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Men, di Alex Garland

Un paesino lontano dal mondo, nel cuore della campagna inglese, può essere il luogo ideale dove trovare la pace e curare le proprie ferite interiori. Con questa speranza Harper (Jessie Buckley), dopo un lutto improvviso, lascia la metropoli per rifugiarsi laddove neanche i suoi incubi possono raggiungerla. Eppure non è così. 

Appena arriva nella sua nuova dimora percepisce una presenza che la osserva dal bosco circostante, che poco dopo si materializza in una creatura quasi ultraterrena, dalle forme mostruose, che tenta di penetrare nella sua casa. Questa presenza è solo la prima di molte altre che si alterneranno al suo uscio, tutte di sesso maschile, e tutte con dei tratti del volto quasi sovrapponibili.

Dopo l’uomo del bosco arriva in suo aiuto Geoffrey, il proprietario del cottage che ha affittato, che si mostra impacciato e un po’ indiscreto, anche se abbastanza gentile. Geoffrey sminuisce il pericolo e fa posto a Jimmy, un poliziotto presuntuoso, a cui segue Franklin, il proprietario del pub locale, una presenza taciturna e apparentemente innocua, che ha vissuto nel villaggio tutta la sua vita.

In questa giostra di uomini, il più pericoloso è sicuramente il vicario, che si avvicina ad Harper dopo averla sorpresa nella sua chiesa a sfogare il suo dolore e con la scusa di consolarla, inizia a gettarle addosso dubbi e sensi di colpa. Un incontro spiacevole che viene brutalmente interrotto da uno ancora più inquietante, con Samuel, un ragazzino di 9 anni che la insulta senza pietà e poi scappa via. 

Ultimo di una serie di incontri apparentemente sconnessi tra di loro, se non per l’aspetto dei personaggi, che sembrano (e in effetti lo sono) interpretati dallo stesso attore, e per l’intento manifesto di squarciare il velo di dolore in cui è chiusa Harper, mettere a nudo una sua eventuale responsabilità nel lutto che ha subito e portarla ad affrontare i suoi incubi peggiori a viso aperto.

Così il locus amoenus diventa teatro dell’orrore, dove paure, traumi e mostri del passato si danno appuntamento per entrare in scena uno dopo l’altro, senza sosta, come un crudele gioco di scatole cinesi che non vede mai la fine. Harper si ribella, tenta di svegliarsi dall’incubo, ma si accartoccia sempre più su se stessa, arrivando a confondere sonno e veglia, realtà e allucinazione.

Chi sono questi uomini e perché insediano la sua casa e la sua persona? Neanche la morte basta ad arrestarli, loro continuano a tornare come fantasmi impazziti, con l’unico intento di portare Harper alla follia, alla disperazione e forse alla fuga. Ma non c’è fuga dai noi mostri interiori, non ci sono porte chiuse o luoghi abbastanza sperduti da proteggerci. 

Il regista Alex Garland gioca con questi mostri, li scatena nella mente e nella casa di Harper, facendoli incrociare tra di loro fino a dare vita ad aberrazioni sempre più spaventose, senza forma e senza nome, fino a raggiungere il picco più oscuro dell’incubo, il luogo più profondo dell’anima, quello da cui non c’è ritorno.