Michael Moshonov

Maria Maddalena, di Garth Davis

La tradizione iconografica e storica ci ha tramandato l’immagine di Maria Maddalena come donna “penitente”, emblema di un umanità peccatrice che redime se stessa grazie alla misericordia divina. Senza dubbio però la figura di questa donna ha sempre esercitato un fascino particolare su artisti di ogni epoca e genere, e al di là della facile identificazione con il lato più umano – e più carnale – del Nuovo Testamento, la Maddalena risulta essere il fulcro di una serie di simbologie e misticismi che dai vangeli apocrifi arrivano fino alla versione di Dan Brown.
La pellicola di Garth Davis, nelle sale cinematografiche dal 15 marzo, si propone di restituire a un personaggio spesso oscurato e quasi sempre frainteso, lo spessore e la complessità che merita.

La vicenda prende avvio sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade, nel villaggio di pescatori chiamato Magdala, dove Maria, giovane donna, vive con la sua famiglia e possiede suo malgrado un carattere tenace non tollerato dalla società patriarcale e gerarchica dominante. Il conflitto con il nucleo familiare si esaspera quando la donna rifiuta di sottostare alla volontà paterna di darla in sposa a un uomo.
La figura di Maria è da subito associata a un certo simbolismo legato al femmineo: è nota nel villaggio per il dono innato di alleviare le sofferenze delle partorienti, ritornano di frequente le immagini della luna e soprattutto è costantemente presente l’elemento liquido. È nell’acqua che, come racconta lei stessa a Gesù, amava abbandonare il suo corpo da bambina per percepire la sensazione di un’anima immersa nella Fede, è con l’acqua che la famiglia cerca di esorcizzarla e di ammansirla ed è proprio dall’acqua che Gesù la fa risorgere a nuova vita tramite il Battesimo.
La tradizione evangelica viene dunque preservata ma sottoposta a rielaborazione laica: i sette demoni della Maddalena di cui parla il Nuovo Testamento altro non sarebbero che una forza di volontà inaccettabile per una donna dell’epoca, mentre l’incontro con Gesù, profeta e guaritore di passaggio nel suo villaggio, è salvifico ma non redime Maria da una vita dissoluta e peccaminosa, agisce piuttosto da riscatto rispetto a una vita che lei sente non appartenerle.


La sceneggiatura di Philippa Goslett e Helen Edmunson ripercorre l’ultimo arco temporale della vita di Gesù dal punto di vista narrativo di Maria, che diventa testimone degli episodi evangelici più rappresentativi: dalle guarigioni miracolose alla resurrezione di Lazzaro, dalla predicazione itinerante all’Ultima cena. Se la sua figura in un contesto inequivocabilmente maschile sembra quasi schiacciata, indifesa, trova tuttavia una dimensione propria in un dialogo privilegiato con Gesù e si ritaglia un ruolo determinante nella predicazione, la sua conversione diventa uno strumento per dare voce alle donne di Galilea. Farne una moderna paladina femminista sarebbe stato facile e scontato, il regista invece calibra sapientemente il suo ruolo femminile non perdendo mai di vista le insormontabili difficoltà che la accompagnano, come dimostra lo splendido dialogo con un’altra figura chiave della fede cristiana, la madre di Gesù: non c’è banale complicità nel breve scambio di battute tra le due Marie, emerge piuttosto una compassione reciproca di due donne consapevoli di amare un uomo fatalmente legato al suo ruolo e al suo destino.

Dall’entrata a Gerusalemme tutto scivola velocemente verso l’epilogo decisivo, i fatti non contano, o contano quanto basta per far emergere le emozioni coinvolte. Nessuna traccia dunque del processo a Gesù, di Ponzio Pilato, dei sacerdoti o di Barabba, l’ellisse è facilmente giustificata da uno svenimento di Maria durante la cattura al monte degli Ulivi. Ci ritroviamo traghettati direttamente sul percorso del Calvario, quando la forza della Maddalena sembra per un attimo venire meno, e infine ai piedi della croce dove lei occupa con coraggio il posto che l’iconografia le ha sempre riservato.
La scelta narrativa di eliminare ogni elemento ultraterreno, dagli squarci nel cielo agli angeli di guardia al sepolcro, consente ai rapporti personali e ancora di più a quelli psicologici di essere inquadrati in un ottica tanto provvidenziale quanto umana. Non ci sono pedine investite da un ruolo provvidenziale ma uomini con speranze e timori e ogni azione assume un’urgenza immediata che sembra coincidere con il progetto divino precostituito solo per puro caso.

Inevitabilmente spicca la figura di Pietro, interpretato da Chiwetel Ejiofor già candidato all’Oscar per 12 anni schiavo, il discepolo dell’impulsività, rappresentato come un uomo desideroso di dimostrare al gruppo la sua leadership e geloso del dialogo intimo che si instaura tra il Rabbì e quella giovane donna arrivata a portare scompiglio nel gruppo che lui sente invece la responsabilità di gestire. La portata metaforica del loro rapporto conflittuale raggiunge un apice narrativo nella scena estremamente toccante tra i moribondi di Samaria: il ruolo istituzionale e razionale di Pietro, che incarna la Chiesa, si scontra e viene annientato dalla volontà granitica di Maria, spirito missionario e misericordioso, che soccorre i bisognosi senza mai vacillare.

Ma è Tahar Rahim nei panni di Giuda a godere di una particolare trattamento. Ci troviamo di fronte a un personaggio inaspettatamente a tutto tondo, a cui non serve il celebre bacio per trovare posto nella storia. L’emblematicità del suo ruolo ha sempre tenuto la figura di Giuda sospesa tra la rappresentazione di un semplice strumento divino privo di volontà propria e la malvagità di un’ispirazione demoniaca improvvisa. Il film ribalta ogni meccanismo strutturale e ci consegna finalmente la storia di un uomo, con un passato difficile e con delle aspettative rispetto al Messia. Il suo tradimento è un gesto di disperazione e speranza generato da un fraintendimento fatale del messaggio di Gesù, talmente ingenuo da risultare quasi commovente. Anche il suicidio viene assorbito dalla storia personale del personaggio ed è impossibile non empatizzare con il carico di fallimento che si porta dietro.

Gesù ha il volto di Joaquin Phoenix, il cui indiscutibile talento conferisce alla figura chiave del racconto apostolico una malinconia e una concretezza ammirevole. Un Gesù il suo che appare stanco, affaticato non tanto dalla missione divina, quanto dalla ripetuta incomprensione che le sue parole e le sue azioni generano negli uomini che ha scelto come discepoli. Trova rifugio spirituale e conforto umano solo nel dialogo che instaura con la Maddalena, la sola davvero capace di comprendere il suo messaggio di salvezza e il peso di una natura umana votata al sacrificio. Maria è l’unica a non pretendere nulla da Lui, l’unica che non ha aspettative se non quella di stargli accanto fino alla fine.

La due volte candidata all’Oscar Rooney Mara interpreta una protagonista forte, tenace, che però non perde mai la femminilità e soprattutto la dignità, a dimostrazione che il femminismo autentico è ben lontano dagli stereotipi con cui viene oggi identificato. Il suo sguardo magnetico si accosta al racconto evangelico con un disincanto capace di affascinare lo spettatore, mentre la sua fisicità esile traduce sullo schermo tanto l’inadeguatezza dell’uomo di fronte al mistero divino quanto lo sforzo di essere donna in una società implacabile. La sua interpretazione offre allo schermo una Maddalena che è una sintesi di fragilità umane e forza morale, di misericordia incrollabile e etica irreprensibile.

Una fotografia calibrata, attenta alle sfumature e ai dettagli dirige un ritmo narrativo incentrato sulle emozioni più che sui fatti ben noti della vita di Gesù, mentre gli uomini e i loro progetti appaiono come sovrastati costantemente da una natura silenziosa e imponente.
Tanti i set italiani: dopo Pasolini e Mel Gibson, anche la produzione di Mary Magdalene sceglie come location strategica per rappresentare le vicende evangeliche quella dei Sassi di Matera. Altre scene sono state girate tra la provincia di Trapani e Napoli, dove un’irriconoscibile Piazza del Plebiscito è stata utilizzata per la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme.

L’elemento più innovativo e sorprendente è forse l’onestà intellettuale con cui il film, distribuito dalla Universal Pictures, sceglie di trattare una figura così emblematica e così discussa della storia secolare e religiosa, tralasciando ogni aspetto di morbosa curiosità legata alla sua vicenda.
Non c’è traccia per tanto nel film né della tradizione popolare che associa Maria Maddalena alla prostituta salvata dal Messia da un’atroce morte per lapidazione – versione per altro derivata da una errata sovrapposizione con altre due adultere di cui si parla nel Vangelo – né della versione complottistica e romanzata che la vuole la ricca amante dell’uomo Gesù, vero Sacro Graal e quant’altro.
La forza del film sta piuttosto nella volontà di una ricostruzione che sia fedele alla versione canonica dei Testi sacri ma non documentaristica e che al tempo stesso risulti coinvolgente senza però ricorrere all’esasperazione degli elementi che la compongono. La “discepola tra i discepoli” prima testimone della Resurrezione del Cristo recupera così quella investitura ufficiale che, come una didascalia alla fine del film precisa, per troppo tempo la Chiesa ha cercato di soffocare con la calunnia e che solo di recente ha riscoperto.

La salvezza della Maddalena dunque non è un dono ma una conquista. È lei che, non senza tormenti o dubbi, decide di prendere in mano la sua vita e di liberarsi letteralmente da una rete di rapporti che la sovrastano e la ingabbiano, è lei che sceglie di seguire il suo istinto e il suo cuore. Una donna coraggiosa che costruisce il suo destino dunque ma anche una testimone della Fede, Maria Maddalena non si limita ad affrontare un viaggio fisico e metaforico di redenzione, quel percorso lo analizza, ne valuta le implicazioni, e infine lo incarna nella sua vita perché ne comprende il significato. La narrazione sceglie di associare la vocazione di Maria alla parabola del seme (ritorna un elemento associabile al femmineo, simbolo di fecondità ma anche di conoscenza per il legame con la mela di Eva) attraverso cui Gesù descrive il Regno di Dio, tuttavia i discepoli, e con essi la Chiesa, non colgono subito il senso autentico delle sue parole: la più imprevedibile delle rivoluzioni può scaturire da un elemento piccolo e all’apparenza insignificante. È questa la lezione di Maria Maddalena.