Lupin III

Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti

«… cioè… un supereroe con le scarpe di camoscio non s’è mai visto!»

Quando pensiamo ai supereroi, al loro ambiente naturale, non ci verrebbe in mente mai Roma, o meglio penseremmo per prima ad una metropoli americana, reale o verosimile che sia, o al massimo, i più geek tra noi, potrebbero pensare a Hong Kong, Tokyo o qualche altra città dotata di grattacieli da buttare giù, folle urlanti di terrore al cospetto del villain di turno, oceani immensi in cui immergere giganteschi robot. Figurarsi se un produttore italiano poteva credere in un progetto così intelligente, che supera le “barriere architettoniche” di una città monumentale come Roma e le rende plausibile ambientazione di una storia fichissima. Gabriele Mainetti non fa un azzardo, semplicemente crede nel suo progetto fantastico, in se stesso e soprattutto nelle possibilità infinite del cinema,  si auto produce e dimostra sul campo tutto il suo coraggio. Per rappresentare bene un supereroe, bisogna, in fondo, un po’ esserlo.

Tor Bella Monaca fa da sfondo alle vicende di Enzo Ceccotti [Claudio Santamaria], piccolo delinquente di borgata, che entra accidentalmente in contatto con una sostanza radioattiva. Data la sua esistenza, basata su espedienti, non passerà molto prima che scopra di aver acquisito dei superpoteri. Taciturno, solitario e chiuso in se stesso, Enzo sceglie la strada della superdelinquenza, solo gli obiettivi si fanno più facili da raggiungere. Alessia, vicina dissociata per via di un lutto, rivede nelle capacità di Enzo le caratteristiche positive del suo eroe-fissazione: Jeeg robot d’acciaio. Oltre lo strato di sporcizia e criminalità, oltre il rifiuto delle responsabilità derivate dai poteri, oltre il suo lato oscuro, più oscuro della melma che lo ha elevato al di sopra di ogni altro uomo, Enzo dovrà scegliere cosa essere: un paladino del Bene, un supercriminale o un cavaliere oscuro?

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Un superhero movie sui generis, pieno di azione e divertimento, che non sfigura di fronte ai suoi stessi modelli di riferimento, ma che sa essere romantico, nel senso originario della parola, commovente e profondo e, quindi, qualcosa di imparagonabile. Trapela una diffusa tenerezza dietro tanto fragore di lotta e macerie. Un trasporto nel narrare per immagini, che assomiglia a quello riscontrato già nei corti di Mainetti, Basette, del 2008 e Tiger boy, del 2012, in cui sradica un personaggio appartenente al contesto di animazione giapponese per innestarlo in un ambiente suburbano perché sia la scintilla che serve al protagonista per crescere e reagire ad una sorte avversa che non gli si addice. Allo stesso modo in Lo chiamavano Jeeg Robot la fragilità dei personaggi dovrà fare inesorabilmente i conti con un’invulnerabilità fortuita e la voglia o no di redenzione.

La coraggiosa operazione di Gabriele Mainetti e della sua Goon Films si basa su di un perfetto equilibrio tra la forza centrifuga, esercitata dagli elementi che il pubblico non appassionato di fumetti, anime e film di genere non può che considerare fuori dal suo contesto, e la forza centripeta dell’ambientazione romana, che riporta, invece, lo spettatore alla realtà, fornendo credibilità, concretezza, tangibilità, proprietà necessarie per partecipare emotivamente alle straordinarie vicende che si abbattono sui personaggi del film.

Dopo l’adrenalinico incipit in media res del protagonista, inseguito dalla polizia, per i vicoli del centro storico, fino al Lungotevere, si viene inesorabilmente rapiti nel crescendo emozionale di un preciso meccanismo cinematografico, senza fretta, proprio come il tema musicale principale che cresce d’intensità, di pari passo con la consapevolezza di Enzo.

«Poi organizziamo per il giorno delle tenebre, eh!»

La struttura narrativa è semplice, classica, ma non per questo banale. Una sceneggiatura magistrale, quella di Nicola Guaglianone e Menotti (anche fumettista), costruita su forti contrasti: Enzo alias Jeeg Robot, o Hiroshi, come lo chiama Alessia, e Fabio, lo “Zingaro”, sono contrapposti non solo sul campo di battaglia, ma anche per la filosofia di vita, che anche se è malavita, non è detto che debba essere senza onore. Quello che Enzo desidera per sé è passare inosservato e rimanere nell’ombra e nella sporcizia, dove è sempre stato, lontano dalle preoccupazioni, senza responsabilità, abituato a fare i conti solo con se stesso. Un outsider solitario e introverso. Tutto il contrario dello Zingaro che, protetto da un manipolo di subalterni senza diritti di opinione, vuole lasciare un segno della sua presenza nel mondo, fare “er botto”, mosso da una filosofia tutta sua, senza alcun valore, tendente all’effimero. In passato ha assaporato i suoi 15 minuti di notorietà partecipando al programma TV Buona Domenica e da allora ha sempre sperato che di nuovo i riflettori potessero illuminarlo. Di nuovo, come già notato per Creed, nell’anno de Il risveglio della forza, è dall’oscurità e dalla melma che emerge l’eroe mentre il cattivo viene rappresentato sempre alla luce del sole, come a voler dire che il Male oggi non si cela nell’ombra ma, ben visibile, si mostra senza essere riconosciuto come tale.

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Lo Zingaro che Luca Marinelli diventa sul grande schermo, è una sua personale rivisitazione del personaggio del Joker, mentalmente instabile, istrionico clown e spietato assassino, crudele e ironico. Le sue battute di spirito sono memorabili, specialmente nel duello verbale con Enzo.

«Ma se po’ sapè te chi cazzo sei? T’ha mozzicato un ragno? Un pipistrello? Sei cascato da n’artro pianeta?»

Anche la musica, scelta per caratterizzare i personaggi è studiata per sottolineare questo dualismo. Da una parte il tema musicale del personaggio di Enzo e la versione intima della sigla italiana della serie televisiva, cantata con sentimento dallo stesso Santamaria mentre scorrono i credits, dall’altra, in perfetto contraltare, il repertorio “da esibizione” dello Zingaro, costituito da alcune delle canzoni più popolari degli anni della messa in onda di Jeeg in Italia: del 1978 è Un’emozione da poco di Anna Oxa, tutte del 1982, invece, Latin lover di Gianna Nannini, Non sono una signora di Loredana Bertè e, infine, Ti stringerò di Nada, impiegata magistralmente per generare un efficace straniamento in una scena di ultraviolenza che richiama Arancia meccanica e Natural born killers.

All’astrazione della trama si contrappone, infine, la solidità degli elementi scenici, degli effetti meccanici e digitali, e la tangibilità della condizione sociale rappresentata, della fotografia che fornisce solennità ma non astrae. A questo, leggiadramente, concorrono gli espliciti elementi di significazione simbolica come il murales celebrativo di un’impresa di Enzo con la scritta xenofoba che insulta invece lo Zingaro, sempre per sottolineare visivamente il contrasto tra i due avversari, e gli elementi nascosti nel sottotesto, dove a diventare un concentrato di significati allegorici è un palloncino, emblema dell’infanzia e dell’innocenza già nel famosissimo cortometraggio Il palloncino rosso, Palma d’Oro nel 1956.

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Speriamo che il coraggio e la concretezza dimostrati da Mainetti siano d’esempio e d’orgoglio per il cinema italiano, fossilizzato in un loop di romanzi criminali e solite commedie che, alla fine, non ci portano, se non raramente, alle vette che meritiamo già solo per le ambientazioni naturali e cittadine, che il mondo intero ci invidia.

«Noi restiamo tutti con te…»