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Bernet fra Pupe e Pallottole

Il maestro spagnolo Jordi Bernet ha presentato presso la CArt Gallery di Roma oltre settanta opere originali, che racchiudono, oltre a svariate illustrazioni e copertine, anche diverse Tavole provenienti da tutte le serie a fumetti più importanti per le quali ha lavorato; troviamo, infatti, tavole di Torpedo, Cicca, Sarvan, Kraken, Custer e dell’italianissimo Tex , oltre a storie brevi complete di Chiara di notte, un altro dei suoi fantastici personaggi.

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La CArt Gallery, inoltre, ha anche realizzato un Catalogo in sole 100 copie numerate e firmate, contenente tutte le Opere Originali che possono essere ammirate ed acquistate nel corso dell’Esposizione.
L’Inaugurazione della Mostra si è tenuta l’8 aprile 2016 presso la CArt Gallery alla presenza dell’artista Jordi Bernet, che ha incontrato il suo pubblico di appassionati.

La mostra si potrà vistare fino a martedì 26 aprile. L’ingresso è gratuito.

Balthus in mostra alle Scuderie del Quirinale

Dal 24 ottobre 2015 al 31 gennaio 2016 le Scuderie del Quirinale e l’Accademia di Francia – Villa Medici ospitano un’importante retrospettiva antologica su Balthus, uno dei maggiori (e meno noti) artisti del Novecento, curata da Cécile Debray con la collaborazione di Matteo Lafranconi. Più di duecento le opere esposte, tra quadri, disegni e fotografie, nello sforzo di testimoniare nel modo più efficace possibile l’attività di Balthus, pittore che sfugge di fatto ad ogni caratterizzazione, visto che si discosta dalle ricerche dell’avanguardia artistica del Novecento, preferendo una rappresentazione tradizionale che allo stesso tempo si allontanava dall’accademismo spicciolo.

Imperniata sui maggiori nuclei tematici che caratterizzano l’opera del pittore, la mostra riesce a evidenziare con chiarezza quanto sia fondamentale l’incontro con l’arte dei primitivi italiani nella sua produzione. Dopo i primissimi paesaggi, infatti la prima opera matura, La Rue (1933, eccezionalmente prestata dal MOMA di New York) presenta un impianto fortemente prospettico, sebbene volutamente bidimensionale, mutuato direttamente da Piero della Francesca, mentre alcuni dei personaggi sono dirette citazioni da Masaccio e Luca della Robbia. Questa fortissima influenza rimane anche nella produzione successiva, ritornando evidente nella sua piena maturità in opere del calibro di Le passage du commerce-Saint-Andre (1952)e, in seguito, nella matericità crescente delle ultime opere, che tentavano di riprodurre su tela l’effetto opaco dell’affresco quattrocentesco e la sua tattilità.

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Vengono inoltre analizzati il forte ruolo della letteratura e del teatro sulla produzione di Balthus, in particolare il suo rapporto con Cime tempestose e Lewis Carroll, nonché con Antonin Artaud. Sulla scorta del primo realizza una serie di disegni e bozzetti di grande immediatezza, culminanti con La toilette di Cathy (1933), meravigliosa tela di grandi dimensioni in cui quello che colpisce è l’apparente separazione tra i due protagonisti, che sembrano appartenere a due rappresentazioni differenti pur essendo consapevoli l’uno della presenza dell’altra. Da Lewis Carroll, invece, attinge lo spunto per un originale grottesco.

Tacciato più volte di pedofilia (al punto che una retrospettiva prevista a Berlino nel 2014 è stata bloccata sul nascere per timore delle possibili polemiche), Balthus ha più volte specificato che la sua attenzione per le giovanissime modelle era legato alla volontà di riuscire a rappresentare il momento di passaggio tra la spontaneità infantile e le prime inquietudini della sessualità adulta. Come scriveva lo stesso Balthus in una lettera alla sua prima moglie Antoinette, infatti, in questo influenzato da Antonin Artaud e dal suo manifesto Il teatro della crudeltà (1932), l’unico modo per colpire forte l’attenzione del pubblico e farsi capire è colpirlo forte con cose molto violente e solo l’erotismo era in ancora in grado di giungere a questo scopo.

Natura Onirica. La memoria degli oggetti. Intervista a Pablo Mesa Capella

La Galleria Emmeotto di Roma ospita la mostra Natura Onirica. La memoria degli oggetti. di Pablo Mesa Capella, giovane artista spagnolo, che dopo un’accurata e preziosa ricerca durata più di un anno presenta nelle sale espositive di Palazzo Taverna la completa realizzazione del suo progetto legato alla creazione di microcosmi immaginari e immaginati all’interno di campane di vetro.

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Microcosmi immaginari, immobili e vivi, popolati da figure accuratamente ritagliate da fotografie in bianco e nero che appartengono a epoche diverse e che si muovono in uno scheletro di stella marina o intorno a un teschio di cinghiale. Ognuna di queste storie chiuse in una campana di vetro è un viaggio in un tempo perduto, che attraverso la percezione soggettiva delle immagini genera ogni volta un racconto diverso, in base all’esperienza e alla fantasia di chi le guarda. L’occhio dello spettatore, che gira attorno alle campane, crea la propria narrazione soffermandosi su un personaggio piuttosto che su un altro e collegandoli tra loro. Le fotografie sono i tasselli di questo viaggio nel tempo, e ciascuna è una narrazione a sé stante in una narrazione più grande, che comprende oggetti del passato, cimeli o scheletri di animali. La protezione della campana di vetro protegge questo microcosmo dall’esterno e ferma il tempo che scorre al suo interno, rendendo immortale ognuno dei protagonisti involontari di queste straordinarie narrazioni.

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Natura Onirica è un progetto che ha origini lontane nel tempo della creazione e della storia. Da quanto tempo ti dedichi alla ricerca dei materiali e come li hai raccolti e conservati?

Natura Onirica. La memoria degli oggetti è un lavoro che si svolge da un anno e mezzo. Un progetto che è cresciuto mano a mano che presentavo le opere nei diversi luoghi espositivi (Wunderkammern –Accademia del Belgio, Bruxelles- galleria Antonio Nardone, Flora Cult – Casale del Pino, II Biennale di Viterbo), alla fine con questa mostra personale nella galleria Emmeotto di Roma volevo chiudere e riassumere un ciclo di lavoro e ricerca.
Il fascino che hanno gli oggetti per me viene da lontano. C’è sempre stata qualcosa che mi ha attratto in loro, e in realtà non ho mai smesso di fare ricerca, ma con questo progetto ho dato un significato a tutto questo lavoro.
Il metodo di lavoro è semplice e complesso alla stesso tempo. Raccolgo tutti questi oggetti in maniera impulsiva, senza avere ancora niente in mente, nello studio trovo piano a piano il collegamento fra di loro; rifletto, immagino, associo, sposto, cerco, e così via, fino a che non trovo la composizione più giusta o più armoniosa per i miei sensi. Tutti gli oggetti, per semplici o complessi che siano, trovano il loro destino finale nella composizione.

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Come è nata l’idea per Natura Onirica? Ci sono dei richiami alla tua infanzia e al tuo passato?

L’idea è nata come dicevo dalla passione per la raccolta di oggetti e fotografie in giro per il mondo. L’idea compositiva si è sviluppata partendo della tradizione pittorica delle nature morte o del chiamato “bodegón”, come diciamo in Spagna. Ovviamente c’è un richiamo inconscio al mio passato, in particolare alla mia infanzia. Lo stile delle opere è onirico e surreale.Cercando a fondo tra i miei ricordi potrei trovare facilmente alcune associazioni dirette a esperienze vissute anni fa. C’è il mare, la campagna, boschi, il cielo; elementi sempre presenti nel mio immaginario, e credo anche in quello di tutti.

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La natura morta crea mondi immaginari, fatti di scheletri di esseri viventi, foto di persone scomparse e oggetti del passato. Come può nascere la vita dell’immaginazione dall’immobilità della morte?

La vita c’è sempre, anche quando si fa presente la Morte. Tutto è cambiamento, trasformazione e ed per questo che la vita continua. Tutti gli elementi utilizzati – fotografie e oggetti – vengono innanzitutto decontestualizzati, abbandonano il suo significato, il loro legame con la realtà per diventare un’altra cosa. Tutto il materiale utilizzato, di per sé non ha un valore ma è proprio nel momento in cui viene associato ad altri materiali che acquista un nuovo ed interessante valore. L’immaginazione mi permette di creare, e creando provo a vincere momentaneamente la Morte nello spazio immobile e protetto di queste in campane di vetro.

 

Per maggiori informazioni sulla mostra consultare il sito della Galleria Emmeotto: www.emmeotto.net

ConTatto Onirico – Incontro con l’artista Caterina Stillitano

Il Blackmarket di Roma ha accolto lo scorso autunno nella mostra ConTatto Onirico le creature sinuose e crepitanti di Caterina Stillitano, che continua incessantemente a sperimentare il contatto con la materia, creando e ricreando opere d’arte e costumi di scena senza distogliere lo sguardo dalla natura e dai misteri dell’animo umano.

ConTatto Onirico è la testimonianza di un percorso artistico variegato, di continua sperimentazione di forme e materiali, in cui costumi teatrali di colla e cotone trovano posto accanto a sculture e bozzetti creati con i materiali della natura. Come è iniziata questa esperienza?

La mostra contiene sculture, foto e costumi. Le sculture sono nate come prototipi di costumi teatrali. Durante l’accademia infatti costruivo manichini di argilla al posto dei bozzetti e poi li rivestivo. In seguito hanno assunto un valore proprio e sono diventati la base su cui sperimentare diversi materiali e, sperimentando nel piccolo materiali da riprodurre su scala più grande, alcui di questi si sono trasformati in costumi reali. Anche il costume di colla e ovatta nasce dalle sperimentazioni fatte sul piccolo. Questo impasto è facilmente plasmabile quando è liquido poi, quando si solidifica, crea un gioco di trasparenze che ricorda la cera. Riflettendo sulle forme rigide di questo costume, mi sono inoltre resa conto che mi riporta indietro con la memoria al busto che indossavo da bambina e a un periodo in cui ho sofferto tantissimo all’idea di aver perso la flessibilità della schiena.

In tutte queste opere d’arte si fondono forme e stili diversi, ma il denominatore comune resta il contatto palpabile con la materia, che esprime un rapporto viscerale tra l’artista e le sue creazioni. L’atto di plasmare la materia può essere considerato un atto catartico?

Spesso ci si chiede cosa sia l’opera d’arte. Per me l’opera d’arte non si limita alla scultura in sé, ma estende all’insieme delle emozioni e delle sensazioni che sento quando entro in contatto con la materia. È la testimonianza di un gesto difficile da descrivere a parole, di qualcosa che parte da dentro. La cosa singolare è che in tutte le mie creazioni manipolo la materia nonostante abbia avuto per anni un problema di contatto con gli oggetti.

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Una delle sculture è stata costruita con “Elementi di arbusto di Capo Rizzuto”. Può essere considerata un ritorno alle origini?

Ho un bellissimo ricordo legato a questa scultura. Nel mese di settembre uscivo in bicicletta di mattina presto per cercare materia da utilizzare. La natura mi ispira sempre molto. Anche per creare il costume di Circe, che indosso nel corso della mostra, ho fotografato le cortecce dei diversi alberi e alcune rocce. Mi piacciono le forme plastiche con punti di luce e di ombra e cerco di ricrearle nelle mie opere. La mia terra mi ha sempre ispirato, così come le mie origini familiari. Decisiva è stata la figura di mio padre, che era creativo e amava scombinare delle cose per crearne altre. Era un operaio e lavorava per una ditta di acquedotti, così un giorno ha portato a casa dei tubi di plastica di varie dimensioni e li ha trasformati in un portapenne, che io in seguito ho dipinto. Lui mi ha insegnato a trasformare le cose in altro. Mi piace osservare le cose della natura, gli alberi, le forme che disegna la terra arida, le foglie secche, le trame dei tessuti e anche le straordinarie combinazioni di colori che sono in grado di formare gli alimenti come il cacao che, mescolato con la colla, crea degli effetti cromatici inaspettati.

La mostra, così come tutta l’attività artistica, non si limita alla creazione di costumi e sculture ma si estende alla performance in cui i costumi prendono vita sul corpo dell’artista. Come è avvenuto l’incontro con il teatro?

La prima volta che sono andata in scena è stata quattro anni fa, durante il laboratorio teatrale di un centro diurno a cui mi sono avvicinata a scopo terapeutico. Da questo momento in poi ho acquisito gradualmente consapevolezza di me e del fatto che si trattasse di un lavoro serio e importante, ma soprattutto stimolante. Mi sono resa conto che mi piaceva stare in scena, anche se di solito non amo essere osservata, perché ho imparato a considerarla un luogo altro, un’altra dimensione. Inoltre molte cose, che per il mio problema di contatto non riuscivo a toccare nel quotidiano, diventavano accessibili sulla scena. Non perché fingessi, ma perché lì percepivo un’energia diversa. Sono stata in questo laboratorio per quattro anni. Durante l’attività di laboratorio, in una prima fase si lavorava insieme, mentre in un’altra si parlava di quello che si vedeva in scena, e ho sempre trovato tutto questo molto stimolante. Quando ho organizzato questa mostra avevo lasciato il laboratorio da sei mesi e da allora non ero più andata in scena. Durante la mia performance al Blackmarket, ho ricordato quel senso di piacere che mi dava la scena e ho capito che avrei potuto riprendere il lavoro sul corpo anche senza il gruppo, andando in una direzione diversa. In scena non c’era più il mio corpo insieme ad altri corpi, ma il mio corpo e la materia che avevo plasmato. Da qui ho iniziato a lavorare con oggetti creati da me, creando un’opera completa in sé stessa a partire dal costume che da elemento di scena diventa un’installazione indipendente. All’aspetto visivo il costume unisce l’aspetto sonoro, e questa è una parte della performance che mi affascina molto. Per esempio il costume di Circe,  fatto principalmente di carta, produce uno straordinario scricchiolio mentre lo indosso.

La performance inizia con l’apertura delle scatole che inaugurano il percorso della mostra. Hanno un significato specifico?

Le scatole della mostra sono state tutte realizzate da me e durante la performance le apro per tirare fuori le statuette una alla volta. Sono state realizzate con i materiali più disparati, dalla stoffa al cartoncino, ma una delle scatole è stata realizzata con un collage di un mio diario scritto a penna. Ci sono parti leggibili e illegibili, che ricostruiscono la mia memoria, la mia esperienza teatrale e il disturbo sul contatto raccontando qualcosa di me. Ora sto costruendo una scatola con i miei ricordi dell’infanzia. Questo tipo di lavoro è piuttosto complesso perché mette in campo lo sforzo di ricordare, la scrittura e costruzione della scatola. Questa nuova creazione sarà un dono, quindi sto per affidare questi ricordi a una persona molto speciale. Ho realizzato scatole come queste anche in un laboratorio con gli anziani, in cui ognuno aveva il compito di raccontare un proprio ricordo e di imprimerlo sulla scatola. Il risultato è stato un collage di ricordi e di scritture diverse, che ha dato vita a un’incredibile opera d’arte. La scrittura è un segno personale in se stessa e per me è un pretesto per mettere su carta il mio passato fissandolo nella memoria, oltre ad essere una forma artistica di cui ho scoperto di recente l’enorme potenziale.

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A ConTatto Onirico sono seguite altre performance realizzate per i bambini. Come è stato rapportarsi ad un pubblico che potrebbe essere definito “innocente” rispetto all’esperienza teatrale?

Le Mie Mani Magiche è stato per me un lavoro importantissimo perché era rivolto a un pubblico di bambini che rispecchia l’idea originaria di pubblico. Non avevo mai sentito un contatto tanto intenso con gli spettatori. Questo è un pubblico che parla e interagisce con l’artista creando energia. È innocente nel senso che non sta lì a fare elucubrazioni sullo spettacolo, ma lo prende per quello che è. Naturalmente questo tipo di approccio è rischioso perché i bambini non hanno un filtro inibitorio e si annoiano facilmente. La mattina dello spettacolo provando in camera mia temevo che lo avrebbero trovato noioso e che non mi avrebbero seguito, invece davanti ai bambini lo spettacolo è diventato altro e loro stessi ne hanno fatto parte.

L’ultimo progetto, L’abito d’oro, nasce dalla collaborazione con la marionettista Antonia D’Amore. Come è nata questa idea?

A maggio in occasione di uno spettacolo di Quinto Fabriziani su l’Ulisse di Joyce ho conosciuto Antonia D’amore. Lei è marionettista e musicista e, unendo le nostre competenze, abbiamo realizzato una marionetta materica, che si indossa come una seconda pelle distaccata dal corpo. Dopo aver assistito allo spettacolo, una persona mi si è avvicinata e mi ha detto che questo lavoro le aveva ricordato un rituale perpetrato in onore di Xipe-Totec, la divinità azteca della rinascita, che rappresenta il passaggio dalla vita alla morte e viceversa, spogliandosi della pelle per dare nutrimento all’umanità, come il seme del mais che abbandona il suo involucro per poter germogliare. Durante il rituale venivano organizzati dei combattimenti tra gli schiavi in cui il vincitore doveva indossare la pelle dello sconfitto scarnificato dipinta di giallo oro: l’abito d’oro appunto. Non conoscevamo questo rituale e non l’abbiamo riproposto di proposito, ma questa storia mi ha fatto riflettere sul concetto di “inconscio collettivo”, perché abbiamo riproposto inconsapevolmente un rito antico che aveva luogo in altro continente. Questo è uno dei misteri dell’essere umano. Da qui è nato lo studio su L’abito d’oro e il sodalizio con Antonia D’Amore, con cui abbiamo creato il gruppo Anche, nato dalla contrazione dei nostri nomi, da una congiunzione che esprime possibilità infinite, e dal nome della parte anatomica che unisce le due parti del corpo. Questa congiunzione tra competenze diverse mira a una Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale che si realizza interamente sulla scena e fruisce esclusivamente dei materiali di cui è composta, ricucendo attraverso la performance artistica la frattura del nostro venire al mondo, spogliandosi degli abiti in cui ci ha costretto la società e ritrovando l’unità con le forze della natura che ci avvolgevano prima della nascita, prima della separazione originaria.

Mea Culpa di Christian Guémy (C215)

I colori graffianti e sanguigni dei suoi dipinti si impongono con tutto il loro vigore anche allo sguardo dello spettatore più disattento e accendono di vita le periferie delle città di tutto il mondo. Così ritratti accesi dell’artista francese Christian Guémy, o meglio C215, prendono corpo nelle periferie delle città e nei vicoli, seguendo e segnando i suoi stessi passi. “Non scelgo i luoghi in cui dipingo, dipingo nel luogo in cui mi trovo. Se lo scegliessi, sarebbe pubblicità, invece la mia unica intenzione è lasciare un segno, un marchio. Le strade sono la mia galleria e la gente comune è il soggetto che prediligo”, afferma Guémy durante il vernisssage di Mea Culpa, la sua personale, che si è tenuta presso la galleria Wunderkammern a Roma. Porte, palloni, cassette postali, muri scalcinati e vetrate sono le sue tele predilette e i soggetti rappresentati non sono riconoscibili, se non nel passante che ci passa accanto o nel barbone accasciato al lato della strada. Lo spazio espositivo della galleria non basta a contenere l’estro di Guémy, che sconfina nelle strade circostanti, e lascia con i suoi ritratti un segno imperituro del suo passaggio nella capitale. “Queste strade, questo quartiere in periferia, per me è l’ideale. Non ci sarebbe stato spazio migliore per esporre le mie opere. Qui c’è la gente comune, la gente vera.”

La gente comune, gli ultimi, sono anche i soggetti più celebrati dal genio di Caravaggio e i suoi personaggi sono corposi ed espressivi come quelli di Guémy. A lui l’artista ha voluto rendere omaggio, dedicandogli una parte notevole dell’esposizione. Dall’imponente dipinto a parete intera che raffigura Davide mentre strappa la testa a Golia, e che si impone violentemente all’attenzione dello spettatore per le dimensioni grandiose e i colori purpurei, a Bacco che, serafico, fa capolino da una cassetta postale, fino ad arrivare a Giuditta, che dopo aver mozzato la testa di Oloferne, la esibisce con il suo sguardo fiero. I dipinti di Caravaggio, riprodotti con la tecnica dello stencil su superfici diverse, dal metallo, al legno, all’intonaco, trasudano sangue e forza. I tratti scuri che delineano le figure si stagliano sugli sfondi accesi, facendo letteralmente vibrare il colore nell’alternanza netta tra luce e ombra. “Ho iniziato a studiare Caravaggio durante il dottorato – afferma Guémy – e mi ha subito attratto per il suo modo teatrale di usare la luce. Ciò che voglio riprodurre nella mia arte è proprio la sua luce, e il modo in cui la usa per illuminare alcune figure e metterne in ombra altre. È indubbiamente un personaggio affascinante e poi non si può negare che abbia una faccia simpatica”.

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Passando attraverso gli spazi aperti e ariosi e i cunicoli angusti della galleria, Caravaggio incontra inevitabilmente i ritratti degli uomini e delle donne comuni, rugosi e increspati come il legno, o eterei e trasparenti come il vetro colorato su cui sono raffigurati. Nati da nodi e intrecci di linee, volgono il loro sguardo allo spettatore, lo scrutano e lo interrogano insistentemente su quelle che sono le sue colpe. Dalla scritta maestosa “Mea Maxima Culpa”, che apre il percorso dell’esposizione, la raffigurazione dell’uomo comune è affiancata a quella delle icone religiose e dei personaggi storici, invitando lo spettatore ad intraprendere un percorso di riflessione sulla colpa, nella storia passata così come nella vita presente, e ad assumersi le sue responsabilità verso gli ultimi, verso chi sta al margine della società e della città, proprio come i ritratti di Guémy.

La mostra si è tenuta presso la Galleria WunderKammern a Roma
dal 23 al 24 marzo 2013