Michael B. Jordan

Creed di Ryan Coogler

Epico. Monumentale. Eppure al passo coi tempi. La leggenda di Rocky continua per altre strade vincendo contro il suo nemico più forte: il tempo, che ha piegato il fisico del personaggio ma non la sua morale, la sua tenacia, quel suo modo di essere vero. Grazie alla freschezza di un sognatore determinato, in cui rivede se stesso, Rocky e il suo stesso interprete si convincono a riprendere quello che era stato dichiarato concluso, per farne qualcosa di nuovo con un retrògusto che sa di classico senza tempo.

Ryan Coogler, al suo secondo lungometraggio dopo il premiatissimo Prossima fermata Fruitvale Station, ha piazzato un bel “colpo d’incontro”, e con lui anche Sylvester Stallone che, impegnato, questa volta, solo come attore, e non come sceneggiatore e regista, può seriamente puntare ad ottenere il riconoscimento principe come non protagonista.

«Un passo alla volta. Un pugno alla volta. Una ripresa alla volta.»

Adonis Johnson [Michael B. Jordan] non ha mai conosciuto suo padre, Apollo Creed, e la madre è morta che ancora era piccolo. Adottato dalla vedova Creed, esce dal riformatorio e finalmente ottiene tutto dalla vita, ma successo, carriera e ricchezza non riescono a colmare un vuoto. Il desiderio di conoscenza di sé, di comprendere la figura paterna e conoscere lo sport per cui Apollo è morto ma anche la passione per cui ha vissuto, lo spingono verso la boxe. Dalla villa extralusso di Los Angeles inizia un viaggio dell’eroe che è un mettersi alla prova fisicamente ma anche e soprattutto un percorso emozionale e un’esplorazione interiore e dei rapporti con gli altri. Avrà davvero le carte in regola per farsi un nome tutto suo? chi crederà in lui? E lui stesso riuscirà ad acquistare abbastanza fiducia nelle proprie capacità? Presto si troverà a Philadelphia, dove c’è una “vecchia roccia” con cui suo padre ha combattuto e che ha anche allenato, un rivale e un amico. Quel nome che significa “credo, convinzione” e che rappresenta per tutti il retaggio di un grande campione, può essere una benedizione, se sarà capace di convincere e convincersi, ma se sbaglierà sarà un peso che lo schiaccerà più di una sconfitta.

Un viaggio dell’eroe che passa attraverso una solida scrittura archetipica, il cui fulcro è il rapporto che s’instaura tra Adonis e Rocky. Che sia il mentore, la sostituzione della figura paterna, o lo “zio”, come lo chiama “Donnie”, il personaggio di Stallone, in Creed, ha un tragitto anch’esso eroico, che parte da un rifiuto dell’avventura. La tenacia del ragazzo, ribaltando i ruoli, vince questo diniego, allenando la “vecchia roccia” a seguire di nuovo il suo istinto di guerriero, sotto una nuova luce di speranza, la luce di una nuova stella, figlia del dio del sole greco.

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Secondo quella che può essere una chiave di lettura allegorica, dettata dalla massiccia presenza di elementi che rimandano alla mitologia, si può azzardare una sinossi, che rivela quanto sia estremamente curata la sceneggiatura in ogni sua parte. Adonis – una sorta di semidio, in pratica – brama di arrivare al posto del padre, tra gli dei, ma viene scacciato dall’Olimpo. Si affida allora ad un mentore, quell’eroe che più umano non si può, colui che già in passato aveva sfidato gli dei, riuscendo dove gli stessi dei avevano in passato fallito, vincendo con la determinazione, con il sudore, con il sangue e con il sacrificio. Riuscirà a fare del ragazzo un guerriero capace di affrontare qualsiasi avversario e portare a testa alta il nome di suo padre? Adonis, simbolo della natura fiorente che splende dopo ogni gelido inverno, della bellezza giovanile, del desiderio di conquista e del rinnovamento a partire dalla morte, riuscirà a coronare con l’alloro della vittoria la sua ardua impresa?

«Un passo alla volta. Un pugno alla volta. Una ripresa alla volta

L’accostamento alla mitologia greca è un elemento che sottolinea l’epicità dei gesti dei personaggi, ben al di là dei nomi che portano. La Delphi Boxing Academy è una tappa fondamentale per il futuro di Adonis, come era un passaggio fondamentale nell’antichità andare a chiedere il responso del famoso oracolo che non a caso è legato all’esortazione “conosci te stesso”. Nella palestra che fu di Apollo Creed, quasi a voler sottolineare il conflitto tra un figlio illegittimo rimasto troppo presto solo ed il padre che non ha potuto conoscere, si rifiutano di allenare Adonis, ma è proprio questo nuovo abbandono, questa solitudine a diventare il motore che spinge verso un’altra anima solitaria, che sia mentore di vita prima ancora che di boxe, verso la realizzazione di un sogno che colmi quel vuoto: capire chi è Adonis Creed.

E poco importa se, per raggiungere i sogni, si devono affrontare dei danni collaterali. Ogni personaggio che incontra sembra invitarlo ad andare fino in fondo senza esitare, trovando la forza per rialzarsi dopo ogni pugno, come ha fatto il padre fino all’ultimo, come fa la fidanzata cantante affetta da perdita progressiva dell’udito, e lui capisce la lezione e sprona a sua volta Rocky a lottare contro il cancro che ormai era rassegnato a non curare. «Fare quello che amo fino alla fine» diventa il proposito di ognuno e, come in una famiglia moderna allargata, quando è Adonis a perdere fiducia, è il vecchio pugile, cresciuto nei sobborghi di Philadelphia, come Stallone stesso, a sorreggerlo e farlo uscire dalle corde in cui la vita lo aveva costretto.

«So come ti senti. Ti senti abbandonato e in guerra con il mondo. Senti il peso della sua ombra

Ed è proprio dall’ombra che emerge la luce e risplende una fotografia monumentale che accompagna la narrazione e la spinge su un piano allegorico: la diversa esposizione, la profondità dei neri e le scelte cromatiche dominanti evidenziano il contrasto tra la luce delle palestre ufficiali piene di presunzioni e interessi e l’ombra della palestra di periferia, tra la polvere, la ruggine e il sudore di chi ha dovuto imparare presto cos’è davvero la vita. A suggellare questa ascesa dall’ombra un uso mirato del piano-sequenza, utilizzato per accompagnare Adonis sul ring, ad iniziare dall’incontro clandestino oltreconfine, girato senza stacchi dal riscaldamento nello spogliatoio fino al knock-out, per finire con la ripresa dell’entrata sul ring, grande prova coreografica di tutto il cast, tecnico e attoriale. Il passaggio dall’oscurità alla luce e la tortuosità del percorso della mdp ricordano che la strada del successo non è mai lineare e priva di ombre, che l’uomo è faber fortunae suae sempre e comunque e che la grandezza dell’eroe non è data dai titoli, non scaturisce dalla vittoria fine a se stessa, ma è il risultato di un’avventura per conseguire obiettivi ben più grandi di una cintura da sfoggiare, qualcosa che trascende la stessa fatica fisica ed eleva il lavoro svolto dagli attori, dai creatori, oltre che dai personaggi, ad impresa straordinaria che merita il trionfo.

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Grande lavoro di costruzione del personaggio e della credibilità di pugile per Michael B. Jordan, che si è sobbarcato un peso non indifferente andando a raccogliere il testimone da un personaggio-attore che è leggenda, aprendo prepotentemente la strada a nuovi scenari. Il confronto generazionale tra Apollo e Adonis ha il suo parallelismo proprio nel confronto tra Jordan e Stallone, il cui personaggio ha avuto addirittura l’onore di avere una statua nel cuore di Philadelphia: un Rocky trionfante, oggetto di culto per fan di ogni età che fanno la fila per scattarsi una foto insieme, come se fosse un personaggio realmente esistito. Un simile attaccamento si annovera per un altro pugile frutto della fantasia: nel 1970, in Giappone, dopo la morte di Rikishi, eterno rivale del protagonista del manga cult Ashita no Joe (famoso in Italia come Rocky Joe) e altrettanto amato dai lettori, fu organizzato un vero e proprio funerale, a cui parteciparono centinaia di persone.

Tante le autocitazioni della serie: oltre agli oggetti di casa Balboa, che rimandano ai precedenti film, una chicca che non può sfuggire ai fan: durante il primo allenamento con lo zio Rocky, Adonis indossa una maglia con la scritta “Why do I wanna fight? Because I can’t sing and dance…”, una linea di dialogo presa dal capostipite del franchise, quando Rocky è a pattinare sul ghiaccio con Adriana.

Per concludere, alcune curiosità: Creed è il primo film della serie ad essere distribuito da Warner Bros, a non portare, in quanto spin off, il nome Rocky nel titolo, ad avere un’aspect ratio monumentale da 2.35:1. Sylvester Stallone ha espressamente richiesto che Adonis avesse gli ormai tradizionali calzoncini a stelle e strisce indossati da Apollo Creed in Rocky (1976) e da Rocky in Rocky III (1982) e Rocky IV (1985) per sottolineare l’eredità incarnata dal nuovo campione. Curioso, inoltre, come, al momento della realizzazione del film, Stallone sia chiamato ad indossare i panni di allenatore alla stessa età, 69 anni, di Mickey [Burgess Meredith] nel primo capitolo della saga.

Un finale alternativo è stato girato e sarà presente nella versione home video.

«Un passo alla volta. Un pugno alla volta. Una ripresa alla volta