Miles Teller

Trafficanti, di Todd Phillips

E se per qualcuno il sogno americano andasse a braccetto con l’incubo della guerra?

Trafficanti, nella versione originale War Dogs, diretto da Todd Phillips, parte proprio da questo presupposto.

«I tipi come noi li chiamavano “cani da guerra”: avvoltoi che fanno soldi con le guerre senza mai mettere piede sui campi di battaglia. Era dispregiativo nelle intenzioni, ma a noi piaceva».

Phillips ci ha divertito con commedie spassose come Starsky & Hutch, Parto col folle, ma soprattutto con la saga di The Hangover – Una notte da leoni. Con Trafficanti, basato su fatti realmente accaduti, riesce nell’intento di plasmare ciò che è ormai materia giornalistica, di riflettere sui retroscena neanche troppo celati di ogni guerra, mantenendo quello che è ormai il suo stile visivo e narrativo, giocato su forti contrasti, sulle decisioni sbagliate, che inesorabilmente hanno effetti esponenzialmente più grandi delle cause scatenanti e delle aspettative dei protagonisti, e sull’ironia della vita che, come ha sempre sostenuto il regista fin dagli esordi da documentarista, riesce spesso ad essere più assurda, bizzarra e pazzesca della fantasia.

La sceneggiatura, frizzante e dal ritmo incalzante, è opera dello stesso Phillips, affiancato da Stephen Chin [Un altro giorno in paradiso, Gummo] e Jason Smilovic [Slevin – Patto criminale e Kidnapped (serie TV)], e trae spunto da un articolo scritto da Guy Lawson e successivamente pubblicato in un libro diventato bestseller con il titolo Arms and the Dudes.

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«Quando la vita mi prendeva a calci, io rimanevo a terra. Efraim no: la prendeva a calci lui».

Due amici di Miami Beach, ex compagni di scuola e di scorribande, i ventenni David Packouz [Miles Teller] e Efraim Diveroli [Jonah Hill] inseguono a loro modo il sogno americano, tirando su in poco tempo un’impresa di traffico d’armi che si elevi «dalle briciole all’intera torta». I guai iniziano quando, all’apice del successo, ottengono un contratto governativo da 300 milioni di dollari per armare fino ai denti l’esercito afghano. Bugie, sotterfugi e truffe andranno ben oltre i limiti della moralità.

Ironia e divertimento sono assicurati e, anche se i fatti ormai sono di dominio pubblico e la storia bene o male si conosce, Todd Phillips sa come raccontare per immagini in maniera avvincente e spettacolare. Si ride davvero di gusto ed in maniera intelligente.

«David, siamo trafficanti. Andiamo a trafficare!»

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Miles Teller [Whiplash, The Divergent Series e il pessimo reboot de I Fantastici 4] interpreta il massaggiatore professionista David Packouz e rappresenta il punto di vista privilegiato dello spettatore ideale.

Jonah Hill [The Wolf of Wall Street, Ave, Cesare!, Superbad, 21 Jump Street e successivi] è il camaleontico Efraim Diveroli, la mente strapensante e straparlante della ditta AEY, genio e sregolatezza, cresciuto con il mito dello Scarface interpretato da Al Pacino, di cui imita inizialmente il vestiario finché l’evoluzione del personaggio non si spinge verso tute griffate e un abbigliamento da gangster moderno curato dal costumista Michael Kaplan [premio BAFTA per Blade runner, da una sua idea nasce il look di Alex in Flashdance, una moda che ha stregato un’intera generazione].

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È parte del cast, anche come produttore, con la neonata compagnia Joint Effort, il pluricandidato agli Oscar® Bradley Cooper [Una notte da leoni, American sniper, Il lato positivo, Joy], che svolge un ruolo fondamentale nella vicenda.

Dulcis in fundo, la bravissima Ana de Armas, la cui solarità recitativa si fonde con una disarmante bellezza che vale da sola il prezzo del biglietto. Una stupenda conferma dopo il successo di Knock Knock. L’abbiamo ammirata nel biopic drammatico Hands of stone sulla vita del pugile Roberto Duran presentato al Festival di Cannes 2016 da Jonathan Jakubowicz e la rivedremo prestissimo – e speriamo sempre più spesso – nel sequel ancora senza titolo di Blade runner, con Ryan Goslin e Harrison Ford.

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Girato tra Bucarest, Casablanca, Las Vegas, Miami e California, con Arri Alexa XT Plus, Panavision Primo, Primo V e lenti PCZ Lenses, Trafficanti viene portato in sala dalla Warner con un’aspect ratio molto ampia, secondo il rapporto 2.35 : 1, che esalta la spettacolarità delle riprese in esterni e soprattutto la scena top dell’inseguimento alla stazione di servizio di Falluja, girata nel deserto del Marocco, che per Trafficanti è l’Iraq filmico, coerenti con una delle massime di Efraim: «Dire la verità ha mai aiutato qualcuno?». Lo stesso accade per le scene in Albania, in realtà filmate in Romania.

Il commento musicale è affidato ad un’altra vecchia conoscenza di Phillips, Cliff Martinez, vincitore del Soundtrack Award come miglior compositore al Festival di Cannes per The neon demon, che però, per Trafficanti, si limita a riciclare solo due dei suoi brani più versatili, uno dal film Contagion e l’altro da Presagio finale – First snow, forse era lecito aspettarsi qualcosa in più.

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Ben nutrita e martellante, invece, il resto della colonna sonora, che risulta davvero poliedrica, spaziando tra canzoni profondamente distanti nel genere e nel tempo: dal gangsta rap alla Carmen di Bizet, da Dean Martin agli UB40, da Haddaway a Pitbull, passando per evergreen strafamosi e strautilizzati dal cinema come Fortunate son dei Creedence Clearwater Revival, Wish you were here dei Pink Floyd, Sweet emotion degli Aerosmith e Behind blue eyes firmata The Who.

Tanti i riferimenti ad altre pellicole “di genere” a partire dallo Scarface di Brian De Palma, quasi un’ossessione per Efraim e citato anche nella grafica della locandina ufficiale del film, per finire con Traffic, passando per Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese, ma anche per Rain Man – L’uomo della pioggia e The Social Network, omaggiato quasi al punto di creare un parallelismo tra le due coppie di giovani rampanti Packouz-Diveroli e Zuckerberg-Parker.

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«VegasX… è come un Comicon con le granate!»

Curioso, poi, che David Packouz abbia acconsentito a partecipare al film in un ironico cameo musicale, nel quale interpreta Don’t fear the Reaper dei Blue Oyster Cult in versione acustica, mentre Efraim Diveroli non si sia prestato alla causa.

«I soldi si fanno tra le righe».

Whiplash, di Damien Chazelle

Per essere un buon musicista bisogna conoscere profondamente il tempo e il ritmo della musica, tenere sotto controllo l’emozione, essere costanti e metodici, provare i pezzi fino allo sfinimento, e naturalmente avere un talento naturale. Ma per essere il migliore bisogna superare le proprie aspettative, mettendo in gioco anima e corpo per creare un momento di estasi unico, in cui la tecnica incontra la creatività, in un equilibrio perfetto tra sangue, sudore e cervello. Andrew è uno dei candidati all’eternità nell’olimpo della musica e da quando si è iscritto nella scuola di musica più importante di New York il suo unico obiettivo è entrare a far parte della ristrettissima orchestra di Terence Fletcher, l’unico insegnante in grado di distinguere un musicista geniale da uno mediocre alla prima battuta. Fletcher non ha tempo per compassione, per le giustificazioni e per le rimostranze, perché il suo unico compito e quello di scovare l’eccellenza tra la miriade di studenti che affollano le aule della scuola con i loro strumenti pesanti e il cuore pieno di aspettative. Dal suo punto di vista chi non ha talento vale meno di niente e sta occupando deliberatamente un posto che non gli appartiene, quindi farebbe bene a fare le valigie e a tornare sui suoi passi per cercare un lavoro vero. Quando il suo orecchio sottile incontra la batteria di Andrew, uno studente di belle speranze tra i tanti, scatta in lui il desiderio di metterlo alla prova, e di sfidare senza alcuna pietà i suoi limiti fisici e mentali per scoprire la sua passione rudimentale per i grandi del jazz è supportata da un’abilità fuori dal comune.

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Il mondo dei vecchi, esperti ma saccenti, si scontra in un testa a testa senza precedenti con l’arroganza dei giovani, nutrita dalla fame di successo e dal desiderio di sfondare a costo della vita stessa. A ogni passo avanti del giovane Andrew corrisponde una flagellata sulla sua autostima, a ogni successo un atroce fallimento. Fletcher non indietreggia davanti allo sforzo sovrumano che fa il ragazzo per colpirlo, non si lascia intenerire dal sangue né dal sudore, perché anche quello fa parte del gioco e, mentre Andrew perde il sonno per affinare la tecnica, lui gioca slealmente per affermare il suo potere assoluto. La sala prove del conservatorio è il ring cruento su cui si fronteggiano discepolo e insegnante a colpi di bacchette, cadendo e rialzandosi all’infinito, pressando la psiche, consumandosi le dita, mentre Damien Chazelle li osserva in silenzio dietro la sua macchina da presa, indugiando sulle pieghe dei loro volti, sui muscoli in tensione e sui rivoli di sangue che macchinano la batteria. Per fare musica ad alto livello, come per fare cinema, bisogna lasciare che l’arte assorba la mente e consumi il corpo se neccessario, questo ci dice Chazelle. Bisogna prendere un piatto in testa per diventare Charlie Parker e suonare l’assolo più incredibile che la storia ricordi, e non bisogna mai rilassarsi, mai compiacersi, perché le possibilità di migliorarsi sono infinite. In questa battaglia contro i propri limiti le parole “ben fatto” sono il nemico più pericoloso, perché corrispondono a una sosta quando non bisogna fermarsi, e Chazelle, da giovane e talentuoso cineasta, non si ferma mai e afferma attraverso il medium musicale le possibilità infinite di espressione del medium cinematografico, che scava senza pietà nei luoghi più oscuri dell’animo umano, nelle motivazioni più incomprensibili di un maestro che non è mai diventato un grande e cerca l’autoaffermazione nella realizzazione dei suoi allievi, a costo di portare l’arte alle conseguenze più estreme, là dove non dovrebbe mai arrivare.