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Rock the Kasbah, di Barry Levinson in DVD

Rock the Kasbah, di Barry Levinson, è una commedia dai toni leggeri, politically correct, forse anche troppo, che si regge su un Bill Murray particolarmente in vena.

«Il tuo lavoro è dire cazzate!».

Richie Lanz [Bill Murray], talent scout squattrinato e truffatore senza scrupoli per necessità economiche, tenta un improbabile tour in Afghanistan per le truppe americane con la sua ultima speranza, la ormai non più giovane promessa, mai mantenuta, Ronnie, interpretata da Zooey Deschanel [Sua maestà, Guida galattica per autostoppisti]. Abbandonato dalla ragazza, senza soldi e passaporto, a pochissime ore dall’arrivo a Kabul, Richie dovrà trovare un modo per andarsene prima di rimetterci la pelle oppure trovare una ragione per restare e magari rischiare la vita per cambiare il mondo. L’occasione si presenta per una serie di bizzarre coincidenze: Salima [Leem Lubany], figlia del capo di un villaggio pashtun, ha una stupenda voce ed il suo sogno è poter partecipare ad “Afghan Star”, un talent show per cantanti simile ad “American Idol”. Aiutarla significherebbe sfidare apertamente l’intransigente cultura locale ed il rischio va ben oltre la sfera economica e il «sacro rapporto manager-cantante»!

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«Dal momento in cui mi hai sentito cantare e mi hai trovata in quella grotta, da quando siamo qui su questa Terra, tutta la nostra esistenza ci ha condotti a questo tempo in questo posto! Richie Lanz, la nostra storia è già stata scritta! E ora dobbiamo fare la nostra parte. Dobbiamo! Non c’è altra scelta! È Dio che lo vuole».

Ad aiutare Richie o a sfruttare la sua situazione a proprio vantaggio la bellissima prostituta Merci [Kate Hudson], il mercenario Bombay Brian [Bruce Willis], il tassista-interprete Riza [Arian Moayed] e due spassosi trafficanti d’armi, Jake e Nick, interpretati rispettivamente da Scott Caan [figlio di James Caan e membro fisso del team di Danny Ocean fin da Ocean’s eleven] e Danny McBride [protagonista di commedie come Sua maestà, Strafumati, Facciamola finita].

IL DVD

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REGIA: Barry Levinson INTERPRETI: Bill Murray, Kate Hudson, Zooey Deschanel, Leem Lubany, Danny McBride, Scott Caan, Kelly Lynch, Bruce Willis TITOLO ORIGINALE: Rock the kasbah GENERE: commedia DURATA: 103′ ORIGINE: USA, 2015 LINGUE: Italiano 5.1 DTS, Italiano 5.1 Dolby Digital, Inglese 5.1 Dolby Digital SOTTOTITOLI: Italiano EXTRA: clip “L’uomo e la musica”; trailer; credits DISTRIBUZIONE: Koch Media

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Liberamente ispirato alla vera storia di Setara Hussainzada, la prima donna a competere nel popolare programma trasmesso dalla TV nazionale afghana, andando contro gli antiquati precetti della cultura islamica fondamentalista, Rock the Kasbah, di Barry Levinson, è risultato uno dei peggiori flop del 2015. Probabilmente perché manca d’intensità emotiva e di coraggio, quando deve calcare la mano sul messaggio che il film, giocoforza, veicola, e perché non risulta frizzante dal punto di vista tecnico: la sceneggiatura, un po’ sempliciotta, di Mitch Glazer [che ritrova Bill Murray dal 1998 di S.O.S. Fantasmi, ma non la verve] non lascia spazio a chissà quali sorprese; la fotografia del pluripremiato Sean Bobbitt, che ha reso visivamente spettacolari i capolavori 12 anni schiavo, Shame e Hunger di Steve McQueen, eseguita in Afghanistan e Marocco, con una ARRI Alexa XT Plus, viene sprecata da un montaggio poco dinamico, che non procede di pari passo con l’effervescenza degli attori e delle situazioni filmiche, infarcite peraltro di battute metamusicali: «It’s only rock’n’roll!» mentre manager e cantante sono sull’aereo o il «Welcome to the jungle!» che i due trafficanti danno a Richie dopo essere scampati ad una sparatoria.

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Ineccepibile tutto il cast artistico che vede le attrici Zooey Deschanel e Leem Lubany sfoggiare davvero le loro doti canore per l’occasione: mentre l’attrice americana canta Bitch, successo di Meredith Brooks, la protagonista si esibisce ad “Afghan Star” cantando alcuni brani, Wild world, Trouble e Peace train, di Yusuf Islam, famoso per tanto tempo con il nome d’arte Cat Stevens. Una scelta azzeccatissima per una donna dalla testa dura, Hard headed woman, come direbbe il cantautore britannico convertitosi all’Islam.

Anche Bill Murray ci regala due performance canore: una classica, Can’t find my way home dei Blind Faith, sotto la doccia, e un’altra da applausi a scena aperta, quantomeno per la faccia tosta, che nella sua lunga carriera non ha mai perso e che gli ha permesso di imbracciare un rabab, strumento musicale afghano simile al liuto, accennando la melodia di Smoke on the water dei Deep purple, agitandosi e gracchiando in mezzo ai pashtun. Questa esibizione e la magnifica presenza scenica di Kate Hudson valgono alla grande il prezzo del biglietto, e del DVD o Blu Ray!

«Che ci fa uno splendore come te con un fesso come me?».

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Il titolo del film è un riferimento all’omonima canzone del gruppo punk The Clash, che racconta una sorta di fiaba riguardo un re che vieta la musica rock, tanto da meritarsi la rivolta della popolazione. Il gruppo la scrisse influenzato dal divieto in Iran, nel 1979, di proporre al pubblico musica occidentale. Peccato che, però, Joe Strummer abbia negato ai realizzatori i diritti di utilizzarla nella colonna sonora, forse condizionato da un episodio altamente sgradevole del 1991: sul lato di una bomba americana fatta esplodere in Iraq era stato scritto proprio Rock the Kasbah.

Sarebbe stato bello un approfondimento sulla colonna sonora e sulla storia vera di Setara Hussainzada. Invece, i contenuti extra del DVD Koch Media non brillano per originalità e nemmeno per quantità: con gli “immancabili” credits e un trailer, troviamo una divertente clip, intitolata “L’uomo e la musica”, in cui si ricostruisce una falsa biografia del manager Richie Lanz, che vanta di aver scoperto Madonna [e la nomina proprio in Afghanistan!], tramite fotomontaggi e false dichiarazioni di illustri cantanti d’altri tempi, mescolate con qualche scena tratta dal film.

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Tutti vogliono qualcosa, di Richard Linklater

Everybody wants some, ovvero Tutti vogliono qualcosa, è una commedia giovanile, un buddy movie, un film corale, una pellicola d’autore e una realistica ricostruzione del 1980, un film su una squadra di baseball del college, avvincente, esilarante, effervescente, emozionante senza che i personaggi giochino mai neanche una partita. Com’è possibile? Solo Richard Linklater, maestro del cinema indipendente americano, è capace di compiere questo tipo di imprese.

Sull’onda del successo di Boyhood, il regista estrae dal cilindro un nuovo capolavoro che ricrea quei meccanismi ormai consolidati nel suo modo peculiare di far cinema: l’ottimizzazione del basso budget a disposizione; attori non famosi che hanno saputo calarsi nei panni di personaggi ben caratterizzati e collocati in un’epoca ben distante dalle loro vite; la supremazia dei personaggi, sempre ordinari in contesti ordinari, rispetto all’intreccio, subordinato, in questo specifico caso, anche alla ricostruzione scenografica che è maniacale, da candidatura agli Oscar®, probabilmente. Quello che sorprende è l’utilizzo per tutto il film della parola, dei dialoghi in una maniera che riecheggia Dazed and confused – La vita è un sogno, citato visivamente in molte inquadrature, e che sembra segnare una sorta di continuità concettuale con il sopracitato Boyhood, con digressioni filosofiche che spezzano la narrazione lineare, riuscendo a mescolare gli episodi di The twilight zone – Ai confini della realtà con i Maya, i druidi e la telepatia, capacità che, ovviamente, dopo una tirata di bong, i protagonisti sperimentano, per poi tornare agli argomenti più amati: «il baseball e la passera».

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«Quando giochiamo a baseball parliamo di passera e, invece, quando abbiamo davanti tutta questa passera parliamo di baseball!».

Se poi il coach esigente dà delle regole «niente alcool in casa» e «niente ragazze nelle camere da letto» perché non vuole «compromettere il programma per un po’ di pelo!» per le quali è lui stesso a trovare un escamotage in modo da trasgredire al piano di sotto, possiamo tranquillamente metterci comodi sulla poltrona ed aspettarci un paio d’ore di divertimento senza inibizioni.

Detta così può sembrare una commedia alla Animal house e invece ci troviamo davanti ad un vero spaccato di realtà, che è fatta di chiacchiere a volte senza senso, di turni davanti allo specchio per pettinarsi, di racconti inventati e spacconate, di deliri e cazzeggi. Tutti vogliono qualcosa è un’escursione nei meandri della mente di un ex-adolescente alle prime esperienze lontane dalla famiglia e fuori da qualsiasi controllo. Al contempo è un viaggio nei ricordi di Linklater, del periodo in cui ha iniziato a frequentare il college come fa il protagonista Jake Bradford [Blake Jenner] che arriva nelle case affidate alla squadra di baseball della Texas State University e subito viene coinvolto dai compagni più socievoli nelle attività preferite: «Tutti al “Fox”!» a bere, poi tutti insieme a ballare e divertirsi alla discoteca “Sound machine”, dove la confraternita di baseball è sempre gradita guest star con entrata libera e birra gratis. Infine, soprattutto, sempre e comunque, rimorchiare in ogni locale, in ogni occasione, a qualsiasi festa, che sia a tema country, punk, disco o del corso di teatro, grazie soprattutto alle tecniche sopraffine di Finnegan [Glen Powell], il vero trascinatore del gruppo.

«Studio da cunnilinguista!».

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Una squadra quanto mai reale – chi è stato membro di una squadra sa di cosa si parla – con personaggi che possono a primo avviso sembrare macchiette ma che rispecchiano le varie tipologie di giocatore. Ogni personaggio ha le sue fisime, la sua indole, le sue superstizioni e i suoi rituali, molto carina a tal proposito la dissertazione per spiegare la differenza tra queste ultime due caratteristiche.

«Bisogna avere due strambi in ogni squadra», perciò ecco il veterano scommessa-dipendente Nesbit e la matricola spaccona Nails, che ama definirsi un «cane da combattimento». Se Finnegan è espansivo e logorroico, gli fa da contraltare il burbero Roper che a Jake si presenta così: «Io odio i lanciatori. Saremo compagni di squadra ma non saremo mai amici» o il capitano McReynolds [Tyler Hoechlin], che assolutamente non prende bene le sconfitte e non tollera che la sua leadership sia messa in discussione. Tra giovani promesse sul campo di gioco e schiappe nella vita di tutti i giorni, veri fulminati e cazzeggio dipendenti, l’assortimento di tipi umani da manicomio è quanto di più vero possa esserci in una qualsiasi squadra, che ci crediate o no.

«Copriamo tutte e nove le posizioni».

Il colpo di genio di Linklater sta proprio nel divertire e coinvolgere nella reale vita di squadra senza che succeda un evento sportivo degno di nota. Nei tre giorni che lo separano dall’inizio delle lezioni, a partire dal “28 agosto 1980”, Jake assaggerà quel nuovo mondo tra sfide a schicchere sulle nocche, bevute in compagnia, discussioni e litigi, ragazze da una notte e via, magari alla ricerca di quella speciale che alle amiche «…dirà con orgoglio: è un giocatore di baseball!», l’unica per cui lui possa affermare «sono pazzo del baseball ma c’è qualcos’altro nella vita».

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Oltre alle gag esilaranti, non mancano due chicche da nerd: il personaggio di Willoughby e le sue azioni sono una citazione sottile dell’episodio “Una sosta a Willoughby” di The twilight zone – Ai confini della realtà, serie tv di cui lui stesso vanta una collezione completa in VHS; l’altra chicca è il titolo della tesina che Jake ha portato per il diploma, “Sisifo e il baseball”, che vede il dolore del personaggio mitologico nella Divina commedia non come supplizio eterno ma come scopo per combattere ogni giorno, perché lottare per un obiettivo è un dono, nella vita come nello sport, e che le cose assumono un significato quando siamo noi ad attribuirgliene uno. Una commedia giovanile abbiamo detto, ma che dialoghi!

Il clima di cazzeggio, la sceneggiatura priva di tempi morti e il coinvolgimento dei dialoghi fa dimenticare persino che nei primi fotogrammi sia stata inserita per errore una ripresa in cui il crane si riflette sulla macchina. Un errore che somiglia un po’ a quello di Kubrick in Shining, con l’ombra dell’elicottero che entra nelle inquadrature iniziali, per essere considerato tale.

La squadra di lavoro di Linklater, ormai consolidata e coesa dopo i tanti successi e i pochi fallimenti vissuti insieme, rispecchia l’affiatamento dei personaggi di Tutti vogliono qualcosa, tra veterani e matricole promettenti: il direttore della fotografia Shane F. Kelly [Boyhood, A scanner darkly], il film editor Sandra Adair [Boyhood, Prima del tramonto, School of Rock, Me and Orson Welles, Bad News Bears – Che botte se incontri gli orsi!, Prima dell’alba, Fast food nation, Tape, La vita è un sogno], lo scenografo Rodney Becker [Boyhood, Bernie, A scanner darkly] e la costumista Kari Perkins [Boyhood, Bernie, A scanner darkly, Fast food nation]. Ognuno ha contribuito a rendere questo film un gioiello del cinema indipendente d’autore.

«Metti insieme persone competitive e diventi vittoria dipendente»

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Tutto il film permette un nostalgico tuffo nel passato grazie ad un lavoro di ricerca minuzioso sotto ogni aspetto, dalla scenografia ai costumi, dal make up agli argomenti di discussione.

«Sento che gli Astros vinceranno il campionato».

Perfino la colonna sonora è estremamente curata con 45 top hits dell’epoca che esplorano ogni genere in voga in quegli anni. Non da ultimo una stupenda performance corale degli attori che si cimentano in un brano rap originale che racconta le vicende dei personaggi da loro interpretati. Il brano è una chicca posizionata nel bel mezzo degli end credits, perciò, se vogliamo dirla con un acronimo a tema: Rimanete Al Posto!

«Ehi, Coma! Almeno togliti gli occhiali! Sembri uno della narcotici!
E togli la camicia dai pantaloni! Sembri un venditore di bibbie!».

Per concludere, Tutti vogliono qualcosa è un film indimenticabile, per chi sa cosa significhi essere parte di una squadra vera, una marmaglia mal assortita di persone che si spalleggiano reciprocamente nel campo di gioco come nella vita, che condividono gioie e dolori non solo in quell’arco di tempo in cui gli è concesso di essere giocatori. Anche se le strade poi si separano, quelle scene, quei sapori, quegli odori, le vittorie, le discussioni, le incomprensioni, le imprese, le sconfitte, le conquiste di ogni duro allenamento, le dimostrazioni d’affetto, il senso di appartenenza, il gusto di sentirsi rispettato, stimato, a volte indispensabile, sono tutte emozioni forti che compongono preziosi ricordi, che possiamo portare incastonati nel cuore per sempre e che permettono di superare gli ostacoli della vita, quelle frontiere citate sulla lavagna il primo giorno di lezione: «“LE FRONTIERE SONO DOVE LE TROVI”».

Mai farsele imporre. Superarle sempre. E Linklater, più di ogni altro, sa come valicarle con stile e originalità.

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