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A Quiet Place – Un posto tranquillo, di John Krasinski

Quando si dice “iniziare in media res”, ossia nel bel mezzo del racconto, senza introduzioni e preamboli-spiegoni noiosissimi, ma gettando subito lo spettatore nel vivo della suspense da slasher horror moderno, s’intende proprio questo tipo di film che ha un incipit giocato sulle inquadrature ravvicinate, e soprattutto di dettaglio, e sulle soggettive sonore che, dato il tema trattato, diventato un leit motiv indispensabile per creare quel clima di angoscia e terrore che un silenzio forzato, la cui pena sarebbe la morte certa.

Nel 2020, la popolazione della Terra è stata quasi completamente sterminata da una razza aliena giunta da non si sa dove, come e quando. I mostri – ibridi tra il Saturno dipinto da Francisco Goya, gli Xenomorfi parassiti di Alien e il collaudato Demogorgone di Stranger Things – sono completamente ciechi, ma dotati di un udito sensibilissimo e divorano qualsiasi cosa produca il seppur minimo rumore. Gli Abbott, una famiglia composta da madre, padre e tre figli, sembrano gli unici superstiti umani al mondo. Cercano di sopravvivere in una fattoria isolata, nel più completo silenzio, comunicando solo con il linguaggio dei segni.

Se questa loro competenza è giustificata dal fatto che la figlia maggiore è sorda, nulla spiega in maniera soddisfacente la presenza dei mostri e la loro fame incontrollata, irrispettosa delle regole di equilibrio biologico: si tratta di creature fameliche tanto veloci quanto spietate, che non hanno nessuna intenzione di lasciare in giro qualche essere vivente per non rischiare di morire di inedia. Sopravvivere dignitosamente si può a vedere gli Abbott. Basta non emettere mai alcun suono, ma … ci riusciranno?

A quiet place – Un posto tranquillo è un horror particolare che, nonostante la sua semplicità strutturale e formale, sa far trattenere il fiato dall’inizio alla fine. Essendo abituati all’ecatombe che possono produrre creature come gli Xenomorfi di Alien, potrebbe essere di notevole aiuto non porsi troppe domande, altrimenti il labile patto di sospensione dell’incredulità, che è alla base del film, decadrebbe come un castello di carte davanti ad un ventilatore (non domandatevi, nemmeno quando i personaggi ve lo sbatteranno in faccia, perché non rifugiarsi in un luogo come una cascata, dove il rumore assordante permetterebbe di parlare liberamente passandola sempre liscia). Se non ci si ferma troppo a pensare, la calamita funziona e lo spettatore si ritrova attratto al centro della scena a tremare o a tramare per la sorte dei protagonisti, a seconda che si parteggi per le vittime o per i carnefici, come spesso accade ai fan degli horror.

La sceneggiatura di Bryan Woods e Scott Beck, inizialmente pensata per aderire al franchise di Cloverfield, contiene una sola linea di dialogo, il film ne presenta un paio in più. Questa carenza di comunicazione verbale non deve far pensare ad un’attenzione minore nella recitazione: John Krasinski, in A quiet place – Un posto tranquillo al suo debutto da regista, nasce come attore [Qualcosa di straordinario, Licenza di matrimonio] e ha fatto della comunicazione visiva, della mimica facciale e della gestualità teatrale uno dei punti di forza della pellicola, curando nei minimi particolari la colonna sonora e il montaggio sonoro, nonché la recitazione del cast, scritturando persino un’attrice realmente sorda, la bravissima Millicent Simmonds [La stanza delle meraviglie], per la parte della figlia maggiore. L’attore-regista, per questo suo esordio, ha completato il cast scegliendo Emily Blunt [I guardiani del destino, Edge of Tomorrow – Senza domani, Il ritorno di Mary Poppins], sua moglie nel film e nella vita reale, Noah Jupe, il protagonista eccezionale di Wonder, e Cade Woodward alla sua prima fugace apparizione cinematografica.

Negli Stati Uniti A quiet place – Un posto tranquillo è stato vietato ai minori di 13 anni non accompagnati da adulti per via della quantità di sangue e di terrore, mentre in Italia è vietata ai minori di 14 anni.

Aliens 30° Anniversario, di Mark Verheiden e Mark A. Nelson

SaldaPress cavalca il rinnovato interesse del pubblico per la saga di Alien e degli xenomorfi con un ampio ventaglio di fumetti abbastanza liberamente ispirati alle vicende narrate per immagini in movimento da Ridley Scott & company:

Aliens : la serie regina in cui vari disegnatori si alternano per schizzare di terrore visionario le storie sempre scritte da Brian Wood;

Fire & Stone : in contemporanea con l’arrivo nei cinema del film Alien: Covenant, una serie-evento in 5 volumi, che coinvolge in un’unica emozionante storia tutte le properties legate all’Alien Universe: Xenomorfi, Ingegneri, Predators:

  1. Prometheus Fire & Stone,
  2. Aliens Fire & Stone
  3. Predator Fire & Stone,
  4. Alien vs. Predator Fire & Stone,
  5. Prometheus: Omega Fire & Stone

Ma è su un prodotto celebrativo che vogliamo porre maggiore attenzione in questa occasione:

 

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30° anniversario

 

Si tratta di un volume celebrativo, unico non solo perché presenta una storia autoconclusiva, la raccolta completa della prima miniserie Aliens, ma anche per alcune peculiarità editoriali che lo rendono apprezzabile al 100% solo nella sua forma cartacea: un’accattivante copertina nera lucida su cui campeggia ovviamente il vero protagonista, lo xenomorfo, apprezzabile anche a livello tattile grazie ad una texture in rilievo dello xenomorfo sul granitico cartonato nero, e a perfezionare il tutto il bordo esterno delle pagine rigorosamente nero, una finezza per veri intenditori, in conformità con l’edizione originale americana.

Il disegno di Aliens 30° anniversario è ovviamente un po’ retro, e non poteva essere altrimenti vista la data della prima pubblicazione Dark Horse che risale al 1988, in occasione della realizzazione del terzo film.

«Verso la fine del 1987, ero al telefono con Mike e, a un certo punto, lui sganciò la bomba che la Dark Horse avrebbe realizzato i fumetti di Aliens. Non si trattava di un adattamento del film, ma di nuove storie derivate dal secondo film. E serviva uno sceneggiatore». Chi pronuncia queste parole è proprio Mark Verheiden lo sceneggiatore-produttore che ha dato vita ai mondi di The Mask, Timecop, Battlestar Galactica, Falling Skies e Daredevil, ora alle prese con la serie tv che dovrebbe risarcire il pubblico dalla deludente trasposizione cinematografica de La Torre Nera.

«Adoravo Aliens! – prosegue Verheiden – Il primo Alien era stato superbo, un film horror dalla vena stupendamente dark. L’Aliens di James Cameron, però, aveva l’azione, l’horror e la passione messi tutti insieme all’interno di un prodotto spettacolare. Poter lavorare con un universo tanto mitico senza le limitazioni dettate dal budget era la realizzazione di un sogno. E, quando Mark Nelson fu scelto per disegnare il progetto, ogni pezzo del puzzle andò al suo posto. Mark realizzava i disegni in bianco e nero utilizzando l’ormai introvabile carta a reazione chimica Duoshade: l’abilità stava nel far emergere dal cartoncino i retini incorporati, stendendo con il pennello un apposito reagente.

I disegni di Mark erano straordinari, incredibilmente dettagliati e carichi di atmosfera. Perciò, quando decisi di evidenziare l’aspetto horror del mondo di Alien, sapevo che lui era la persona giusta e che non avrebbe tradito le mie aspettative. E già che è il momento dei complimenti, tanto di cappello a Willie Schubert, letterista infaticabile; Willie ha fatto un lavoro superlativo con tutte le narrazioni in prima persona che si incrociano nella storia
».

Un bianco e nero fortemente contrastato e una cura massima del dettagli nei momenti cruciali di contatto fra umani e xenomorfi sono i punti forti del fumetto. I testi, molto ben curati, senza mai scadere nel banale, suscitano emozioni che vengono costantemente dinamizzate da un montaggio eccentrico delle vignette.

Una nutrita appendice grafica di eccezionale pregio presenta tavole a tutta pagina che svolgono la funzione di visual credits: tutti i realizzatori dell’opera sono disegnati nei panni di vittime nella catena alimentare degli xenomorfi.

La storia, sebbene oggi possa apparire un po’ inflazionata, è in linea con gli standard dell’epoca: un buon numero di scene di terrore puro, innestate in un mood di estremo delirio, sospeso fra incubi e realtà e tipico di personalità dissociate per via delle conseguenze di un’aggressione mostruosamente aliena: se il mostro non ti divora dall’esterno, sarà la paura di rincontrarlo a divorarti dall’interno!

Per quanto riguarda i personaggi, invece, gli autori hanno dovuto combattere con assenze pesanti e limitazioni che hanno reso il loro lavoro non solo più arduo ma anche frustrante perché questo volume unico risulterà sempre slegato dalla linea narrativa che la saga cinematografica ha intrapreso successivamente. Nella prefazione Verheiden lo spiega chiaramente:

«Quando venne il momento di definire la trama, ricordo di aver ricevuto ben poche direttive. Una era “vogliamo vedere le creature aliene sulla Terra.” Due: nel fumetto devono essere presenti i personaggi di Newt e Hicks”. La terza fu l’unica dettata da motivazioni legate all’aspetto commerciale: non potevamo usare il personaggio di Ripley (divieto che fu revocato in occasione della terza serie Aliens: Earth War).

Era il momento di creare la storia. Volevo esplorare un futuro high-tech e distopico insieme, dove religione, affari e tecnologia entravano in conflitto con le creature aliene, con i nostri disgraziati personaggi che ci finivano in mezzo. Non ci voleva molto a immaginare che le esperienze di Newt con gli xenomorfi su LV-426 avessero lasciato segni profondi nella sua mente o che Hicks, con metà faccia bruciata dall’acido, fosse evitato dai suoi commilitoni come un paria. Un’altra cosa che mi intrigava dei due film erano gli androidi, Ash e Bishop. Sentivo che c’era molto da scavare nell’esistenza di una vita artificiale senziente.

A parte questo, dovevo muovermi con grande attenzione nel fare ipotesi su alcuni aspetti su cui poggia la mitologia del film Aliens. Per esempio sulla vera identità dello “space jockey”. Ho analizzato sia il film che gli scatti del set, ma non avrei mai immaginato che la “faccia” elefantiaca della creatura fosse, come si vede nel film Prometheus del 2012, una maschera d’ossigeno per un pilota umanoide. L’unica analogia tra i miei “space jockey” alieni e gli Ingegneri umanoidi di Prometheus è che entrambi ce l’hanno a morte con gli xenomorfi. Be’, almeno su quello ci siamo trovati.

L’altra ipotesi che facemmo tutti fu che Newt e Hicks fossero sopravvissuti al post-Aliens, ma i titoli di testa di Alien3 mi tolsero rapidamente ogni illusione in proposito. Mi hanno chiesto in molti come mi è sembrato Alien3 e, a essere sinceri, sono combattuto. Perdere Newt e Hicks nella sequenza di apertura del film è stato un vero e proprio schiaffo ai fan che si erano affezionati a quei personaggi. Però, d’altra parte, dopo aver lavorato un po’ nel cinema e nella televisione, mi sento quasi di ammirare l’audacia del film nel provocare “l’attesa dell’inatteso”. Ma, in ogni caso, ammetto che mi ha egoisticamente infastidito che, con Alien3, le mie storie non rientrassero più nel canone ufficiale».

Aliens 30° anniversario è arricchito dai bozzetti, le cover e i frontespizi messi a punto per la prima edizione, da prefazione e postfazione entrambe molto appassionate e dalla storia breve Aliens: Fortunato, tutti elementi succulenti da aggiungere alle già decantate tavole in appendice e texture di copertina, che sono già di per sé lo spettacolo per cui val la pena di pagare il prezzo del “biglietto”. Chi sceglierà una versione digitale sa ora cosa si perde! Al vero fan poco importa se il prodotto non è d’avanguardia. In fondo Alien ci piace così: un’avventura horror sci-fi con quel suo gusto vintage inconfondibile e… rassicurante, mi si passi il termine per esprimere l’abitudine spettatoriale dei più nostalgici, mentre per tutto il resto del pubblico permane l’eco impossibile di quelle affascinanti urla di terrore dissipate nello spazio profondo.

«I personaggi che amate ci sono, lo spirito, il tono e la struttura del mondo anche. Le differenze sono abbastanza sottili da tenervi sulle spine permettendovi di godervi questa corsa sulle montagne russe proprio come la prima volta che avete avuto il coraggio di entrare nel labirinto […] E adesso vi invito a entrate nel nostro parco giochi verso nuove avventure, nuove prospettive, nuove interpretazioni, nuovi sviluppi e svolte impreviste. Familiari ma allo stesso tempo diverse. Venite, e godetevi la corsa».

Universal Monsters Universe – Il mondo ha bisogno di mostri

«Alcune volte il mondo non ha bisogno di un eroe, ma di un mostro»

Da quando nel 2012 la Universal ha annunciato di voler riavviare uno dei loro franchise più fortunati, La Mummia, e voler ricominciare da capo con un Van Helsing che sappia conquistare pubblico e critica, si sono succeduti molti registi e produttori e i progetti hanno rischiato di essere accantonati del tutto. Finché nel 2014 da Roberto Orci, sceneggiatore, produttore televisivo e produttore cinematografico messicano [Transformers, Star Trek], non giunge l’idea che la Mummia e Van Helsing avrebbero potuto condividere lo stesso mostruoso universo, in cui far confluire anche tutti i mostri che hanno reso famosa la casa editrice, per l’occasione rivisitati, resi appetibili non solo ai cinefili di vecchia data o ai cultori dei classici dell’orrore. Insomma, un colossale progetto di reboot generale che sarà il metro di paragone della nuova generazione.

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Capostipite di questo progetto non poteva che essere Dracula: Dracula Untold, inizialmente, era intitolato significativamente “Dracula Year Zero”, per sottolineare la volontà di azzerare quasi completamente le conoscenze cinematografiche a riguardo per gettare le basi di un mondo oscuro che sia lo scenario perfetto per una nuova stirpe di creature, figlie del folklore ma plasmate con effetti speciali che li possono far camminare tra noi.

Il produttore Alex Kurtzman ha annunciato che la nuova serie di film sarà un mix di orrore e di altri generi, ma a giudicare da quanto avvenuto con Dracula, però, dovremo aspettarci un’atmosfera più fantasy, dove l’orrore cede di netto il passo all’avventura e all’azione. Un’operazione che ricorda molto i crossover Marvel e DC che da anni ormai sono in cima alle classifiche. Intanto per The Wolf Man, previsto per il 30 marzo 2018, è al lavoro Aaron Guzikowski, promettente sceneggiatore dell’avvincentissimo Prisoners, mentre per occuparsi della coerenza dell’universo condiviso è stato messo sotto contratto Jay Basu, famoso per aver creato le ambientazioni suggestive di Monsters: Dark continent, The Lost Dinosaurs e l’ancora inedito Metal Gear Solid.

Ultimamente è stato annunciato che Tom Cruise e Sofia Boutella saranno i protagonisti di La Mummia, previsto per il 9 giugno 2017, ma il film è ancora in fase di preproduzione: dell’apprezzato sceneggiatore John Spaihts [Prometheus e L’ora nera] potremo ammirare l’attesissimo Doctor Strange con Benedict Cumberbatch, Rachel McAdams e Tilda Swinton, nelle sale italiane dal 26 ottobre, e il sci-fi Passengers con Jennifer Lawrence, Chris Pratt, Michael Sheen e Laurence Fishburne, programmato per il periodo prenatalizio.

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Il resto della mostruosa schiera è solo in fase di sviluppo ma Aaron Guzikowski e Chris Morgan [Wanted e Fast & Furious 7] garantiscono spettacolo, azione e scene memorabili. Non ci resta che attendere le date ufficiali, quindi. Intanto possiamo fantasticare pensando ai titoli annunciati: Frankenstein, The creature from the Black Lagoon (con Scarlett Johansson, forse), The invisible man (con Johnny Depp), Van Helsing, La moglie di Frankenstein, per il cui ruolo è palesemente corteggiata Angelina Jolie. Non fateci la bocca, i nomi altisonanti si susseguiranno all’infinito e fino al primo ciak non ci saranno certezze.

Una curiosità a margine: nel 2009, il pronipote di Bram Stoker, Dacre, a quattro mani con Ian Holt, ha scritto Undead – Gli immortali, il seguito ufficiale di Dracula. In questo nuovo romanzo l’antagonista principale è Elizabeth Báthory, anch’essa vampiro, e il protagonista è Quincey Harker, figlio di Jonathan e Mina Harker. Non è chissà quale previsione pensare che anche quest’opera sarà oggetto di una trasposizione, infilata tra una moglie di Frankenstein e un nipote dell’Uomo Lupo, magari!

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Piccoli brividi, di Rob Letterman

Zach Cooper e sua madre Gale, da New York, si trasferiscono nella tranquillissima cittadina di Madison, Delaware. I loro nuovi vicini sono il misterioso Mr. Shivers – che tradotto suonerebbe come il “Sig. Brividi” – e sua figlia Hannah, ma Zach si accorge presto che qualcosa non va in loro. Innamorato della ragazza e desideroso di salvarla dalla segregazione a cui la costringe il padre, vince la sua paura basilare e s’introduce di soppiatto con il suo amico Champ nella casa dai mille misteri. Perché ci sono dei libri di R. L. Stine accuratamente sigillati nella libreria? Aprirne uno? Certo! Che problema potrebbe mai esserci? Uno dei mostri, l’abominevole uomo delle nevi, esce letteralmente dalle pagine del libro seminando il panico. Hannah, Zach e Champ dovranno far rientrare la creatura nel libro prima che possa distruggere l’intera città. Ma nella confusione viene involontariamente liberato anche Slappy, un malefico pupazzo – che sarebbe meglio non inimicarsi chiamandolo così – e il suo piano è l’esatto contrario.

Una goliardica, rocambolesca commedia di ambientazione horror. Molto divertente e ricca di sorprese, adatta per un pubblico dalla scuola secondaria in su, perché considerando il realismo aggiuntivo del 3D probabilmente risulterebbe un vero incubo per uno spettatore più giovane.

Piccoli brividi [Goosebumps] non è l’adattamento cinematografico diretto di uno dei libri della serie, è giusto chiarirlo. Si tratta di un film in cui il protagonista è lo scrittore R. L. Stine in persona, alle prese con i mostri creati dalla sua fervida immaginazione.

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Per chi non lo sapesse, la serie di romanzi brevi Goosebumps [letteralmente “Pelle d’oca”] è un ciclo di libri per ragazzi di ambientazione horror dello scrittore statunitense Robert Lawrence Stine, meglio conosciuto come R. L. Stine, ed edita in Italia da Mondadori con il titolo Piccoli brividi.

Uno straordinario successo internazionale di fine secolo: oltre 500 milioni di copie vendute in tutto il mondo – anche se nel film si parla di oltre 400 milioni – e tradotti in 32 lingue; il Guinness Book of World Records, la considera la serie di libri per bambini più venduta della storia.

Un trionfo commerciale che non poteva non diventare un franchise cinematografico tanto fortunato che la Sony ha annunciato di essere già al lavoro per il sequel. La presenza di Jack Black, che oltre ad interpretare Stine/Shivers doppia anche Slappy e il ragazzo invisibile, è stata confermata per i seguenti capitoli.

La struttura del film emula quella dei libri. È semplice, fin troppo, forse, vista la mancanza di anziani e bambini e di una vita sociale per i cittadini in alternativa al ballo scolastico. Presenta colpi di scena a raffica, ma senza momenti particolarmente forti, con un intento horror che viene sistematicamente controbilanciato in egual misura dalla comicità dei personaggi e delle situazioni. L’età dei protagonisti rivela i destinatari della suspense: adolescenti a volte paurosi, come nel caso di Champ, a volte curiosi e intrepidi, come Hannah, altre volte protagonisti di un percorso formativo, che li porta a lottare contro la propria stessa natura per un fine più alto, Zach ne è un esempio. La particolarità dei racconti è il finale, che molto spesso stravolge l’intero senso della vicenda narrata o, comunque, presenta un colpo di scena impensabile. Non aggiungerò se il film ha tenuto fede o meno a questa peculiare caratteristica, ovviamente.

Un consiglio che invece può tornare utile è quello di non scattare come molle e di godersi lo spettacolo ulteriore dei titoli di coda. Per i credits, infatti, sono state utilizzate le copertine originali dei libri, tutte realizzate, a suo tempo, dall’illustratore Tim Jacobus e rese, oggi, tridimensionali per la trasposizione su grande schermo.

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Con un occhio ai blockbuster fantastici degli ultimi anni e alle fantasmagoriche quanto esilaranti vicende di Scooby-Doo e simili, Piccoli brividi è diretto da Rob Letterman, che non è nuovo, vedi Mostri contro alieni, a disseminare la struttura narrativa di citazioni dei classici della cinematografia, non solo di genere: Fluido mortale (1958) 1941 – Allarme a Hollywood (1979) Gremlins (1984) Nightmare – Dal profondo della notte (1984) e soprattutto cita il suo precedente film I fantastici viaggi di Gulliver (2010) di cui è protagonista sempre Jack Black, un proficuo sodalizio iniziato con un altro doppiaggio dell’attore comico, in Shark tale, infatti, presta la sua voce istrionica allo squalo vegetariano Lenny.

Una chicca per i tantissimi fan ed appassionati: in una delle scene dell’epilogo R. L. Stine appare in un cameo che è oltretutto un ribaltamento di ruoli. Interpreta il professor Black, insegnante di recitazione, salutato nel corridoio della scuola proprio da Jack Black nei panni del famoso scrittore.

Musica del maestro Danny Elfman, inconfondibile fin dalle prime note dell’incipit.

Dallo stesso studio dove è stato realizzato 20 anni fa Jumanji, esce un film che vi farà «spaventare per far ridere». Per giunta ecosostenibile!