oscar 2017

Barriere, di Denzel Washington

Per il suo debutto dietro la mdp, Denzel Washington sceglie l’opera teatrale FencesBarriere di August Wilson. L’attore pluripremiato dirige se stesso in un film che è stato inserito nella lista di finalisti agli Oscar® 2017.

Ambientato negli anni Cinquanta, il film Barriere porta sul grande schermo la storia di una promessa mai mantenuta del baseball professionistico, Troy Maxson [Denzel Washington], che, per quanto avesse tutte le carte in regola per sfondare e avere il mondo ai suoi piedi, finisce per fare il netturbino.
«Ho visto solo due giocare meglio di te: Babe Ruth e Josh Gibson»

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La componente prettamente sportiva risulta quasi inesistente dal punto di vista scenico, ma rappresenta sicuramente il nucleo principale attorno a cui ruota la vita del protagonista, il big bang che ha generato quell’universo parallelo che gli ha rovinato la vita. Lo sport, insomma, diventa il MacGuffin per discutere di questioni razziali, conflitti generazionali e drammi interiori.
«Perché i bianchi guidano e i neri raccolgono soltanto?»

Tra battute ironiche sulle discriminazioni, discussioni su denaro, congetture sul futuro e strampalate storielle da vecchi ubriaconi (in questo, come nell’atmosfera fornita da scenografia e costumi, ricorda molto la vecchia sit-com Sanford and son), nel cortile di una piccola casa in una bassa periferia, va in scena la vita. Una vita interpretata da Troy come fosse una enorme partita di baseball, dove non esistono buoni o cattivi, nessun perdente, ma solo vinti e vincitori; e se l’uomo tende a giocare la sua personale sfida con il destino perdendo di vista i valori del gioco di squadra per eccellenza, la famiglia, che lui stesso, nel bene e nel male, ha contribuito a forgiare, fornendo un anti-modello che è perlopiù una presenza ingombrante, un ostacolo da superare, l’ennesima barriera.
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«You have to take the crookeds with the straights!»
[Devi saper prendere sia i lanci dritti sia quelli sporchi]

Le barriere del titolo sono sicuramente gli ostacoli che non permettono agli afroamericani di affermarsi in qualsiasi ambito sociale nel periodo in questione, ma le barriere più difficili da sormontare perché fortemente radicate nelle convinzioni di un padre di famiglia che ragiona a suo modo, magari pensando di tutelare una famiglia che, in realtà, saprebbe affermarsi benissimo anche senza la sua guida, la sua ingombrante figura. Figurativamente la barriera è rappresentata da uno steccato classico americano, una recinzione che dovrebbe isolare la famiglia Maxson dal resto del mondo, un mondo che Troy non ha mai saputo prendere per il verso giusto, forse. Inevitabile in questo contesto lo scontro generazionale e il sollevarsi di nuove palizzate.
«Non hai fatto altro che ostacolarmi per paura che fossi migliore di te»

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I sentimenti che derivano dal fallimento sono facili da intuire, ma non certo da trasmettere allo spettatore. La rabbia che bolle sotto la pelle come una pentola a pressione, la delusione cocente per il mancato successo, che ha portato ad una non accettazione di sé e, di conseguenza, di tutto ciò che intorno a sé, all’interno della recinzione che Troy vuole costruire, non è come potrebbe essere, non è come dovrebbe essere, neanche per chi ami, partner e figli.
«Hai commesso un errore. Hai “sventolato” e non hai battuto. È il primo strike. Sei nel box di battuta. È il primo strike, non farti mettere strike out!»

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Ad affiancare Denzel Washington nel ruolo di Rose Lee è Viola Davis [Suicide Squad, Prisoners], miglior attrice protagonista ai Golden Globe 2017 ed in lizza per l’Oscar®. Impressionante come riesca a rendere il climax di sicurezza e presenza scenica che il suo personaggio percorre, esternando un caleidoscopio di sentimenti impressionante e suggestivo, ma nello stesso tempo misurato. Al photofinish se la vedrà con un mostro sacro come Meryl Streep [Florence], la veterana Isabelle Huppert [Elle], l’outsider Ruth Negga [Loving], la poliedrica Natalie Portman [Jackie] e la favorita Emma Stone [La La Land]. Chi la spunterà?
«Non temo la Morte. L’ho già incontrata e mi ci sono battuto»

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La La Land, di Damien Chazelle

C’è voglia di bellezza, di energia e di eleganza vintage nell’aria. E La La Land li serve allo spettatore su un vassoio d’argento. Più precisamente li confeziona in modo magistrale e crea un mosaico raffinato che non tralascia nessuno dei clichè più amati e nostalgicamente rimpianti di (e da) un certo cinema d’epoca, riferendosi in modo particolare alla migliore tradizione dei film musicali.

Una pellicola che fa qualcosa di più che raccontare una storia: sfrutta la storia che intende raccontare per esprimere un reverenziale feticismo nei confronti della Settima Arte e per valorizzarne tutti i meccanismi con attestati genuini di passione, culto e fedeltà. Il risultato è una sorta di “narrazione visiva” che fa della citazione e del virtuosismo la sua cifra stilistica.

La storia di due indomiti sognatori che si scontrano con una realtà feroce e deludente appare quasi banale nella sua semplicità ma il linguaggio cinematografico corre in soccorso del regista e offre l’imprevedibile soluzione di un montaggio particolare, che utilizza connessioni a volte al limite dell’illogico per rendere al meglio quello che vuole essere un lirico resoconto onirico. La dedica della locandina “ai sognatori” assume così un senso diverso e più profondo: il film è dedicato tanto a chi è capace di lottare per i propri sogni quanto a chi è capace di sognare a occhi aperti.

Ogni elemento sembra un avvertimento: il cinema è un mezzo di espressione creativa e al contempo una disciplina che usa tecniche precise per raccontare una storia, il film vuole allora mettere a nudo quelle tecniche che da dietro le quinte creano la magia del cinema istituendo con lo spettatore un tacito accordo basato su un dialogo visivo. Si ricompongono così una serie di elementi tecnici che, più o meno smascherati, vogliono interagire con le emozioni dello spettatore per creare una risposta emotiva, compresi ad esempio la palette cromatica irresistibilmente studiata e il richiamo costante a una certa moda anni 50 (forse anche un tantino esagerato per quanto serva a perseguire un facile consenso da parte del pubblico) nonostante la storia sia ambientata ai giorni nostri.

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Lei, aspirante attrice, fa la cameriera in un bar mentre, un provino dopo l’altro, colleziona una serie di umilianti figuracce e fallimenti. Tra un passo di danza e una canzone, la convincente interpretazione di Emma Stone riesce ad associare la grazia e la leggerezza propria di una moderna Cenerentola che insegue il suo sogno, alla fragilità e all’autenticità di una donna che lavora con fatica e dedizione per costruire il proprio avvenire.

Lui, artista incompreso e animo profondo, cerca di sopravvivere suonando il piano in un ristorante ma convive con la frustrazione di non poter esprimere davvero se stesso e sogna di aprire un locale in cui salvaguardare la libertà degli artisti e la purezza del jazz, che venera come un culto.

Costretto a scendere a compromessi suonando in una band di musica commerciale, scopre che la facile fama raggiunta non lo rende felice mentre il vecchio sogno resta sopito in attesa di uno spiraglio di volontà che lo costringa a mettere tutto in discussione.

Entrambi i protagonisti sperimentano quanto possa essere faticosa e al tempo stesso eccitante la strada della autoaffermazione in una città che solo in apparenza è l’emblema del self-made-man, Los Angeles, “la città delle stelle”.

La loro simbiosi come coppia artistica è declinata in ogni possibile linguaggio cinematografico e scenico: dal duetto cantato all’irresistibile passo di danza che rievoca la perfetta sintesi artistica rappresentata da Fred Astaire e Ginger Rogers.

Il film ha ottenuto un successo di critica strepitoso: il record già stabilito con la vittoria di tutte e sette i Golden Globe a cui era candidato è stato confermato dalle 14 nomination agli Oscar, numeri fin’ora raggiunti solo da titoli del calibro di Eva contro Eva e Titanic. Il prossimo 26 febbraio, durante la Notte degli Oscar, si scoprirà se La La Land riuscirà a conquistare i titoli più prestigiosi  come Miglior film, Migliore colonna sonora e Miglior sceneggiatura. Emma Stone, già premiata da uno stuolo di apprezzamenti da parte di critica e pubblico oltre che da una serie di importanti riconoscimenti internazionali, è data quasi certamente vincitrice dell’ambita statuetta come Migliore attrice protagonista per la sua interpretazione di Mia Dolan, eroina femminile del film.

La regia del giovane Damien Chazelle, candidato all’Oscar come Miglior regista, è volutamente enfatizzata, quasi teatrale: luci, movimenti degli attori, dialoghi, espressività dei volti, pose plastiche e inquadrature “frontali” danno l’impressione di assistere a una pièce teatrale.

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La luccicante spettacolarità del cabaret è addirittura esplicitamente citata in una scena del film, attraverso una metafora che intende suggerire la realtà finta e stereotipata entro cui danzano i due protagonisti.

Tutti i personaggi si muovono come in una immensa coreografia, una danza continua tale da creare un continuum fluido con le scene realmente coreografate della pellicola. L’ambientazione della storia funziona come un immenso palcoscenico su cui si realizza una disposizione di elementi mai causale ma sempre funzionale al movimento dei personaggi. Uno schermo in 16:9 restituisce delle vere e proprie scenografie studiate al vetriolo mentre la gestualità enfatizzata dei personaggi sembra quasi voler portare allo scoperto il ruolo dell’attore di emulare le emozioni umane.

La composizione di ogni singola scena è così un meraviglioso artificio imposto e la dimensione comunicativa si esprime attraverso un linguaggio riconosciuto universalmente dai suoi fruitori, quello dell’industria cinematografica.

Il cinema dunque, come fine ultimo e come strumento comunicativo, scelto non a caso in quanto arte che più di ogni altra ha saputo rendere reale i sogni, costruendo un mercato che quei sogni li costruisce e li alimenta. La dedica sulla locandina suggerisce allora che il film è indirizzato a tutti coloro che si vogliono lasciar trasportare in un sogno ad occhi aperti, attraverso quel mistico contenitore immaginifico che è la sala cinematografica.

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La delicatezza è il leitmotiv del film, anche nei momenti di crisi dei due protagonisti, anche quando la musica invita a scatenarsi, una leggerezza di sottofondo sfuma l’atmosfera. Come se tutto concorresse a rendere il senso di sfuggevolezza e di calorosa trepidazione che accompagna il percorso di realizzazione di un sogno. Ma il film si domanda anche quale sia il prezzo che si è disposti a pagare per vedere il proprio sogno diventare reale. La risposta è definitiva e senza possibilità di appello: una piena e totale serenità chiede in pegno la purezza di un sentimento travolgente che deve sacrificarsi e far posto a una felicità reale ma forse meno appagante.  Chi sono dunque i sognatori? Coloro che lottano duramente per realizzare i propri sogni, nonostante i fallimenti e le umiliazioni, per scoprire alla fine di questo duro percorso che ne valeva la pena nonostante quello che si è perso per strada. O forse proprio in nome di quello.

La sequenza finale del film, quella che in sostanza emoziona maggiormente e che tira le somme dell’intera vicenda, vede il compimento definitivo della grande metafora del cinema come sogno ad occhi aperti mostrando quella parte di vita che il destino avrebbe potuto riservare “se…”

L’accensione delle luci di sala è l’equivalente del ripiombare nella realtà dopo un sogno. Il sogno intrappolato nella dimensione della realtà mostra tutti i suoi limiti, mentre quello che “poteva essere se…” resta qualcosa di meravigliosamente inafferrabile.

Perché il sogno per essere tale deve vivere di incompletezza, di fame e di follia. Come la scena di un film che per essere credibile e emozionante non deve far trapelare gli oggetti di scena né la bidimensionalità del set. Pena la perdita delle emozioni più autentiche.

Ma infondo quello che insegnano i due protagonisti di questa romantica fiaba musicale, e attraverso essi il cinema in generale, è che non importa se certe storie siano vere o inventate, quello che conta è che si sia vissuto il sogno.

Hell or high water, di David Mackenzie

Prima di parlare di Hell or high water permettemi di fare un passo indietro per osservare il fenomeno dalla giusta distanza ed ammirare il piano d’insieme.

Pensare che il genere western sia ormai sepolto in qualche fossa senza nome con una pietra tombale anonima nell’era dei social e del “tutto subito” è legittimo. I tempi di un tirato duello giocato sui nervi, tesissimi, mentre i rivali si scrutano e al di fuori del loro animo, giusto o malvagio che sia, sembra non accada nulla, sembra non sia più gradito dalle nuove generazioni, cresciute con ricostruzioni in CGI o realtà aumentata di qualsiasi cosa, anche esistente in natura, con coreografie ben studiate che prolungano all’inverosimile scazzottate e combattimenti spesso privi di un pathos ben costruito, di un’epicità tangibile, di un background che mantenga l’interesse anche in rapporto alle fruizioni successive del prodotto cinematografico.

Eppure David Mackenzie è riuscito a confezionare un western, Hell or high water, dall’ambientazione contemporanea che mantiene vivo quell’epico scontro se vogliamo cavalleresco tra uomini di legge e banditi, riproponendo in chiave moderna il sapore della caducità del tempo e dell’anacronistica lotta manichea tra un Bene e un Male che s’intrecciano senza soluzione di continuità, lasciando il retrogusto dolceamaro di una vendetta che appare giusta e di una giustizia che risulta in fin dei conti solo vendicativa.

In Hell or high water dominano i dualismi. Lo scontro non è solo reato vs legge, outsider vs sceriffi, è cowboy in disgrazia vs burocrazia e banche. Alla coppia di fratelli, Toby [Chris Pine, il capitano Kirk del nuovo Star Trek] e Tanner [Ben Foster, L’ultima tempesta, Warcraft] Howard, rapinatori di banche, si contrappone in chiasmo la coppia sceriffo-vice, in cui uno è la mente e l’altro il braccio, uno ragiona da outsider e l’altro medita nell’ombra, tentando un’emulazione dell’altro che non può e forse non deve riuscire, perché ognuno ha un destino scritto nel carattere, che lo voglia o no, e che si affanni o no a cambiar traiettoria.

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Hell or high water è un film che ha alla base una bellissima storia di amore fraterno, virilmente commovente, messa in scena con maestria, senza esasperazioni recitative, perché è in grado di comunicare visivamente e verbalmente tutto l’amore che c’è ben nascosto dietro un vaffanculo detto con il cuore.

«Ti voglio bene, Toby! Sul serio»
«Anch’io»
«Ehi, Toby! Vaffanculo!»
«Vaffanculo tu!»

Sebbene i protagonisti effettivi siano i fratelli Howard, a riempire lo schermo e le orecchie, candidandosi a gran voce per il premio Oscar® 2017, è il Texas Ranger Marcus Hamilton, interpretato dal già premio Oscar® come protagonista per Crazy heart nel 2010, Jeff Bridges. Il ranger di Bridges è un personaggio dal carattere scomodo sotto ogni aspetto, per sé ma soprattutto per chi gli sta intorno, ammesso che qualcuno voglia star nei suoi paraggi: un vedovo rancoroso verso la vita in generale, un cane rabbioso che sa indagare quasi quanto ringhiare le sue intolleranze da texano DOC all’infinito, che non molla la caccia all’uomo e in una battaglia personale anche contro il tempo che lo vuole in pensione contro la sua ferma volontà narcisista di rimanere in compagnia di «qualcuno meno in gamba da umiliare».

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Hell or high water è inoltre candidato come miglior film, miglior sceneggiatura originale [Taylor Sheridan, Sicario] e miglior montaggio [Jake Roberts, Brooklyn]. Manca invece la nomination per la colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis, che paga dazio nello scontro impari con la concorrenza di questo 2017, La La Land su tutti. Nel quintetto in lizza per l’ambita statuetta, è Passengers che ha soffiato ingiustamente il posto ad una serie di canzoni di straordinaria orecchiabilità e significato narrativo, che rappresentano la ciliegina sulla torta, o meglio le amarene, perché ben si innestano in un tessuto narrativo da western revival decadente, raccontando, con le note ancora prima che con la fotografia seppur incantevole, storie che, in altre epoche, sarebbero state tramandate sottoforma di leggende popolari. Il trionfo di Hell or high water come miglior film significherebbe non un ritorno in auge del passato, ma la possibilità che il futuro abbia sempre storie da raccontare per ogni genere, evolvendosi secondo le necessità formali contemporanee in un prodotto che sappia riempire schermo e sedili.

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Una menzione speciale, infine, è d’obbligo per la scafata cameriera-“vipera” [la caratterista Margaret Bowman, Non è un paese per vecchi] di un ristorante monopietanza stile T-bone, un personaggio che è già cult, l’unico che zittisca il ranger Hamilton.

«Ho caldo e non ho voglia di lavorare! Allora, che cos’è che non volete? … Lavoro in questo ristorante da cinquant’anni e nessun cliente ha mai ordinato altro che una bistecca con patate al forno! A eccezione di uno stronzo di New York che voleva una trota nel 1987. Non serviamo nessuna dannata trota! Soltanto bistecche! Quindi i casi sono due: o non volete il contorno di mais o non volete il contorno di fagiolini. Che cos’è che non volete?».

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Tutte le nomination agli Oscar™ 2017

Dopo i migliori film del 2016 secondo la redazione di ShakeMovies, arrivano fresche di annuncio tutte le nomination agli Oscar™ 2017, l’89esima edizione del premio più atteso dell’anno per i cinefili più incalliti. La cerimonia si terrà al Dolby Theatre di Los Angeles il 26 febbraio 2017, affidata all’ironia e all’estro di Jimmy Kimmel, alla sua prima conduzione degli Oscar™ .

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MIGLIOR FILM:

Arrival
Fences (Barriere)
Hacksaw Ridge (La battaglia di Hacksaw Ridge)
Hell or High Water
Hidden Figures (Il diritto di contare)
La La Land
Lion
Manchester by the Sea
Moonlight

MIGLIOR REGISTA:

Denis Villeneuve — Arrival
Mel Gibson — Hacksaw Ridge (La battaglia di Hacksaw Ridge)
Damien Chazelle — La La Land
Kenneth Lonergan — Manchester by the Sea
Barry Jenkins — Moonlight

MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA:

Casey Affleck — Manchester by the Sea
Andrew Garfield — (La battaglia di Hacksaw Ridge)
Ryan Gosling — La La Land
Viggo Mortensen — Captain Fantastic
Denzel Washington — Fences (Barriere)

MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA:

Isabelle Huppert — Elle
Ruth Negga — Loving
Natalie Portman — Jackie
Emma Stone — La La Land
Meryl Streep — Florence Foster Jenkins

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA:

Mahershala Ali — Moonlight
Jeff Bridges — Hell or High Water
Lucas Hedges — Manchester by the Sea
Dev Patel — Lion
Michael Shannon — Nocturnal Animals (Animali notturni)

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA:

Viola Davis — Fences (Barriere)
Naomie Harris — Moonlight
Nicole Kidman — Lion
Octavia Spencer — Hidden Figures (Il diritto di contare)
Michelle Williams — Manchester by the Sea

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE:

Taylor Sheridan — Hell or High Water
Damien Chazelle — La La Land
Yorgos Lanthimos, Efthymis Filippou — The Lobster
Kenneth Lonergan — Manchester by the Sea
Mike Mills — 20th Century Women

MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE:

Eric Heisserer — Arrival
August Wilson — Fences (Barriere)
Allison Schroeder, Theodore Melfi — Hidden Figures (Il diritto di contare)
Luke Davies — Lion
Barry Jenkins — Moonlight

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MIGLIOR FILM D’ANIMAZIONE:

Kubo and the Two Strings (Kubo e la spada magica)
Moana (Oceania)
My Life as a Zucchini (La mia vita da zucchina)
The Red Turtle (La tartaruga rossa)
Zootopia (Zootropolis)

MIGLIOR FILM IN LINGUA STRANIERA:

Under sandet — Danimarca
En man som heter Ove — Svezia
Forushande — Iran
Tanna — Australia
Toni Erdmann — Germania

MIGLIOR DOCUMENTARIO:

Fuocoammare
I Am Not Your Negro
Life, Animated
O.J.: Made in America
13th

MIGLIOR FOTOGRAFIA:

Arrival
La La Land
Lion
Moonlight
Silence

MIGLIOR SCENOGRAFIA:

Arrival
Fantastic Beasts and Where to Find Them (Animali fantastici e dove trovarli)
Hail, Caesar! (Ave, Cesare!)
La La Land
Passengers
MIGLIOR MONTAGGIO:

Arrival
Hacksaw Ridge (La battaglia di Hacksaw Ridge)
Hell or High Water
La La Land
Moonlight

MIGLIOR EFFETTI SPECIALI:

Deepwater Horizon
Doctor Strange
The Jungle Book (Il libro della giungla)
Kubo and the Two Strings (Kubo e la spada magica)
Rogue One: A Star Wars Story

MIGLIOR COLONNA SONORA:

Jackie
La La Land
Lion
Moonlight
Passengers

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MIGLIOR CANZONE:

Audition (The Fools Who Dream)La La Land
Can’t Stop the Feeling — Trolls
City of StarsLa La Land
The Empty Chair — Jim: The James Foley Story
How Far I’ll Go — Moana (Oceania)

MIGLIOR MONTAGGIO SONORO:

Arrival
Deepwater Horizon
Hacksaw Ridge (La battaglia di Hacksaw Ridge)
La La Land
Sully

MIGLIOR MISSAGGIO SONORO:

Arrival
Hacksaw Ridge (La battaglia di Hacksaw Ridge)
La La Land
Rogue One: A Star Wars Story
13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi

MIGLIORI TRUCCHI E ACCONCIATURE:

A Man Called Ove
Star Trek Beyond
Suicide Squad

MIGLIORI COSTUMI:

Allied
Fantastic Beasts and Where to Find Them (Animali fantastici e dove trovarli)
Florence Foster Jenkins
Jackie
La La Land

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MIGLIOR CORTOMETRAGGIO:

Ennemis Entreniers
La Femme et le TGV
Silent Nights
Sing
Timecode

MIGLIOR CORTOMETRAGGIO DOCUMENTARIO:

Extremis
4.1 Miles
Joe’s Violin
Watani: My Homeland
The White Helmets

MIGLIOR CORTOMETRAGGIO D’ANIMAZIONE:

Blind Vaysha
Borrowed Time
Pear Cider and Cigarettes
Pearl
Piper

Record di nomination per La La Land (in totale 14, eguagliando il precedente record detenuto da Eva contro Eva e Titanic), sicuramente tra le pellicole favorite. Ottimi piazzamenti anche per Manchaster by the sea e Moonlight. Su quale film scommettete? Quale attore vincerà l’ambito premio? Aspettiamo con ansia la cerimonia del 26 febbraio per scoprirne di più.