Loredana Scaramella

La dodicesima notte (o quel che volete), di Loredana Scaramella

Dodici notti e dodici giorni scanditi da un enorme quadrante umano in cui le lancette si rincorrono ansiose di compiere il proprio destino. Il palcoscenico delimita il tempo e l’esistenza dei personaggi, che in questo spazio ristretto vivono le loro storie, intrecciate a doppio filo le une con le altre, nonostante spazi enormi li dividano. Uno dopo l’altro ruotano intorno al quadrante di questo orologio delimitato da dodici sedie, così come dodici sono gli attori, che entrano in scena a turno, come negli orologi rinascimentali, raccontano il loro frammento di storia e poi tornano a girare insieme agli altri, in un moto che sembra infinito.

A dare avvio a questo giro del tempo è un naufragio, che porta sulle coste dell’Illiria due gemelli, Viola e Sebastiano, separati dalle onde e giunti in città in un tempo diverso. Viola, per difendere il suo onore in una terra sconosciuta, si traveste da uomo e inizia a lavorare come paggio per il duca Orsino, che smania d’amore per Olivia, una nobildonna devastata dal lutto per la morte del fratello e insensibile al suo corteggiamento ostinato. Sebastiano invece sviluppa un particolare affetto per il capitano Antonio, acerrimo nemico di Orsino. Il travestimento di Viola, sebbene pensato per salvarle la vita, la aggroviglia in una serie infinita di intrighi, perché si innamora di Orsino, ma non può confessargli il suo amore, e a sua volta Olivia si innamora di lei, o meglio della sua versione maschile, quando la raggiunge per portale i messaggi d’amore di Orsino.

Dodici notti è il tempo che è loro concesso per sciogliere la matassa di inganni in cui sono imbrigliati, svelare la loro vera natura e i loro sentimenti, ma altri personaggi, tra aiutanti e malevoli consiglieri, ruotano attorno al loro destino e concorrono a sconvolgerne i piani. Ma è proprio qui il gioco a cui ci chiama Shakespeare, il gioco dell’inganno che nasce dal travestimento e genera equivoci, confonde e dissimula, anche lo spettatore che sospende l’incredulità e si trova ad essere parte integrante di questo grande sogno in cui nulla è quello che sembra.

Loredana Scaramella conduce lo spettatore in questo viaggio straordinario, accompagnando i suoi passi con la musica, e riempiendo i suoi occhi con costumi steampunk che collocano il racconto in un tempo sospeso, irriconoscibile, più un tempo della mente che della realtà, ma scandito con tale cura da sembrare reale. La dodicesima notte (o quel che volete) è architettato come un sogno e per questo costretto in un tempo limitato, in cui gli eventi si accavallano senza tregua per giungere al sospirato finale prima del risveglio, ma proprio per questo il tempo della rappresentazione è ancora più prezioso e porta con sé un’aura di magia, pronta a dissolversi non appena si chiude il sipario.

Molto Rumore per Nulla, di Loredana Scaramella

Molto Rumore per Nulla è il dramma della parola, più affilata di una spada e più dolce del miele, tessitrice di inganni e soave incantatrice. Loredana Scaramella traduce e adatta la parola umoristica e tagliente di Shakespeare in una calda estate salentina e la fa esplodere con tutto vigore sul palcoscenico del del Globe Theatre.

L’eco dei tamburi di guerra risuona ancora nelle orecchie dei giovani reduci in cammino verso la quiete bucolica del focolare domestico, dove le donne, in fermento per il loro ritorno, volteggiano spensierate tra i panni freschi di bucato. La guerra degli uomini è finita. Ma ora, nell’inter-regno di pace che intervalla i combattimenti per dare ristoro ai soldati, un’altra guerra sta per avere inizio, quella dei sessi, che rivendicano il diritto di plasmare a loro piacimento le regole della società come uomini contemporanei. Il grembo della terra d’origine li attira con le lusinghe delle belle donne, la squisitezza del cibo e del vino, e la musica travolgente delle feste, ma allo stesso tempo li mette alla prova su un campo di battaglia più scivoloso del precedente, in cui vince solo chi ha la lingua più affilata e l’intelletto più arguto.

Beatrice, vergine bisbetica, e Benedetto, misogino burlone, sono i campioni dei due schieramenti, l’una abbarbicata al ruolo di maschio dominante, l’altro paralizzato nel cameratismo adolescenziale. La guerra della parola è annunciata. A colpi di battute di spirito, Beatrice atterra Benedetto stoccata  dopo stoccata, rivendicando con tutto il fiato che ha in gola la sua dignità di donna non accompagnata per scelta, orgogliosa della sua indipendenza e onorata all’idea di arrivare alla tomba vergine piuttosto che sposata controvoglia a un gentiluomo che non la eguaglia in arguzia. Con il suo atteggiamento schietto e vivace, Beatrice rappresenta la dona fool, che non teme di dire il vero e di scontrarsi con gli uomini ad armi pari, usando lo strumento più potente che possiede, ancora di più della sensualità ammaliatrice: la parola. E inaugura così un nuovo modello di donna guerriero, svincolata dagli obblighi sociali che fino a quell’epoca la vedevano relegata nella veste di moglie e madre, aprendo la strada alle eroine brillanti come la regina Elisabetta I, che non temono il peso del trono in un mondo dominato dagli uomini.

Spettacolo teatrale "Molto rumore per nulla"

La vivacità di Beatrice tuttavia non intimorisce Benedetto, che al contrario si sente a proprio agio a sostituire il corteggiamento classico con una battaglia all’ultima trovata di spirito, perché l’amore-odio con la ragazza gli ricorda il rapporto spassoso che ha con i compagni d’armi, e senza neanche accorgersene si trova preso all’amo gettato involontariamente da Beatrice. La parola riottosa usa l’ironia per fare ponte  tra il mondo maschile e quello femminile e stabilisce una tregua, se pur momentanea, tra i due schieramenti, obbligati a unire le forze per difendere il loro mondo idilliaco dalle calunnie e dai giochi di potere orditi da chi è tornato dalla guerra con l’odio nel cuore. La luce accecante è attraversata da una lama d’ombra.

Le musiche festose di una cultura popolare sospesa nel tempo, che hanno accompagnato l’epoca del corteggiamento e degli amori, lasciano lentamente spazio ai complotti, e i balli in maschera in cui gli innamorati si ricorrevano per sussurrarsi parole dolci senza mostrare il loro volto, si trasformano in danze macabre di maschere umane, disposte a mentire e a simulare pur di raggiungere i propri obiettivi. La musica non suona più e i colori si incupiscono di pari passo con gli animi dei personaggi, che tornano a combattersi in una guerra d’arguzia, stavolta  con un’arma più sottile della spada e più grossolane della parola: la mistificazione.

Il recitazione nella recitazione, ovvero il play within the play, è un elemento ricorrente in Shakespeare ed enormemente sfruttato dai personaggi per ordire tranelli o, al contrario, per risolvere le controversie in vista di un finale in cui trionfi la giustizia. Qui la “trappola per topi” è usata nel bene e nel male, dai buoni e dai cattivi, per portare gli eventi sulla strada giusta, e la parola si dimostra la protagonista assoluto delle scene improvvisate dai personaggi per uscire vincitori dalle situazioni più sgradevoli e intricate. Simulare l’amore suscita l’amore, simulare il tradimento suscita l’odio, e simulare la morte suscita il perdono, non c’è nessuno dei personaggi che non ne sia consapevole e che esiti ad usare la finzione per facilitarsi la vita lasciando intatto l’onore.

L’opera shakespeariana è vivida sul palcoscenico di Loredana Scaramella, così come i dialoghi tra i personaggi, adattati in una lingua contemporanea e palpabile, che si cuce alla perfezione sui corsetti e sulle spade senza creare discromie nelle sfumature semantiche tra le epoche. La guerra della parola è attuale e bruciante e supera, grazie all’universalità che gli appartiene, lo sbalzo temporale e spaziale che ci separa da Shakespeare, riproponendo sotto forma di dramma lo scontro tra i sessi che accomuna ogni tempo, perché insito nell’essere umano desideroso di far cadere la maschera e scendere dal palcoscenico su cui le convenzioni del mondo lo hanno relegato. Come la parola, anche la musica tradizionale salentina si fa universale, e si pone come ponte invisibile tra le culture aspirando, se non alla pace, almeno alla tregua, dalla guerra in un idillio bucolico fuori dal tempo.