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Edward Mani di Forbice – Qualche anno dopo, di Kate Leth e Drew Rausch

Quando a maggio 2017 mi è stato chiesto di recensire questo fumetto la mia gioia è stata immensa. Spesso si suggerisce di non giudicare un libro dalla copertina. Ecco, mai consiglio fu più vero! Ho aspettato tanto perché a caldo il mio giudizio sarebbe stato affrettato, figlio naturale di un pregiudizio e di un’aspettativa tradita. Nel frattempo ho meditato, letto e indagato, non proprio in quest’ordine, diciamo in ordine sparso e ho maturato che nel caso di Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo i lettori non possono che trovarsi un po’ spaesati per il contrasto grafico fra la copertina scelta dall’editore e i disegni sulle pagine che poi ci si trova a sfogliare. Per onestà di giudizio, bisogna ammettere che in fin dei conti si tratta di un prodotto che chiaramente vuole ottenere degli obiettivi economici specifici e, probabilmente, lo fa egregiamente, sfruttando quella gran voglia di sequel e remake che caratterizza l’attuale target, la fascia di mercato che detiene in questa fase storica il potere d’acquisto maggiore: la generazione x, che ha visto il film di Tim Burton e che vuol colmare il gap con i figli-screenager.

Negli Stati Uniti Edward Scissorhands è edito dalla IDW Publishing. Il successo delle nostalgiche sceneggiature della canadese Kate Leth e delle avanguardistiche illustrazioni dell’artista californiano Drew Rausch ha spinto la casa editrice californiana a creare una serie di 10 numeri, poi raccolta nella versione deluxe, oversized handcover che ha convinto la Nicola Pesce Editore a pubblicarne la traduzione: Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo è un volume 14×21 cm, brossurato [cartonato in originale], con alette, di 128 pagine tutte a colori. Nessun problema fin qui, se non fosse per la copertina scelta: quella che è una variant cover celebrativa nell’originale, in Italia diventa la copertina ufficiale, creando, di fatto, un’incoerenza grafica molto forte con i disegni che poi caratterizzano l’intero fumetto.

Questo fumetto non è un pedissequo adattamento del film, che di per sé avrebbe avuto poco senso data la perfezione della pellicola. Si tratta invece di una storia nuova, poetica come l’originale, gotica e toccante”, tranquillizza e spiega la descrizione del prodotto sul sito ufficiale della casa editrice e questo è sufficiente per chiudere la questione e pensare a Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo per quello che è: un fumetto per ragazzi che riprende il filo della narrazione di un film che ha fatto epoca per fornirgli una vita più che nuova, in un contesto contemporaneo… è un po’ la storia stessa di Edward, no?

Sono passati tanti anni, Kimberly, l’amore mai dimenticato di Edward, non c’è più, mentre Edward non è invecchiato di un giorno e continua ad essere l’emblema della solitudine, un mostro dal cuore tenero che il mondo non ha mai capito ma isolato nel suo maniero abbandonato, consolato dalla sola compagnia delle sue creazioni artistiche: figure scaturite dal taglio delle siepi o del ghiaccio. Talmente è solo che quando un giorno trova un altro androide, disattivato perché pericolosamente incompleto, Edward lo riattiva pensando di poterlo gestire… Intanto, Megan, una ragazza curiosa e piena di sentimenti positivi, in tutto e per tutto identica a nonna Kimberly, indaga sul passato della sua famiglia e quindi, in cerca di risposte, si avventura nel vecchio maniero dove vive Edward…

I disegni di Drew Rausch sono intriganti e freschi, accattivanti nei loro colori desaturati e segnati da contrasti decisi, sebbene troppo deformati comicamente per il gusto dei burtoniani. Manca una profondità dei neri, e qui ci sarebbe da sviluppare un discorso infinito su quanto il gotico sia legato necessariamente ad un ampio ventaglio di tonalità dark, in questo caso stranamente mancanti. Soprassediamo e torniamo invece ai pro, visto che il contro è ormai chiarissimo: sono bellissime le tavole di intermezzo fra i capitoli con gli a solo di Edward e le siepi tagliate ad arte sotto un cielo stellato; in appendice altre meravigliose tavole realizzate da vari artisti che hanno reinterpretato secondo la loro natura artistica i personaggi creati da Tim Burton; in più bozzetti, bibbia dei personaggi e dei luoghi e le prove di montaggio di alcune tra le pagine più interessanti.

Se lo si potesse considerare un fumetto a sé, ossia slegato completamente dal prodotto cinematografico originale, Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo sarebbe passabile, per giunta piacevole per molti aspetti, un modo simpatico per avvicinare nuove generazioni ad uno dei personaggi più iconici del già particolare mondo gotico di Tim Burton.

Il risultato finale dipende quindi da quale sia il pubblico chiamato a comprarlo: se si tratta di un’operazione di mercato tipo “Bambini, venite a conoscere Edward” se ne può anche parlare e, seppur, con una certa riluttanza, accettare, ma se l’obiettivo è “Fan di Edward, guardate un po’ chi è tornato”, beh, non ci siamo proprio, perché a venir meno è lo spirito che era alla base di quel novello Frankenstein in cerca di amore.

Il giudizio molto personale e quindi non certo insindacabile del sottoscritto è che Edward Mani Di Forbice – Qualche anno dopo sia un poco riuscito connubio di tematiche horror e mood da commedia adolescenziale con un personaggio talmente fuori dalla sua “naturale” ambientazione gotica da sembrare la caricatura di sé stesso.

Peccato per le incongruenze, peccato per chi si aspettava un fumetto differente, maggiormente conformato all’originale cinematografico.

Aliens 30° Anniversario, di Mark Verheiden e Mark A. Nelson

SaldaPress cavalca il rinnovato interesse del pubblico per la saga di Alien e degli xenomorfi con un ampio ventaglio di fumetti abbastanza liberamente ispirati alle vicende narrate per immagini in movimento da Ridley Scott & company:

Aliens : la serie regina in cui vari disegnatori si alternano per schizzare di terrore visionario le storie sempre scritte da Brian Wood;

Fire & Stone : in contemporanea con l’arrivo nei cinema del film Alien: Covenant, una serie-evento in 5 volumi, che coinvolge in un’unica emozionante storia tutte le properties legate all’Alien Universe: Xenomorfi, Ingegneri, Predators:

  1. Prometheus Fire & Stone,
  2. Aliens Fire & Stone
  3. Predator Fire & Stone,
  4. Alien vs. Predator Fire & Stone,
  5. Prometheus: Omega Fire & Stone

Ma è su un prodotto celebrativo che vogliamo porre maggiore attenzione in questa occasione:

 

ALIENS

30° anniversario

 

Si tratta di un volume celebrativo, unico non solo perché presenta una storia autoconclusiva, la raccolta completa della prima miniserie Aliens, ma anche per alcune peculiarità editoriali che lo rendono apprezzabile al 100% solo nella sua forma cartacea: un’accattivante copertina nera lucida su cui campeggia ovviamente il vero protagonista, lo xenomorfo, apprezzabile anche a livello tattile grazie ad una texture in rilievo dello xenomorfo sul granitico cartonato nero, e a perfezionare il tutto il bordo esterno delle pagine rigorosamente nero, una finezza per veri intenditori, in conformità con l’edizione originale americana.

Il disegno di Aliens 30° anniversario è ovviamente un po’ retro, e non poteva essere altrimenti vista la data della prima pubblicazione Dark Horse che risale al 1988, in occasione della realizzazione del terzo film.

«Verso la fine del 1987, ero al telefono con Mike e, a un certo punto, lui sganciò la bomba che la Dark Horse avrebbe realizzato i fumetti di Aliens. Non si trattava di un adattamento del film, ma di nuove storie derivate dal secondo film. E serviva uno sceneggiatore». Chi pronuncia queste parole è proprio Mark Verheiden lo sceneggiatore-produttore che ha dato vita ai mondi di The Mask, Timecop, Battlestar Galactica, Falling Skies e Daredevil, ora alle prese con la serie tv che dovrebbe risarcire il pubblico dalla deludente trasposizione cinematografica de La Torre Nera.

«Adoravo Aliens! – prosegue Verheiden – Il primo Alien era stato superbo, un film horror dalla vena stupendamente dark. L’Aliens di James Cameron, però, aveva l’azione, l’horror e la passione messi tutti insieme all’interno di un prodotto spettacolare. Poter lavorare con un universo tanto mitico senza le limitazioni dettate dal budget era la realizzazione di un sogno. E, quando Mark Nelson fu scelto per disegnare il progetto, ogni pezzo del puzzle andò al suo posto. Mark realizzava i disegni in bianco e nero utilizzando l’ormai introvabile carta a reazione chimica Duoshade: l’abilità stava nel far emergere dal cartoncino i retini incorporati, stendendo con il pennello un apposito reagente.

I disegni di Mark erano straordinari, incredibilmente dettagliati e carichi di atmosfera. Perciò, quando decisi di evidenziare l’aspetto horror del mondo di Alien, sapevo che lui era la persona giusta e che non avrebbe tradito le mie aspettative. E già che è il momento dei complimenti, tanto di cappello a Willie Schubert, letterista infaticabile; Willie ha fatto un lavoro superlativo con tutte le narrazioni in prima persona che si incrociano nella storia
».

Un bianco e nero fortemente contrastato e una cura massima del dettagli nei momenti cruciali di contatto fra umani e xenomorfi sono i punti forti del fumetto. I testi, molto ben curati, senza mai scadere nel banale, suscitano emozioni che vengono costantemente dinamizzate da un montaggio eccentrico delle vignette.

Una nutrita appendice grafica di eccezionale pregio presenta tavole a tutta pagina che svolgono la funzione di visual credits: tutti i realizzatori dell’opera sono disegnati nei panni di vittime nella catena alimentare degli xenomorfi.

La storia, sebbene oggi possa apparire un po’ inflazionata, è in linea con gli standard dell’epoca: un buon numero di scene di terrore puro, innestate in un mood di estremo delirio, sospeso fra incubi e realtà e tipico di personalità dissociate per via delle conseguenze di un’aggressione mostruosamente aliena: se il mostro non ti divora dall’esterno, sarà la paura di rincontrarlo a divorarti dall’interno!

Per quanto riguarda i personaggi, invece, gli autori hanno dovuto combattere con assenze pesanti e limitazioni che hanno reso il loro lavoro non solo più arduo ma anche frustrante perché questo volume unico risulterà sempre slegato dalla linea narrativa che la saga cinematografica ha intrapreso successivamente. Nella prefazione Verheiden lo spiega chiaramente:

«Quando venne il momento di definire la trama, ricordo di aver ricevuto ben poche direttive. Una era “vogliamo vedere le creature aliene sulla Terra.” Due: nel fumetto devono essere presenti i personaggi di Newt e Hicks”. La terza fu l’unica dettata da motivazioni legate all’aspetto commerciale: non potevamo usare il personaggio di Ripley (divieto che fu revocato in occasione della terza serie Aliens: Earth War).

Era il momento di creare la storia. Volevo esplorare un futuro high-tech e distopico insieme, dove religione, affari e tecnologia entravano in conflitto con le creature aliene, con i nostri disgraziati personaggi che ci finivano in mezzo. Non ci voleva molto a immaginare che le esperienze di Newt con gli xenomorfi su LV-426 avessero lasciato segni profondi nella sua mente o che Hicks, con metà faccia bruciata dall’acido, fosse evitato dai suoi commilitoni come un paria. Un’altra cosa che mi intrigava dei due film erano gli androidi, Ash e Bishop. Sentivo che c’era molto da scavare nell’esistenza di una vita artificiale senziente.

A parte questo, dovevo muovermi con grande attenzione nel fare ipotesi su alcuni aspetti su cui poggia la mitologia del film Aliens. Per esempio sulla vera identità dello “space jockey”. Ho analizzato sia il film che gli scatti del set, ma non avrei mai immaginato che la “faccia” elefantiaca della creatura fosse, come si vede nel film Prometheus del 2012, una maschera d’ossigeno per un pilota umanoide. L’unica analogia tra i miei “space jockey” alieni e gli Ingegneri umanoidi di Prometheus è che entrambi ce l’hanno a morte con gli xenomorfi. Be’, almeno su quello ci siamo trovati.

L’altra ipotesi che facemmo tutti fu che Newt e Hicks fossero sopravvissuti al post-Aliens, ma i titoli di testa di Alien3 mi tolsero rapidamente ogni illusione in proposito. Mi hanno chiesto in molti come mi è sembrato Alien3 e, a essere sinceri, sono combattuto. Perdere Newt e Hicks nella sequenza di apertura del film è stato un vero e proprio schiaffo ai fan che si erano affezionati a quei personaggi. Però, d’altra parte, dopo aver lavorato un po’ nel cinema e nella televisione, mi sento quasi di ammirare l’audacia del film nel provocare “l’attesa dell’inatteso”. Ma, in ogni caso, ammetto che mi ha egoisticamente infastidito che, con Alien3, le mie storie non rientrassero più nel canone ufficiale».

Aliens 30° anniversario è arricchito dai bozzetti, le cover e i frontespizi messi a punto per la prima edizione, da prefazione e postfazione entrambe molto appassionate e dalla storia breve Aliens: Fortunato, tutti elementi succulenti da aggiungere alle già decantate tavole in appendice e texture di copertina, che sono già di per sé lo spettacolo per cui val la pena di pagare il prezzo del “biglietto”. Chi sceglierà una versione digitale sa ora cosa si perde! Al vero fan poco importa se il prodotto non è d’avanguardia. In fondo Alien ci piace così: un’avventura horror sci-fi con quel suo gusto vintage inconfondibile e… rassicurante, mi si passi il termine per esprimere l’abitudine spettatoriale dei più nostalgici, mentre per tutto il resto del pubblico permane l’eco impossibile di quelle affascinanti urla di terrore dissipate nello spazio profondo.

«I personaggi che amate ci sono, lo spirito, il tono e la struttura del mondo anche. Le differenze sono abbastanza sottili da tenervi sulle spine permettendovi di godervi questa corsa sulle montagne russe proprio come la prima volta che avete avuto il coraggio di entrare nel labirinto […] E adesso vi invito a entrate nel nostro parco giochi verso nuove avventure, nuove prospettive, nuove interpretazioni, nuovi sviluppi e svolte impreviste. Familiari ma allo stesso tempo diverse. Venite, e godetevi la corsa».

Sette minuti dopo la mezzanotte, di Juan Antonio Bayona

Sette minuti dopo la mezzanotte [A monster calls nella versione originale] è un film intenso, dalla grande potenza emotiva, che coinvolge e intenerisce, mentre sullo schermo una realtà diegetica avversa al giovane protagonista si alterna con una dimensione parallela in cui si perde il confine fra sogno e realtà.

Si tratta della trasposizione del romanzo ideato da Siobhan Dowd e portato a termine da Patrick Ness, vincitore nel 2012 della Carnegie Medal per la letteratura (dall’infanzia allo young adult) e della Kate Greenaway Medal per le illustrazioni di Jim Kay, un disegnatore fortemente voluto anche da J. K. Rowling per illustrare i suoi Harry Potter.

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Un doppio nodo lega la trama del libro con la genesi del romanzo: la malattia, che non ha permesso all’autrice di concluderlo, e la ferma volontà di chi le era accanto di non scrivere la parola “fine” su un progetto che ne avrebbe perpetuato la memoria. Un legame che non è sfuggito al regista Juan Antonio Bayona che è stato da subito fortemente attratto dal romanzo, trovando nelle sue pagine argomenti che aveva già esplorato in The Orphanage e The Impossible, «personaggi che si trovano in una situazione particolarmente intensa, su cui incombe la morte». Una morte che non è intesa come fine di un percorso, ma come inizio di una nuova avventura ad un livello ulteriore, concetto che rimanda all’origine ancestrale della fiaba come rito d’iniziazione delle comunità primitive e che è una delle prerogative del film.

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«Questa storia inizia come tante altre storie con un bambino troppo grande per essere un bambino e troppo piccolo per essere un uomo… e con un incubo».
Conor O’Malley [Lewis MacDougall] ha 12 anni e l’adolescenza, si sa, è un periodo cruciale della vita. Per lui ancora più difficile, costretto com’è a crescere troppo in fretta per la separazione dei genitori e la malattia visibilmente degenerativa della mamma [Felicity Jones]. In questo contesto già avvilente si aggiunge la beffarda mano del destino che mette il ragazzo nel mirino dei bulli della scuola. Diviso fra il sopportare e il reagire, ma conscio di dover risolvere i propri problemi in qualche modo, Conor rimane suggestionato dalla visione di King Kong, la versione originale del 1933, e così immagina che il tasso secolare che domina la collina di fronte casa loro, posto proprio al centro del cimitero, prenda vita e si trasformi in un gigante dall’anima di fuoco. Sette minuti dopo la mezzanotte, proprio mentre Conor finisce di disegnarlo, il mostro entra nella sua vita per stravolgerla completamente: gli racconterà tre storie e ne pretenderà un’altra da lui, una verità che custodisce gelosamente dietro un muro di paure e rabbia repressa.

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In Sette minuti dopo la mezzanotte ritroviamo tutta la poetica di Bayona: i legami familiari indissolubili e il soprannaturale che separa e unisce, il disegno artistico, che ha la funzione di tramite fra il mondo reale e l’immaginario, sia che si tratti degli schizzi su carta di Conor sia che si tratti dei racconti del mostro, acquerelli animati, la tecnica attraverso la quale il ragazzo esprime la sua fantasia, i suoi desideri, le sue angosce, come accade nei sogni, con rimossi, proiezioni astratte di paure concrete, ricostruzioni interiori di stimoli esterni e precognizioni.

Il sogno, altro elemento poetico molto caro al cinema di Bayona, svolge l’antica funzione di guida e mediazione con il mondo esterno, strettamente legato ai miti arcaici, a situazioni riconducibili a fiabe e leggende popolari. Entrambi, sogni e miti, sono il risultato di una complessa elaborazione e deformazione delle fantasie di desiderio: più individuali nei sogni, collettive in quei “sogni” ancestrali delle comunità primitive che hanno il nome di miti. Quella forma primitiva di pensiero è stata sempre presente nell’inconscio umano ed è chiamata archetipo. Presenti indistintamente in tutte le civiltà, e culture del nostro pianeta, sono gli archetipi a costituire la base del mito e di tutti i suoi derivati. Queste sono gli elementi essenziali che compongono il simbolo che assieme ad altre forme ed altri simboli vanno a formare ciò a cui le società hanno dato il nome di mito.

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Dal mito deriva poi la fiaba, una sintesi di archetipi sociali, psicologici e onirici, nonché chiave di lettura del nostro argomento principe, Sette minuti dopo la mezzanotte. Il film, ambientato in una Manchester non troppo caratterizzata, resa anche più gotica di quello che in realtà è, presenta molte caratteristiche in comune con la struttura del mito e, soprattutto, della fiaba: nell’inverosimiglianza dei fatti e nell’indeterminazione spaziotemporale, dove il “qui e ora” diventa un modello universale di “qualsiasi luogo e tempo”, si muovono personaggi classici come un principe, una matrigna-strega, accanto a figure meno frequenti, come lo speziale e il pastore ecclesiastico, ma tutti contribuiscono a veicolare un messaggio che possa fornire a Conor gli elementi per poter reagire agli eventi che lo hanno colpito. La madre buona [Felicity Jones, la Jyn Erso di Rogue One: A Star Wars Story e candidata agli Oscar® 2018 come protagonista] non è necessariamente da contrapporre alla nonna che appare fredda e distante [Sigourney Weaver, la Ellen Ripley di Alien e candidata agli Oscar® 2018 come non protagonista]; se suo padre [Toby Kebbell; Ben Hur, Warcraft – L’inizio] si è rifatto una vita in America non necessariamente è un dramma; la fede cristiana e la fiducia nella medicina non per forza comportano un ritorno concreto secondo i propri desideri.

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«Le storie vere spesso sono fregature».

Non come un golem difensore degli oppressi (mosso anch’esso dalla verità), non come un jinn che debba esaudire i desideri del suo padrone, l’antropomorfo Tasso secolare, quale saggio maestro di vita, guida Conor in un viaggio dell’eroe all’insegna del coraggio, della fede e della verità, virtù cavalleresche che sembravano ormai appannaggio dei soli supereroi, ultimamente. In molti hanno riscontrato una certa somiglianza fra il Groot de I guardiani della galassia e il Mostro di Bayona animato in animatronic, motion capture e CGI, ma in pochi avranno notato le assonanze con i Giganti mitologici, i Titani, tra cui troviamo Prometeo che dona la conoscenza all’uomo e Cronos che governa il tempo. Dall’alto della sua figura di fantastico mentore, il Mostro – una creatura alta 12 metri al quale è Liam Neeson [Taken, Silence], con il motion capture, a dar vita e voce – mette in guardia il ragazzo («stai usando male il tempo che ti è stato concesso») e gli fornisce, attraverso le fiabe e i loro ambigui personaggi, la giusta chiave di lettura per interpretare la propria coscienza e, in una sola parola, crescere.

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«La maggior parte della gente è una via di mezzo».

Le origini della fiaba si perdono nella notte dei tempi. Teorie su teorie, quali quella mitica, indianista, antroposofica, poligenetica, ancora non hanno trovato un bandolo comune della matassa. Quello che è certo è che la tradizione orale, attraverso riduzioni e semplificazioni di antichi miti, stratificati nel tempo e rielaborati in età successive, ha operato una contaminazione di figure tratte dalla fantasia popolare in modo da poter rendere i racconti fiabeschi uno strumento educativo prezioso per tutti, in barba all’opinione pubblica che ritiene che le fiabe siano pensate ad uso e consumo esclusivamente del divertimento dei bambini.

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Sette minuti dopo la mezzanotte è un film che possiamo definire, senza incorrere in obiezioni, fiabesco, che è stato realizzato combinando l’estrema lucidità della sceneggiatura di Patrick Ness con la fervida fantasia scenografica di J. A Bayona, mantenendo una coerenza estetica con il resto della filmografia grazie ad una fidata crew di tecnici: il direttore della fotografia Óscar Faura [The Orphanage, The Impossible], lo scenografo Eugenio Caballero [Oscar® per Il labirinto del fauno], i montatori Bernat Vilaplana [Crimson Peak, Penny Dreadful e premio Goya per The Impossible e Il labirinto del fauno] e Jaume Martì [Penny Dreadful e Gaudì Award per Transsiberian], il costumista Steven Noble [La teoria del tutto, Una, Trainspotting 2], il compositore Fernando Velásquez [The Orphanage, The Impossible]. Oltre alla già citata animazione mista, il regista impreziosisce le riprese con virtuosismi tecnici che in pochi ormai utilizzano: raccordi sull’oggetto e inquadrature reverse che meravigliano come le acrobazie di un abile circense.

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Magari potrebbe sembrare prematuro parlare di nomination agli Oscar® 2018 ma questa avventura gotica in bilico fra sogno e realtà finora è l’opera migliore sotto ogni aspetto. Non a caso ha vinto 9 premi Goya su 12 ai quali era candidato!

Un aneddoto e una curiosità a margine, per concludere.
L’aneddoto: il regista ha scelto di non dare al suo giovane protagonista la pagina del copione che descriveva l’ultimissima scena di Sette minuti dopo la mezzanotte perché voleva che MacDougall avesse la reazione più naturale possibile e autentica possibile. Il risultato è stato davvero notevole.
La curiosità è, invece, per gli spettatori attenti: non rilassatevi durante l’epilogo e fate caso sulla parete alle fotografie raffiguranti il nonno di Conor.

«Chi ci dice che il sogno non sia tutto il resto?».

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Frank3n5t31n, di Bernard Rose in DVD

Frank3n5t31n è la nuova versione filosofico-fantascientifica del classico della narrativa gotica Frankenstein, o il moderno Prometeo di Mary Shelley, scritta e diretta dal Bernard Rose di Candyman – Terrore dietro lo specchio, che coinvolge il protagonista di allora, Tony Todd [Il corvo, Final destination], qui nelle vesti del barbone cieco che si affeziona alla creatura.

L’ambientazione scelta per l’occasione è una Los Angeles dei giorni nostri, ma la maggior parte del tempo le inquadrature sono in spazi chiusi o in vicoli nascosti che potrebbero essere ovunque, per questioni di budget o per fornire una certa universalità alla storia.

Dopo un incipit che promette bene con soggettive e false soggettive con le palpebre della creatura a fungere da diaframma, il film non mantiene la soggettività dello sguardo, ma esclusivamente in modo verbale, lasciando intendere una narrazione derivata dalla forma epistolare, ingiustificabile in alcun modo visto che il mostro non può aver imparato a scrivere né a leggere nel tempo filmico. Non è un errore isolato, visto i cali di tensione non voluti, primo fra tutti la richiesta di un “sedativo”, che rimanda al “sedatavo” della parodia Frankenstein junior di Mel Brooks, da parte di uno dei medici/Igor aggrediti dal mostro durante la fuga dal laboratorio segreto. Per non parlare dello “spiegone” con annessa creazione del clone tramite una banale stampante 3D, tra l’altro mal realizzata scenograficamente.

«Vedi? È così che ti abbiamo creato. E ti creeremo ancora».

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Peccato! Le premesse per far bene c’erano e ai ragionamenti a cui il Frankenstein di Mary Shelley obbliga, la sceneggiatura espone nuovi spunti di riflessione che però non si specchiano nella regia né tantomeno nella fotografia anch’essa oggettiva e, salvo l’incipit, priva di qualsiasi intento stilistico e sperimentale. Sul braciere delle riflessioni andate in fumo si susseguono le ormai consuete “quale sia il limite oltre il quale la scienza non può andare”, “se porre o no un freno alle ricerche sul mistero della vita e sulla salvezza dalla morte”, “se si può definire “mostro” una creatura innocente che, abbandonata a se stessa, ha la sola colpa di essere amorale, di non avere, cioè, una morale da seguire, e quindi di non saper distinguere il bene dal male”, “o se invece si dovrebbe considerare mostruoso colui che lo crea, trasformandolo in esempio della tracotanza della scienza che sfida il divino per poi cercare di distruggerlo, una volta conscio di aver creato un essere imperfetto, non gradito alla società in quanto non conforme allo status sociale “umano” e ritenuto, erroneamente, privo di un qualsiasi scopo vitale.

«Nonostante la sua desolazione anche il nemico di Dio e dell’uomo aveva degli amici. Io sono solo»

Ma il “mostro”, interpretato dal Xavier Samuel di The Twilght Saga e Two mothers, ha un istinto di sopravvivenza che va ben oltre le capacità di un uomo comune, ma contrariamente a quanto accade ai colleghi supereoi Marvel o DC, quel suo essere diverso nell’aspetto fisico e quel suo primitivo modo di comportarsi spingono la società a non accettarlo e ad emarginarlo, nonostante sia forte in lui il desiderio amorale, ovvero di avere l’opportunità di ricevere amore e di dimostrarlo agli altri.

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«Entità con una coscienza», così viene definito da Elizabeth [Carrie-Ann Moss, Memento, Matrix], che con il marito, il dottor Victor Frankenstein [Danny Huston, 30 giorni di buio, Big eyes], ha dato vita al clone umano che è poi sfuggito al controllo. La donna, inizialmente, si relaziona con la creatura come una madre amorevole, che, però, contemporaneamente, vede in quel corpo, giovane e bello, un possibile sfogo dei suoi desideri sessuali, ribaditi peraltro nel finale in una discutibile scena che Freud definirebbe “primaria”. Ma, successivamente, avuta l’occasione per il riconoscimento e il ricongiungimento con la sua creatura, la rifiuta, abbandonandola a se stessa e condannandola all’autodeterminazione forzata nella desolazione più assoluta, senza una guida.

«Un angelo caduto dal cielo si trasforma in diavolo».

Nonostante ciò, è Elizabeth a diventare lo scopo di vita del mostro: quell’amore primordiale ricevuto tra le braccia della donna viene visto, dalla mente del ragazzo, come l’ultimo posto dove sia stato al sicuro, desiderato, felice; rappresenta, per lui, quella forza che si contrappone alle limitazioni che il mondo gli ha arbitrariamente imposto, come imposta gli era stata la morte, per giunta dalle stesse mani che gli avevano imposto la vita; infine, è quel calore simile alla fiamma di un accendino che in altre versioni del Frankenstein, la creatura fugge, in quanto emblema terreno della luce divina, il fulmine del romanzo, che lo ha visto nascere e che potrebbe ucciderlo.

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SPOILER – Solo nel finale ottiene qualcosa di ormai insperato: una carezza e, soprattutto, l’attribuzione del nome Adam, di chiaro riferimento biblico: un gesto che per qualsiasi religione ha una valenza mistica, oltre a fornire dignità, senso di appartenenza alla comunità e segno di distinzione dalla massa.

Ma un piccolo raggio di luce non dissipa di certo le tenebre e la tragedia ha il suo edipico epilogo nel momento in cui il dottor Frankenstein uccide accidentalmente Elizabeth nell’ennesimo tentativo di cancellare il suo coriaceo “sbaglio”.

Quel profondo desiderio di calore umano che è una sorta di freudiano ritorno nell’utero, non può che avere il suo compimento nel gesto più estremo dell’autodeterminismo di Adam nel calore delle fiamme, finalmente stretto nel fortemente voluto abbraccio tra simili, traducibile visivamente in un ammasso di carne ormai priva di vita e un ammasso di carne morta privata d’amore.  – SPOILER

«Se non posso ispirare amore, seminerò paura».

E per l’ennesima volta, ma questa volta anche extradiegeticamente parlando, lo spettatore tiferà per la vendetta della creatura a scapito dei veri mostri, coloro che hanno il coraggio di farsi ancora chiamare uomini.

IL DVD

REGIA: Bernard Rose INTERPRETI: Xavier Samuel, Carrie-Ann Moss, Tony Todd, Danny Huston, Maya Erskine TITOLO ORIGINALE: Frank3n5t31n GENERE: horror, fantascienza DURATA: 86′ ORIGINE: USA, 2016 LINGUE: Italiano 5.1 Dolby Digital, Inglese 5.1 Dolby Digital SOTTOTITOLI: Italiano per non udenti EXTRA: Trailer DISTRIBUZIONE: Barter Entertainment

Poco da dire per il trattamento homevideo di Frank3n5te1n, che è distribuito da Barter Entertainment in un’edizione DVD minimalista che non aggiunge nulla alla visione del film: classica custodia amaray su cui campeggia il bellissimo movie poster del film, disco unico, audio multicanale in Dolby Digital, in italiano e inglese, formato video widescreen in rapporto 1.85:1. Tra gli extra solo il trailer.

Il film è vietato ai minori di 14 anni.

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