oscar 2015

Birdman, di Alejandro González Iñárritu

Mentre Legolas ha lasciato a casa arco e frecce per sfrecciare con la sua moto fiammante sul palcoscenico di Broadway e il perfido Loki ha smesso i panni dell’Asgardiano per indossare quelli di Colriolano nei teatri londinesi, il supereroe Birdman è ancora chiuso nel suo camerino polveroso a domandarsi se, piuttosto che salire su quel palcoscenico, non sarebbe stato più più facile rimanere sul set del suo film, ripetere le scene all’infinito, adagiarsi comodamente sugli effetti speciali ed essere osannato dalla folla in delirio per un paio di giravolte tra i grattacieli di New York. Questa è Broadway e qui si va in scena ogni giorno, portandosi addosso i mesi di prove, gli imprevisti, i cambi di programma all’ultimo minuto, gli umori degli attori e soprattutto la paura di deludere il pubblico, di inorridire i critici del New York Times e di firmare in una scena la propria condanna all’oblio. Qui e la computer grafica non è ancora arrivata e il trucco è l’unico effetto speciale possibile, fatta eccezione per qualche effetto sonoro combinato ad arte con una spruzzata di pioggia e un faretto lampeggiante, e gli attori non hanno tempo per ripetere le scene all’infinito perché il tempo dello spettacolo è unico e fluisce senza pause fino alla fine. L’errore non è concesso perché gli occhi degli spettatori sono lì, puntati dritto sul palco, e non si spengono ad intermittenza come le videocamere sul set. Per questo gli attori devono essere costantemente concentrati sulla parte e controllare ogni movimento per tutta la durata dello spettacolo, senza mai tirare il fiato, senza mai spogliarsi dei loro personaggi, sia presenti che passati.

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Riggan Thompson si è convertito dal cinema al teatro e ora, secondo le regole di quest’arte a lui sconosciuta, la sua vita è destinata a scorrere in un atto unico, senza pause e senza stacchi, in cui il corpo è sempre in scena, si dibatte sul palcoscenico, attraversa il teatro fino a raggiungere i ai camerini, esce in strada e vola sulla città, per poi ritornare sui suoi passi e ritornare ancora in scena.   La videocamera è sempre accesa su di lui e lo segue come un’ombra in tutto ciò che fa e, simulando un unico piano sequenza, lo pedina sin nella sua intimità, scruta la sua coscienza e scava tra i suoi ruoli per cercare l’uomo sotto lo strato pesante dei personaggi che nel tempo ne hanno preso il posto. Dopo una poco gloriosa carriera nel mondo dei cinefumetti, oggi Riggan va in scena per la prima volta al St. James Theatre di Broadway nei panni del protagonista disperato di Di cosa parliamo, quando parliamo d’amore?, un adattamento dell’opera di Raymond Carver, lontano anni luce dai lavori che lo hanno reso celebre agli occhi del grande pubblico e privato della benevolenza dei critici dal gusto raffinato. Ma a dispetto della sua immagine pubblica è deciso a convertire l’idolatria dei molti nell’ammirazione dei pochi, dimostrando al mondo intero la sua destrezza sul nudo palcoscenico, senza trucchi ed effetti speciali, e un pezzo della letteratura americana tra le mani.

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Il suo unico nemico nella realizzazione di questa impresa ambiziosa è l’amato-odiato Birdman, il supereroe dallo sguardo impenetrabile, che non riesce a staccare neanche per un istante la mascella impertinente e il costume di piume d’acciaio dal corpo di Riggan. Il supereroe tracotante e l’attore disperato convivono nella stessa stanza come nella stessa carne, non possono fare l’uno a meno dell’altro e cercano di annullarsi a vicenda, mentre Riggan si dibatte in questo delirio schizofrenico tra i suoi personaggi cercando di ricongiungersi con la sua umanità. L’eterna lotta tra attore e personaggio si sublima così tra le mani di Alejandro González Iñárritu, che entra violentemente nei camerini di Broadway per mostrare il conflitto tra ignoranza apparente e virtù autodichiarata, che spacca in due il mondo dello spettacolo e coinvolge in una dimensione squisitamente metanarrativa tutti coloro che ruotano intorno all’arte drammatica, dagli attori schizofrenici ai registi narcisisti, dai cacciatori di visualizzazioni ai critici d’altri tempi. La vita e lo spettacolo in Birdman seguono lo stesso binario, si incrociano sul palcoscenico e si dividono nel sogno, là dove all the world’s a stage e tutti siamo attori, più o meno consapevoli, di un dramma universale scritto da un regista che ama assistere alla sofferenza dell’uomo e ci spinge a cercare incessantemente l’approvazione degli altri e l’immortalità dell’anima, in un unico gesto memorabile che alla fine dei giochi fa cadere ogni maschera e mostra al mondo chi siamo davvero.

Whiplash, di Damien Chazelle

Per essere un buon musicista bisogna conoscere profondamente il tempo e il ritmo della musica, tenere sotto controllo l’emozione, essere costanti e metodici, provare i pezzi fino allo sfinimento, e naturalmente avere un talento naturale. Ma per essere il migliore bisogna superare le proprie aspettative, mettendo in gioco anima e corpo per creare un momento di estasi unico, in cui la tecnica incontra la creatività, in un equilibrio perfetto tra sangue, sudore e cervello. Andrew è uno dei candidati all’eternità nell’olimpo della musica e da quando si è iscritto nella scuola di musica più importante di New York il suo unico obiettivo è entrare a far parte della ristrettissima orchestra di Terence Fletcher, l’unico insegnante in grado di distinguere un musicista geniale da uno mediocre alla prima battuta. Fletcher non ha tempo per compassione, per le giustificazioni e per le rimostranze, perché il suo unico compito e quello di scovare l’eccellenza tra la miriade di studenti che affollano le aule della scuola con i loro strumenti pesanti e il cuore pieno di aspettative. Dal suo punto di vista chi non ha talento vale meno di niente e sta occupando deliberatamente un posto che non gli appartiene, quindi farebbe bene a fare le valigie e a tornare sui suoi passi per cercare un lavoro vero. Quando il suo orecchio sottile incontra la batteria di Andrew, uno studente di belle speranze tra i tanti, scatta in lui il desiderio di metterlo alla prova, e di sfidare senza alcuna pietà i suoi limiti fisici e mentali per scoprire la sua passione rudimentale per i grandi del jazz è supportata da un’abilità fuori dal comune.

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Il mondo dei vecchi, esperti ma saccenti, si scontra in un testa a testa senza precedenti con l’arroganza dei giovani, nutrita dalla fame di successo e dal desiderio di sfondare a costo della vita stessa. A ogni passo avanti del giovane Andrew corrisponde una flagellata sulla sua autostima, a ogni successo un atroce fallimento. Fletcher non indietreggia davanti allo sforzo sovrumano che fa il ragazzo per colpirlo, non si lascia intenerire dal sangue né dal sudore, perché anche quello fa parte del gioco e, mentre Andrew perde il sonno per affinare la tecnica, lui gioca slealmente per affermare il suo potere assoluto. La sala prove del conservatorio è il ring cruento su cui si fronteggiano discepolo e insegnante a colpi di bacchette, cadendo e rialzandosi all’infinito, pressando la psiche, consumandosi le dita, mentre Damien Chazelle li osserva in silenzio dietro la sua macchina da presa, indugiando sulle pieghe dei loro volti, sui muscoli in tensione e sui rivoli di sangue che macchinano la batteria. Per fare musica ad alto livello, come per fare cinema, bisogna lasciare che l’arte assorba la mente e consumi il corpo se neccessario, questo ci dice Chazelle. Bisogna prendere un piatto in testa per diventare Charlie Parker e suonare l’assolo più incredibile che la storia ricordi, e non bisogna mai rilassarsi, mai compiacersi, perché le possibilità di migliorarsi sono infinite. In questa battaglia contro i propri limiti le parole “ben fatto” sono il nemico più pericoloso, perché corrispondono a una sosta quando non bisogna fermarsi, e Chazelle, da giovane e talentuoso cineasta, non si ferma mai e afferma attraverso il medium musicale le possibilità infinite di espressione del medium cinematografico, che scava senza pietà nei luoghi più oscuri dell’animo umano, nelle motivazioni più incomprensibili di un maestro che non è mai diventato un grande e cerca l’autoaffermazione nella realizzazione dei suoi allievi, a costo di portare l’arte alle conseguenze più estreme, là dove non dovrebbe mai arrivare.

La storia della principessa splendente candidata all’Oscar 2015

Il capolavoro dello Studio Ghibli, La storia della principessa splendente di Isao Takahata, presentato al cinema da Lucky Red in un evento esclusivo che si è svolto i primi giorni di novembre, concorrerà nella corsa agli Oscar 2015 come Miglior Film d’Animazione.

La storia della Principessa Splendente si ispira a uno dei più popolari racconti giapponesi (Taketori monogatari, Il racconto di un tagliabambù) che narra le vicende di Kaguya, una minuscola creatura arrivata dalla Luna, che viene trovata in una canna di bambù da un vecchio tagliatore. Accolta e cresciuta come una figlia dal tagliabambù e sua moglie, la piccola cresce a vista d’occhio, affascinando tutti quelli che entrano in contatto con lei, fino a diventare una splendida giovane donna. Molti sono i suoi pretendenti, ma nessuno è in grado di portarle quello che davvero desidera, e nessuno, nemmeno l’Imperatore, riesce a conquistare il suo cuore.

L’educazione di una nobile damigella

Proposte di matrimonio

l banchetto per la nominazione