conoscenza di sé, di comprendere la figura paterna e conoscere lo sport per cui Apollo è morto ma anche la passione per cui ha vissuto, lo spingono verso la boxe. Dalla villa extralusso di Los Angeles inizia un viaggio dell’eroe che è un mettersi alla prova fisicamente ma anche e soprattutto un percorso emozionale e un’esplorazione interiore e dei rapporti con gli altri. Avrà davvero le carte in regola per farsi un nome tutto suo? chi crederà in lui? E lui stesso riuscirà ad acquistare abbastanza fiducia nelle proprie capacità? Presto si troverà a Philadelphia, dove c’è una “vecchia roccia” con cui suo padre ha combattuto e che ha anche allenato, un rivale e un amico. Quel nome che significa “credo, convinzione” e che rappresenta per tutti il retaggio di un grande campione, può essere una benedizione, se sarà capace di convincere e convincersi, ma se sbaglierà sarà un peso che lo schiaccerà più di una sconfitta.

Un viaggio dell’eroe che passa attraverso una solida scrittura archetipica, il cui fulcro è il rapporto che s’instaura tra Adonis e Rocky. Che sia il mentore, la sostituzione della figura paterna, o lo “zio”, come lo chiama “Donnie”, il personaggio di Stallone, in Creed, ha un tragitto anch’esso eroico, che parte da un rifiuto dell’avventura. La tenacia del ragazzo, ribaltando i ruoli, vince questo diniego, allenando la “vecchia roccia” a seguire di nuovo il suo istinto di guerriero, sotto una nuova luce di speranza, la luce di una nuova stella, figlia del dio del sole greco.

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Secondo quella che può essere una chiave di lettura allegorica, dettata dalla massiccia presenza di elementi che rimandano alla mitologia, si può azzardare una sinossi, che rivela quanto sia estremamente curata la sceneggiatura in ogni sua parte. Adonis – una sorta di semidio, in pratica – brama di arrivare al posto del padre, tra gli dei, ma viene scacciato dall’Olimpo. Si affida allora ad un mentore, quell’eroe che più umano non si può, colui che già in passato aveva sfidato gli dei, riuscendo dove gli stessi dei avevano in passato fallito, vincendo con la determinazione, con il sudore, con il sangue e con il sacrificio. Riuscirà a fare del ragazzo un guerriero capace di affrontare qualsiasi avversario e portare a testa alta il nome di suo padre? Adonis, simbolo della natura fiorente che splende dopo ogni gelido inverno, della bellezza giovanile, del desiderio di conquista e del rinnovamento a partire dalla morte, riuscirà a coronare con l’alloro della vittoria la sua ardua impresa?

«Un passo alla volta. Un pugno alla volta. Una ripresa alla volta

L’accostamento alla mitologia greca è un elemento che sottolinea l’epicità dei gesti dei personaggi, ben al di là dei nomi che portano. La Delphi Boxing Academy è una tappa fondamentale per il futuro di Adonis, come era un passaggio fondamentale nell’antichità andare a chiedere il responso del famoso oracolo che non a caso è legato all’esortazione “conosci te stesso”. Nella palestra che fu di Apollo Creed, quasi a voler sottolineare il conflitto tra un figlio illegittimo rimasto troppo presto solo ed il padre che non ha potuto conoscere, si rifiutano di allenare Adonis, ma è proprio questo nuovo abbandono, questa solitudine a diventare il motore che spinge verso un’altra anima solitaria, che sia mentore di vita prima ancora che di boxe, verso la realizzazione di un sogno che colmi quel vuoto: capire chi è Adonis Creed.

E poco importa se, per raggiungere i sogni, si devono affrontare dei danni collaterali. Ogni personaggio che incontra sembra invitarlo ad andare fino in fondo senza esitare, trovando la forza per rialzarsi dopo ogni pugno, come ha fatto il padre fino all’ultimo, come fa la fidanzata cantante affetta da perdita progressiva dell’udito, e lui capisce la lezione e sprona a sua volta Rocky a lottare contro il cancro che ormai era rassegnato a non curare. «Fare quello che amo fino alla fine» diventa il proposito di ognuno e, come in una famiglia moderna allargata, quando è Adonis a perdere fiducia, è il vecchio pugile, cresciuto nei sobborghi di Philadelphia, come Stallone stesso, a sorreggerlo e farlo uscire dalle corde in cui la vita lo aveva costretto.

«So come ti senti. Ti senti abbandonato e in guerra con il mondo. Senti il peso della sua ombra

Ed è proprio dall’ombra che emerge la luce e risplende una fotografia monumentale che accompagna la narrazione e la spinge su un piano allegorico: la diversa esposizione, la profondità dei neri e le scelte cromatiche dominanti evidenziano il contrasto tra la luce delle palestre ufficiali piene di presunzioni e interessi e l’ombra della palestra di periferia, tra la polvere, la ruggine e il sudore di chi ha dovuto imparare presto cos’è davvero la vita. A suggellare questa ascesa dall’ombra un uso mirato del piano-sequenza, utilizzato per accompagnare Adonis sul ring, ad iniziare dall’incontro clandestino oltreconfine, girato senza stacchi dal riscaldamento nello spogliatoio fino al knock-out, per finire con la ripresa dell’entrata sul ring, grande prova coreografica di tutto il cast, tecnico e attoriale. Il passaggio dall’oscurità alla luce e la tortuosità del percorso della mdp ricordano che la strada del successo non è mai lineare e priva di ombre, che l’uomo è faber fortunae suae sempre e comunque e che la grandezza dell’eroe non è data dai titoli, non scaturisce dalla vittoria fine a se stessa, ma è il risultato di un’avventura per conseguire obiettivi ben più grandi di una cintura da sfoggiare, qualcosa che trascende la stessa fatica fisica ed eleva il lavoro svolto dagli attori, dai creatori, oltre che dai personaggi, ad impresa straordinaria che merita il trionfo.

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Grande lavoro di costruzione del personaggio e della credibilità di pugile per Michael B. Jordan, che si è sobbarcato un peso non indifferente andando a raccogliere il testimone da un personaggio-attore che è leggenda, aprendo prepotentemente la strada a nuovi scenari. Il confronto generazionale tra Apollo e Adonis ha il suo parallelismo proprio nel confronto tra Jordan e Stallone, il cui personaggio ha avuto addirittura l’onore di avere una statua nel cuore di Philadelphia: un Rocky trionfante, oggetto di culto per fan di ogni età che fanno la fila per scattarsi una foto insieme, come se fosse un personaggio realmente esistito. Un simile attaccamento si annovera per un altro pugile frutto della fantasia: nel 1970, in Giappone, dopo la morte di Rikishi, eterno rivale del protagonista del manga cult Ashita no Joe (famoso in Italia come Rocky Joe) e altrettanto amato dai lettori, fu organizzato un vero e proprio funerale, a cui parteciparono centinaia di persone.

Tante le autocitazioni della serie: oltre agli oggetti di casa Balboa, che rimandano ai precedenti film, una chicca che non può sfuggire ai fan: durante il primo allenamento con lo zio Rocky, Adonis indossa una maglia con la scritta “Why do I wanna fight? Because I can’t sing and dance…”, una linea di dialogo presa dal capostipite del franchise, quando Rocky è a pattinare sul ghiaccio con Adriana.

Per concludere, alcune curiosità: Creed è il primo film della serie ad essere distribuito da Warner Bros, a non portare, in quanto spin off, il nome Rocky nel titolo, ad avere un’aspect ratio monumentale da 2.35:1. Sylvester Stallone ha espressamente richiesto che Adonis avesse gli ormai tradizionali calzoncini a stelle e strisce indossati da Apollo Creed in Rocky (1976) e da Rocky in Rocky III (1982) e Rocky IV (1985) per sottolineare l’eredità incarnata dal nuovo campione. Curioso, inoltre, come, al momento della realizzazione del film, Stallone sia chiamato ad indossare i panni di allenatore alla stessa età, 69 anni, di Mickey [Burgess Meredith] nel primo capitolo della saga.

Un finale alternativo è stato girato e sarà presente nella versione home video.

«Un passo alla volta. Un pugno alla volta. Una ripresa alla volta