Oscar Wilde

Berlinale 68 – The Happy Prince, di Rupert Everett

“Che tragedia! Diventerò vecchio, brutto, ripugnante. E questa immagine rimarrà sempre giovane. Giovane quale io sono in questa giornata di giugno. Oh, se si potesse realizzare il contrario! Se io dovessi rimanere sempre giovane, e il ritratto diventasse vecchio! Per questo, per questo, darei qualunque cosa! Darei la cosa più preziosa del mondo! Darei anche la mia anima per questo!”.
Il ritratto di Dorian Gray, Oscar Wilde

Il miraggio dell’eterna giovinezza ha sempre ossessionato Oscar Wilde, schiavo della bellezza e servitore dell’arte nella sua essenza più pura, ma nonostante i disperati tentativi di vendere l’anima al diavolo per preservarsi nella sua forma più bella, il tempo ha inevitabilmente fatto il suo corso. Gli anni gli hanno scavato la carne come una malattia, l’amore per Bosie lo ha privato della libertà, e ora si trova al tramonto della sua vita a fare i conti con quello che è stato e ciò che sarà dopo la morte.

Il suo corpo pesante cade a pezzi, si sta già decomponendo mentre Rupert Everett cerca di catturare gli ultimi fotogrammi della sua esistenza. È qui che inizia The Happy Prince, dalla fine di un’epoca di piaceri, dalle ultime pennellate di una straordinaria opera d’arte. Oscar Wilde è appena tornato libero dopo aver scontato due anni di prigione per sodomia, denunciato dal padre del suo amatissimo Bosie, e non aspetta altro che ritrovare se stesso, i vecchi amici e gli amori di sempre. Ma qualcosa è inevitabilmente cambiato. La sua ricerca della bellezza non è ancora finita, Wilde infatti parte insieme a Bosie alla volta dell’Italia e si abbandona languidamente alle sue meraviglie, poi torna in Francia e qui inizia la sua lenta decadenza fino alla morte.


In onore di Oscar Wilde non è stata eretta una statua d’oro e due zaffiri lucenti non gli sono stati dati per occhi come è accaduto al suo principe felice, ma Rupert Everett ha scelto di raccontare gli ultimi anni della sua, i meno sfavillanti e di sicuro i più indigesti, proprio per celebrare la sua umanità più che la sua arte, e il suo coraggio nell’affrontare la prigione e la pubblica umiliazione in nome del suo amore. Qui Everett trova la grandezza di questo personaggio e la fonte di ispirazione per le generazioni future, per coloro che sono morti per aver amato qualcuno dello stesso sesso e per quelli ancora stanno combattendo per il proprio diritto alla libertà dei sentimenti. Comprimere la vita di Oscar Wilde in un solo film sarebbe stato impossibile, ma Everett ha scelto di imbarcarsi in questa folle impresa alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa, consapevole che The Happy Prince non avrebbe potuto raggiungere vette qualitative degne di nota. Eppure la forza del messaggio che veicola questo film per un attimo fa chiudere gli occhi sulle mancanze nella tecnica per riaprirli sul valore assoluto che può assumere un’opera d’arte, che sia un film, un romanzo o una vita.

Wilde Salomè, di Al Pacino

Wilde Salomè è il collage artistico che unisce i pezzi di una folle passione.

Salomè è la più controversa opera di Oscar Wilde: il testo, scritto in francese nel 1893 e cucito addosso all’attrice Sarah Bernhardt (che poi si rifiutò di interpretarlo a causa degli scandali che nel frattempo avevano colpito l’autore inglese, accusato di sodomia) racconta la leggenda del Re Erode (Al Pacino) e del suo folle e perverso desiderio per la giovane figliastra Salomè (Jessica Chastain) che, a sua volta, cerca di sedurre Giovanni Battista (Kevin Anderson). Entrambi non riescono a contenere i limiti traboccanti della loro folle lussuria: Erode promette di esaudire qualunque desiderio espresso dalla giovane purché danzi per lui e Salomè , dal canto suo, non se lo fa ripetere due volte e chiede la testa di Iokanaan su un piatto d’argento. Solo così, finalmente, riuscirà a baciarne le tante agognate labbra senza che il profeta si opponga alla profonda vibrazione sessuale del gesto.

Wilde Salomè

Al Pacino, interrogato sul suo nuovo esperimento, 10 anni dopo la direzione di Looking for Richard (sul Riccardo III di William Shakespeare), afferma: «Wilde Salomè è il mio tentativo di fondere l’opera teatrale e il cinema. I due linguaggi possono quasi stridere, essere in contrasto tra loro, la mia speranza è di averli amalgamati al meglio. Fare in modo che questo ibrido funzioni è stato il mio obiettivo: unire tutta la qualità fotografica del cinema a quell’essenza dell’acting che è propria del teatro».  A trovare un difetto al documentario-film dell’attore de Il padrino è proprio l’onnipresente figura del suo regista. Al pacino sceglie, infatti, di farsi seguire dalla macchina da presa in ogni momento della preparazione allo spettacolo teatrale in scena a Los Angeles e alla contemporanea realizzazione del suo film tratto dal testo di Wilde. Una follia artistica che, tuttavia, dimostra come uno dei testi più belli ma anche, forse, tra i meno conosciuti del geniale autore inglese, non possa essere affrontato e rappresentato solo come un dramma teatrale, ma neanche soltanto come un film. Al Pacino conta una percentuale di battute spropositatamente più alta rispetto a quelle pronunciate dagli altri protagonisti del documentario: il motivo? La passione.

Wilde Salomè

La passione irrazionale di Erode non solo per la sua giovane figliastra, incestuoso sentimento che risponde allea pulsioni sessuali incontenibili, ma anche, inspiegabilmente, per Giovanni Battista, di cui non riesce a decidere il futuro (nonostante la moglie Erodiade –Roxanne Hart– prema per l’uccisone) perché affascinato dal suo intimo rapporto con Dio e dalla sua bocca dispensatrice di verità indicibili.

La passione di Salomè per un prigioniero reietto ma affascinante, un sentimento che le causa uno squarcio nel petto così profondo da poter essere riempito solo dal sentimento di vendetta: il perverso piacere di vedere annullata l’esistenza di chi rifiuta il suo amore in nome di un Dio intangibile e lontano sembra essere per lei l’unica ragione di vita e l’unica possibilità di soddisfazione.

La passione di Oscar Wilde per l’attività di scrittore, geniale e rivoluzionaria, in grado di dipingere con le parole non solo la bellezza ma, soprattutto, le profondita più recondite dell’essenza umana, anche quelle più scomode e mai messe in scena di nessuno.

La passione, infine, di Al Pacino non solo per Oscar Wilde e per la sua scelta di estraniarsi dal mondo e dalle convenzioni sociali, prendendo apertamente posizione su ciò che per lui è importante, ma anche per il testo stesso della Salomè, poeticamente lieve nella sua veste estetica ma così forte e lacerante nella sua essenza contenutistica. Come poter, allora, rappresentare una passione se non con soggettività? Se, quindi, l’ego smisurato di Al Pacino occupa gli 88 minuti di visioni, lo spettatore pagherà favorevolmente lo scotto di questa presenza pur di godere di un viaggio alla scoperta di un Wilde inedito e sconosciuto, affidato alla conduzione di un montaggio intelligente e coinvolgente, di una fotografia (Benoît Delhomme, La teoria del tutto, Il bambino con il pigiama a righe) evocativa e coerente con il tema e di una performance brillante ed entusiasmante di una (allora) semisconosciuta Jessica Chastain (Interstellar, Sopravvissuto – The Martian). L’intensità dei suoi sguardi e la profondità della sua voce entrano perfettamente nella tempra della conturbante Salomè e rimangono impressi nella mente in maniera indelebile.

Wilde Salomè

Si esce dalla sala con l’intensa voglia di recuperare l’opera omnia di Oscar Wilde e di scavare più in profondità sul valore artistico di un autore che non è solo il padre del Dorian Gray studiato a scuola. A quale maggior risultato potrebbe ambire un documentario?