Ridley Scott

Aliens 30° Anniversario, di Mark Verheiden e Mark A. Nelson

SaldaPress cavalca il rinnovato interesse del pubblico per la saga di Alien e degli xenomorfi con un ampio ventaglio di fumetti abbastanza liberamente ispirati alle vicende narrate per immagini in movimento da Ridley Scott & company:

Aliens : la serie regina in cui vari disegnatori si alternano per schizzare di terrore visionario le storie sempre scritte da Brian Wood;

Fire & Stone : in contemporanea con l’arrivo nei cinema del film Alien: Covenant, una serie-evento in 5 volumi, che coinvolge in un’unica emozionante storia tutte le properties legate all’Alien Universe: Xenomorfi, Ingegneri, Predators:

  1. Prometheus Fire & Stone,
  2. Aliens Fire & Stone
  3. Predator Fire & Stone,
  4. Alien vs. Predator Fire & Stone,
  5. Prometheus: Omega Fire & Stone

Ma è su un prodotto celebrativo che vogliamo porre maggiore attenzione in questa occasione:

 

ALIENS

30° anniversario

 

Si tratta di un volume celebrativo, unico non solo perché presenta una storia autoconclusiva, la raccolta completa della prima miniserie Aliens, ma anche per alcune peculiarità editoriali che lo rendono apprezzabile al 100% solo nella sua forma cartacea: un’accattivante copertina nera lucida su cui campeggia ovviamente il vero protagonista, lo xenomorfo, apprezzabile anche a livello tattile grazie ad una texture in rilievo dello xenomorfo sul granitico cartonato nero, e a perfezionare il tutto il bordo esterno delle pagine rigorosamente nero, una finezza per veri intenditori, in conformità con l’edizione originale americana.

Il disegno di Aliens 30° anniversario è ovviamente un po’ retro, e non poteva essere altrimenti vista la data della prima pubblicazione Dark Horse che risale al 1988, in occasione della realizzazione del terzo film.

«Verso la fine del 1987, ero al telefono con Mike e, a un certo punto, lui sganciò la bomba che la Dark Horse avrebbe realizzato i fumetti di Aliens. Non si trattava di un adattamento del film, ma di nuove storie derivate dal secondo film. E serviva uno sceneggiatore». Chi pronuncia queste parole è proprio Mark Verheiden lo sceneggiatore-produttore che ha dato vita ai mondi di The Mask, Timecop, Battlestar Galactica, Falling Skies e Daredevil, ora alle prese con la serie tv che dovrebbe risarcire il pubblico dalla deludente trasposizione cinematografica de La Torre Nera.

«Adoravo Aliens! – prosegue Verheiden – Il primo Alien era stato superbo, un film horror dalla vena stupendamente dark. L’Aliens di James Cameron, però, aveva l’azione, l’horror e la passione messi tutti insieme all’interno di un prodotto spettacolare. Poter lavorare con un universo tanto mitico senza le limitazioni dettate dal budget era la realizzazione di un sogno. E, quando Mark Nelson fu scelto per disegnare il progetto, ogni pezzo del puzzle andò al suo posto. Mark realizzava i disegni in bianco e nero utilizzando l’ormai introvabile carta a reazione chimica Duoshade: l’abilità stava nel far emergere dal cartoncino i retini incorporati, stendendo con il pennello un apposito reagente.

I disegni di Mark erano straordinari, incredibilmente dettagliati e carichi di atmosfera. Perciò, quando decisi di evidenziare l’aspetto horror del mondo di Alien, sapevo che lui era la persona giusta e che non avrebbe tradito le mie aspettative. E già che è il momento dei complimenti, tanto di cappello a Willie Schubert, letterista infaticabile; Willie ha fatto un lavoro superlativo con tutte le narrazioni in prima persona che si incrociano nella storia
».

Un bianco e nero fortemente contrastato e una cura massima del dettagli nei momenti cruciali di contatto fra umani e xenomorfi sono i punti forti del fumetto. I testi, molto ben curati, senza mai scadere nel banale, suscitano emozioni che vengono costantemente dinamizzate da un montaggio eccentrico delle vignette.

Una nutrita appendice grafica di eccezionale pregio presenta tavole a tutta pagina che svolgono la funzione di visual credits: tutti i realizzatori dell’opera sono disegnati nei panni di vittime nella catena alimentare degli xenomorfi.

La storia, sebbene oggi possa apparire un po’ inflazionata, è in linea con gli standard dell’epoca: un buon numero di scene di terrore puro, innestate in un mood di estremo delirio, sospeso fra incubi e realtà e tipico di personalità dissociate per via delle conseguenze di un’aggressione mostruosamente aliena: se il mostro non ti divora dall’esterno, sarà la paura di rincontrarlo a divorarti dall’interno!

Per quanto riguarda i personaggi, invece, gli autori hanno dovuto combattere con assenze pesanti e limitazioni che hanno reso il loro lavoro non solo più arduo ma anche frustrante perché questo volume unico risulterà sempre slegato dalla linea narrativa che la saga cinematografica ha intrapreso successivamente. Nella prefazione Verheiden lo spiega chiaramente:

«Quando venne il momento di definire la trama, ricordo di aver ricevuto ben poche direttive. Una era “vogliamo vedere le creature aliene sulla Terra.” Due: nel fumetto devono essere presenti i personaggi di Newt e Hicks”. La terza fu l’unica dettata da motivazioni legate all’aspetto commerciale: non potevamo usare il personaggio di Ripley (divieto che fu revocato in occasione della terza serie Aliens: Earth War).

Era il momento di creare la storia. Volevo esplorare un futuro high-tech e distopico insieme, dove religione, affari e tecnologia entravano in conflitto con le creature aliene, con i nostri disgraziati personaggi che ci finivano in mezzo. Non ci voleva molto a immaginare che le esperienze di Newt con gli xenomorfi su LV-426 avessero lasciato segni profondi nella sua mente o che Hicks, con metà faccia bruciata dall’acido, fosse evitato dai suoi commilitoni come un paria. Un’altra cosa che mi intrigava dei due film erano gli androidi, Ash e Bishop. Sentivo che c’era molto da scavare nell’esistenza di una vita artificiale senziente.

A parte questo, dovevo muovermi con grande attenzione nel fare ipotesi su alcuni aspetti su cui poggia la mitologia del film Aliens. Per esempio sulla vera identità dello “space jockey”. Ho analizzato sia il film che gli scatti del set, ma non avrei mai immaginato che la “faccia” elefantiaca della creatura fosse, come si vede nel film Prometheus del 2012, una maschera d’ossigeno per un pilota umanoide. L’unica analogia tra i miei “space jockey” alieni e gli Ingegneri umanoidi di Prometheus è che entrambi ce l’hanno a morte con gli xenomorfi. Be’, almeno su quello ci siamo trovati.

L’altra ipotesi che facemmo tutti fu che Newt e Hicks fossero sopravvissuti al post-Aliens, ma i titoli di testa di Alien3 mi tolsero rapidamente ogni illusione in proposito. Mi hanno chiesto in molti come mi è sembrato Alien3 e, a essere sinceri, sono combattuto. Perdere Newt e Hicks nella sequenza di apertura del film è stato un vero e proprio schiaffo ai fan che si erano affezionati a quei personaggi. Però, d’altra parte, dopo aver lavorato un po’ nel cinema e nella televisione, mi sento quasi di ammirare l’audacia del film nel provocare “l’attesa dell’inatteso”. Ma, in ogni caso, ammetto che mi ha egoisticamente infastidito che, con Alien3, le mie storie non rientrassero più nel canone ufficiale».

Aliens 30° anniversario è arricchito dai bozzetti, le cover e i frontespizi messi a punto per la prima edizione, da prefazione e postfazione entrambe molto appassionate e dalla storia breve Aliens: Fortunato, tutti elementi succulenti da aggiungere alle già decantate tavole in appendice e texture di copertina, che sono già di per sé lo spettacolo per cui val la pena di pagare il prezzo del “biglietto”. Chi sceglierà una versione digitale sa ora cosa si perde! Al vero fan poco importa se il prodotto non è d’avanguardia. In fondo Alien ci piace così: un’avventura horror sci-fi con quel suo gusto vintage inconfondibile e… rassicurante, mi si passi il termine per esprimere l’abitudine spettatoriale dei più nostalgici, mentre per tutto il resto del pubblico permane l’eco impossibile di quelle affascinanti urla di terrore dissipate nello spazio profondo.

«I personaggi che amate ci sono, lo spirito, il tono e la struttura del mondo anche. Le differenze sono abbastanza sottili da tenervi sulle spine permettendovi di godervi questa corsa sulle montagne russe proprio come la prima volta che avete avuto il coraggio di entrare nel labirinto […] E adesso vi invito a entrate nel nostro parco giochi verso nuove avventure, nuove prospettive, nuove interpretazioni, nuovi sviluppi e svolte impreviste. Familiari ma allo stesso tempo diverse. Venite, e godetevi la corsa».

Blade Runner 2049, di Denis Villeneuve

Chi siamo? Da dove veniamo? Cos’è la vita? Cosa ci rende “umani”? Qual è la fonte dei nostri ricordi? Che ruolo abbiamo nella vita del mondo? Quanto conta davvero la nostra volontà? Domande esistenziali fondamentali che difficilmente uno spettatore può trovare in un film che non sia un documentario estremamente soporifero! Chi conosce e ha apprezzato la densità di tematiche, riflessioni filosofico-religiose, allegorie e l’ambientazione distopico-paranoide del capolavoro di Ridley Scott, ritroverà in Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve tutto questo materiale declinato in maniera paradigmatica. Sviluppando e raffinando la trama fino ad ottenere la naturale evoluzione del precedente, il regista di Arrival e Prisoners remixa e attualizza per il nuovo target il profondo lavoro di Scott, pur mantenendo una rispettosa fedeltà allo spirito dell’originale. «Il mio obiettivo – ha confessato Villeneuve – era quello di onorare l’estetica da film noir del primo, pur dando al nuovo film una propria identità». Il connubio di noir, sci-fi e azione è riuscito alla perfezione lasciando comunque spazio alla riflessione. Per ogni domanda che trova una risposta, un’altra ne deriva che scaturisce nuovi percorsi meditativi. Da vedere e, soprattutto, rivedere per godere appieno della stratificazione delle tematiche.

Denis Villeneuve traduce divinamente la riflessione antropologica di Philip K. Dick in uno spettacolo sublime per forma e contenuto. Se Blade Runner è basato sull’archetipica figura collodiana del burattino che vuol far valere i propri diritti alla vita, in una rilettura che va ben oltre la scrittura sofisticatamente filosofica del più antico Frankenstein di Mary Shelley, per il seguito, intriso della visionarietà sentimentale di Villeneuve, bisogna scomodare in parte il complesso registro di personaggi racchiuso nei sapienti versi delle tragedie, con le loro leggendarie figure, mosse da emozioni forti e schiacciate dalla loro stessa piccolezza, dinnanzi ad un disegno di vita che l’altrui volere desidera diverso dalle proprie aspettative, lontano anni-luce dai sogni che li hanno spinti ora alle più alte vette della gloria ora sull’orlo dell’abisso senza possibilità di ritorno.

«Sognare un po’ non è sbagliato, non credi?»
«Per noi lo è»

Blade Runner 2049 ha rispettato l’universo creato da Ridley Scott e ha annodato ogni filo lasciato in sospeso dal predecessore ad una nuova ragnatela di sottotrame che ascendono a nobile rappresentazione dell’antica tendenza alla ricerca dell’identità, delle origini dell’amore nella sua forma più pura. Perché non può esserci futuro senza conoscere il passato o almeno non un futuro degno di essere vissuto senza un passato che ne giustifichi i meriti o possa correggerne i difetti.

Era il 1982 quando il Blade Runner di Ridley Scott vedeva la luce nella buia sala di un cinema. Nella Los Angeles del 2019, luogo e tempo in cui si svolgevano le vicende del film, pioveva e si respirava un’aria decadente, nonostante un’ambientazione distopica in cui la tecnologia sopperiva alle necessità quotidiane che la natura non riusciva più a soddisfare appieno. Alcuni androidi, soprannominati “replicanti” o in senso maggiormente dispregiativo “lavori in pelle” e costruiti per essere schiavi in colonie dell’extramondo, si erano ribellati e un agente speciale, Rick Deckard [Harrison Ford], doveva stanarli e terminarli. In Blade Runner 2049, di Denis Villeneuve, un nuovo cacciatore di replicanti, l’agente K [Ryan Gosling], ha il compito di… riportare lo spettatore laddove era stato lasciato: un origami a forma di unicorno innestava il seme del dubbio sulla natura di Deckard in un contesto in cui la ricerca della verità è diventata un labirinto di domande senza una risposta. Il labirinto permane anche nel nuovo capitolo con l’ulteriore difficoltà per l’agente K: il suo viaggio alla ricerca dei replicanti riporterà alla luce un segreto nascosto da tempo sotto un cumulo di terra morta. Un segreto che può cambiare il destino dell’intera umanità.

«L’umanità non può sopravvivere… La Terra sta morendo… i Replicanti sono il futuro della specie».

L’agente K [Ryan Gosling] non è immune alla crisi esistenziale che già aveva contagiato il cuore del collega Deckard [Harrison Ford]. Per il presunto bene dell’umanità fino a che punto ci si può spingere? Per mantenere un ordine arbitrariamente stabilito, quali crimini è lecito commettere? Vivendo in un mondo ingrigito dall’abuso tecnologico e dalla subordinazione della natura e dei sentimenti agli interessi economici e politici, camminando troppo spesso a cavallo dell’ipotetica linea che divide il Bene dal Male, il bianco dal nero, la luce dalle tenebre, i personaggi di Blade Runner 2049 devono fare i conti più che altro con la propria coscienza e quell’innata predisposizione che ci spinge a scegliere da che parte stare della Forza, per dirla come la direbbe Lucas.

Il 5 Ottobre 2017 – il 6 negli U.S.A. – è uscito nelle sale, attesissimo, Blade Runner 2049. Un sequel di un classico intramontabile, si sa, fa sempre discutere, specialmente se l’originale è da sempre considerato uno dei migliori film di fantascienza che siano mai stati prodotti. L’opinione pubblica ha accolto la notizia dividendosi come in un preparativo di guerra fra pro e contro, se non addirittura fra delusi a prescindere e rassegnati al peggio. Non delude le aspettative, invece, il film di Villeneuve, anzi gioca con esse, divertendosi a gettare arbitrariamente luci ed ombre sui personaggi, senza sciogliere definitivamente i nodi cruciali che li legano gli uni agli altri. Non è rimasto deluso nemmeno Ridley Scott – che non ha diretto ma ha prodotto la pellicola – e, consapevole delle notevoli capacità autoriali del collega, gli ha concesso la totale libertà creativa e fornito la piena disponibilità in caso di bisogno.

In 35 anni di attesa, e parafrasando goliardicamente il monologo del replicante Roy, ne abbiamo viste “cose” che sembrava dovessero scalzare di classifica uno dei migliori film di fantascienza di sempre: robot da combattimento in fiamme uscire dallo schermo grazie agli occhialini 3D, e abbiamo visto serie tv e sequel di film altisonanti balenare dal buio e spiaggiarsi davanti al monumento funebre di Ray Harryhausen. E tutti quei momenti è giusto che vadano perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di iniziare un nuovo percorso per il pubblico esigente di Blade Runner, ed è tempo di affidarsi completamente al fascino del sequel, consapevoli della competenza e del coraggio di Denis Villeneuve, un regista che sa coinvolgere oltre che intrattenere e non è nuovo nel trattamento di sceneggiature filosoficamente complesse con risvolti sentimentali nono scontati. Per giunta candidato agli Oscar® nel 2011 con La donna che canta come Miglior film straniero e nel 2017 per la Miglior regista con Arrival. Di certo non una seconda scelta!

«Cazzo! Ma sono l’unica a vedere l’alba?»

A dimostrazione del desiderio di connubio perfetto fra vecchio e nuovo che è alla base di questo ambizioso progetto, la sceneggiatura di Blade Runner 2049 è stata scritta da Michael Green, autore dei recenti successi Alien: Covenant e Logan – The Wolverine, con la partecipazione indispensabile di Hampton Fancher, cioè l’ideatore del soggetto originale del 1982. Lo stesso Fancher ha firmato le sceneggiature dei cortometraggi che hanno “scaldato” i fan nei mesi precedenti l’uscita del film. Villeneuve ha, infatti, delegato a tre cortometraggi di sviluppare alcuni eventi importanti intercorsi nel tempo filmico tra i due lungometraggi:

il primo in ordine di uscita, intitolato 2036: Nexus Dawn, è diretto da Luke Scott e presenta il carismatico nuovo guru della cybertechnology Niander Wallace, interpretato egregiamente da Jared Leto;

un secondo cortometraggio, diretto sempre da Luke Scott e intitolato 2048 Nowhere To Run, si concentra sul personaggio di Sapper Morton, interpretato da Dave Bautista;

il terzo cortometraggio, Black Out 2022, invece, è un fondamentale prequel di animazione diretto da Shinichirô Watanabe che permette di capire cosa ha accentuato il degrado nella Los Angeles distopica del film e ha permesso la riapertura della produzione di replicanti e la conseguente ascesa di Wallace, trattata nel primo cortometraggio.

Per quanto riguarda la fotografia, il regista si è avvalso di un collaboratore di cui ha già apprezzato composizione, esposizione e sensibilità cromatica in precedenti lavori come Prisoners e Sicario: si tratta del 13 volte nominato agli Oscar® Roger Deakins [Le ali della libertà, Ave, Cesare!]. Anche se non faceva parte della crew di Arrival, Deakins ricostruisce benissimo quel mood fotografico dettato dal grigio dominante. Questa base di decadente quotidianità trova netti contrasti nelle scene che si svolgono in interni e, soprattutto, nella città morta, dove il cromatismo tematico che guida tutto il film si fa più forte.  Come in un percorso iniziatico, il protagonista viaggia attraverso luoghi fortemente caratterizzati e passa dall’indaco dell’incipit al rosso dell’ultima parte con un epilogo legato al bianco della neve che, nel 2049 ha sostituito la pioggia costante che fungeva da leitmotiv nella Los Angeles del 2019. La composizione dei fotogrammi rispolvera l’omaggio a Edward Hopper dell’originale ma preferisce un vintage revival più contemporaneo con riferimenti alla pop-art e al dadaismo rispetto al citazionismo vermeeriano-fiammingo di Blade Runner. Quando, poi, cita La finestra sul cortile [Rear window] di Alfred Hitchcock è forte il desiderio di disturbare la visione del film con un applauso a scena aperta!

«Sono tutto quello che vuoi. JOi. Tutto quello che vuoi sentire. Tutto quello che vuoi vedere».

L’editing, non troppo complesso da seguire, è molto vicino al modello del cinema classico americano. Una scelta saggia, probabilmente per non appesantire ulteriormente la comprensione, viste le notevoli incursioni nella filosofia postumana e nelle riflessioni antropologiche sulla vita e sul trascendente. È affidato ad un altro habitué della crew di Villeneuve, il Joe Walker di Sicario e Arrival. A capo del reparto scenografico, un esperto dalla vena creativa molto caratterizzata sul visionario, Dennis Gassner [Big fish – Le storie di una vita incredibile, The Truman Show], premio Oscar® per Bugsy.

Delle scenografie, tutte memorabili – dal casino con il teatro dove possono esibirsi all’infinito icone pop come Elvis Presley o Marilyn Monroe, o il bar con vista panoramica dove un juke-box proietta l’ologramma di Frank Sinatra, all’immensa discarica che nasconde un ingente numero di suggestive fornaci, dalle serre di periferia alla città inscatolata in forme regolarissime che velano un sottostrato di quartieri dominato dalle solite luci ai neon delle incombenti quanto illusorie pubblicità – ma una è quella che rimane maggiormente scolpita nella memoria: le megalitiche statue femminili in posizioni dall’evidente erotismo in una Las Vegas in cui tutto è semisommerso da un deserto di matrice apocalittica.

«Stiamo tutti cercando qualcosa di reale».

I costumi non presentano niente di troppo futuristico ma sono comunque fortemente caratterizzati. Molto curato il make up, invece. La stessa cura offerta dal reparto effetti visivi. Laddove possibile, la squadra di realizzatori ha evitato di usare la CGI e i green screen a favore di un’interpretazione emotivamente verosimile delle reazioni dei personaggi. Tutti gli attori sono risultati ben all’altezza della situazione. Un cast davvero eccellente.

Blade Runner 2049 ha per protagonista Ryan Gosling [The nice guys, La La Land] e un cast che comprende Dave Bautista [I guardiani della galassia, Spectre], il premio Oscar® Jared Leto [Suicide Squad, Mr. Nobody, Dallas Buyers Club], Mackenzie Davis [Sopravvissuto – The martian, Breath in], Robin Wright [Wonder Woman, Everest], Sylvia Hoeks [La migliore offerta], Ana de Armas [Knock Knock, Trafficanti] e i camei di alcuni attori del primo capitolo, uno su tutti Edward James Olmos [Cani sciolti, La forza della volontà], che interpretava il fondamentale personaggio di Gaff, anche stavolta tanto estremamente importante quanto mai laconico con i suoi origami velatamente esplicativi. Di certo non poteva mancare all’appello chi ha reso immortale Blade runner nel 1982, Harrison Ford [Star Wars: Il risveglio della Forza, Adaline – L’eterna giovinezza], che riprende uno dei tre ruoli che l’hanno reso una celebrità cult, quello del cacciatore di replicanti Rick Deckard (per quanto raffinato, le icone pop Han Solo e Indiana Jones non saranno mai superabili).

Significativa anche la musica. Ormai è assodato che la colonna sonora è da considerare un’ulteriore cifra stilistica di Villeneuve. Già Blade Runner, a suo tempo, aveva puntato molto sulle suggestive musiche di Vangelis, che aveva appena ottenuto l’Oscar® per Momenti di gloria. Per Blade Runner 2049, il regista, come già accaduto in Arrival, per la musica extradiegetica sceglie una partitura minimal cui possano legarsi i rumori e i suoni diegetici, in modo da costruire un ponte virtuale fra la realtà filmica e lo spaziotempo della fruizione spettatore. In aggiunta Villeneuve sceglie di legare all’agente K una musica particolare, il tema del protagonista di Pierino e il lupo, l’opera di Sergej Prokof’ev.

L’insistenza nell’utilizzo di questo quartetto d’archi suggerisce di approfondirne le motivazioni. Si tratta di un parallelismo che magari non genererà le stesse elucubrazioni mentali dell’unicorno della famosa Director’s Cut, ma che può sicuramente tener banco almeno fino al prossimo capitolo: la fiaba sinfonica concepita per intrattenere l’infanzia nasconde, in realtà, ben sottotraccia, un inneggiamento alla ribellione nei confronti della dittatura staliniana. Risulta evidente, quindi, il parallelismo con la condizione dei replicanti, ribellatisi al controllo dei loro padroni. Meno palese il relativo ruolo che assumerebbero alcuni personaggi secondo questa ipotesi, e questo è un altro punto a favore dell’imprevedibilità della trama e della stratificazione delle tematiche.

«Non avete visto un miracolo»

Di tematiche in Blade Runner 2049 è possibile rilevarne un gran numero. Senza scendere nei dettagli è possibile radunarne alcune in un elenco, giusto per confermare l’altitudine del progetto. Permangono il tema del doppio che può essere inteso come lettura tipologica dei personaggi o anche vera e propria replica o simulacro – che, se vogliamo andare per il sottile, è simulacro di un simulacro –,   quello della ricerca dell’identità che diventa anche ricerca del trascendente fino a stimolare interpretazioni di matrice messianica e il tema del ricordo che va declinato in ogni caso, dal ricordo che diventa sogno e viceversa all’evento che si vuole rendere indimenticabile fino al desiderio di fare qualcosa di leggendario che rimanga impresso nelle memorie altrui. Tutti temi mutuati dal primo capitolo,  condensabili in un elemento particolare, ossessivamente utilizzato da entrambi i film, l’occhio. Oltre ad intrecciare il romanzo di Dick a 1984 di George Orwel, l’occhio assume una valenza simbolico-religiosa quasi universale e trasmette qualcosa che le linee di dialogo non dicono: il test di controllo dei replicanti, ad esempio, avviene tramite la pupilla, mentre Wallace ne è privo e per sopperire alla sua cecità si serve di alcuni “occhi” volanti che non sono altro che le miniature dei “gusci” che Villeneuve ha usato come astronavi in Arrival. Sarà nato prima l’uovo o la gallina?

«In ogni opera un artista mette una parte di sé».

I “gusci” che Villeneuve impianta in Blade Runner 2049 non sono l’unico elemento della sua poetica a frapporsi nelle maglie di una ragnatela già particolarmente fitta. I temi della memoria, dell’interpretazione, dell’amore genitoriale, del miracolo della vita e del destino di morte fanno di Arrival un gemello semi-identico di Blade Runner 2049 con quel grigio molto insistito che diventa colore simbolo dell’umanità, ottenuto com’è dalla rappresentazione di Yin e Yang, un contrasto fortissimo da molti visto come manicheo, ma che ad un osservatore non superficiale apparirà come l’armonia di opposti che è uno degli archè studiati dai filosofi dell’età classica: qualunque ruota bianca e nera sui faccia girare, fosse anche quella della vita, è un grigio che si otterrà.

«Le ha dato un nome, deve essere speciale»

Per tirare delle conclusioni, Blade Runner 2049 è un percorso iniziatico che va dal sacrificio dell’innocenza all’ammissione in una società ulteriore passando per la conoscenza di grandi segreti? È frutto del desiderio di essere speciale, di potersi elevare al di sopra degli altri e della propria condizione iniziale, di sentirsi per la prima volta vivi, di essere amati e poter amare liberamente? È la storia di scelte sofferte e destini ineluttabili? È la lotta dell’emarginato, dell’estraneo, del diverso, considerato al pari di un mostro da cui tutti debbano sentirsi minacciati? Durante il suo cameo Gaff crea un nuovo origami per K, a forma di pecora; cosa gli avrà voluto dire?

È tutto questo? Niente di tutto questo? È nella natura stessa del racconto di Dick Ma gli androidi sognano pecore elettriche? fornire spunti di riflessione pressoché infiniti senza fornire chiavi di lettura univoche. Perciò sta allo spettatore trarre o meno le debite conclusioni, poter riflettere a margine e discutere a tuttotondo fino a perdere di vista il punto di partenza, ma quello che è certo è che l’enigmatico progetto portato avanti dalle geniali menti di Scott e Villeneuve non andrà perduto come lacrime nella… neve!

«Non ho mai ritirato qualcosa di “nato”».

Nota curiosa a margine.
Nel frattempo è stato ufficialmente annunciato il progetto di riportare nelle sale cinematografiche un altro grande classico della fantascienza: Dune, il romanzo epic sci-fi che ha ispirato Guerre Stellari e che è già stato portato sul grande schermo da David Lynch nel 1984. Denis Villeneuve sarà il regista di questo remake o reboot, a seconda di come vorrà sviluppare l’ampio materiale a disposizione. Un altro compito estremamente delicato per il regista canadese, che si dovrà di nuovo confrontare con le attese dei moltissimi appassionati della saga.

Alien: Covenant, di Ridley Scott

Ambientato 10 anni dopo gli eventi di Prometheus, Alien: Covenant è il sesto capitolo del successo interplanetario ideato da Ridley Scott. Sei film, senza ovviamente contare i crossover con il franchise di Predator, con almeno un altro in lavorazione. Per capire come mai sia giusto scrivere “almeno” l’invito è di arrivare in fondo all’articolo, quando sarà giunto il tempo delle news!
Questo secondo film della nuova trilogia chiude vecchi percorsi narrativi, senza esaurirli del tutto, in realtà, e apre la strada a nuovi scenari, lasciando tutti sulla poltrona con il cuore in gola per la paura e il fiato sospeso per l’immancabile cliffhanger, magari non proprio impensabile, ma che permette di compiere ogni sorta di congettura su come si collegheranno le due trilogie, se avranno un legame le figure femminili che anticipano la venuta di Ripley. E non è forse questo il compito di un’opera d’arte: portare la mente dello spettatore a creare ulteriori prospettive sfruttando la propria immaginazione?

Attraverso una ben ponderata miscellanea di corsi e ricorsi storici conditi da interessanti sorprese narrative, la trama di Alien: Covenant si dipana tra illusioni, inganni e una netta contrapposizione fra istinti di conservazione della specie. Umani, xenomorfi, “Ingegneri” e intelligenze artificiali si contenderanno il predominio sulle altre specie ma prima dovranno lottare contro chi vuole solo un posto al vertice della catena alimentare.

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L’astronave Covenant è in viaggio verso Origae-6. Ibernate al suo interno, 2000 persone sono incaricate di colonizzare il nuovo pianeta e renderlo il nuovo avamposto dell’umanità. Ma la tranquillità del loro sonno indotto è spezzato da un’esplosione stellare che distrugge le vele di navigazione e miete vittime, anche illustri. Il comandante Oram, religioso fin nell’etimologia latina del nome, prende una decisione che innesca una serie di eventi. É così che inizia l’evoluzione di quella creatura che suscita paura, mista a fascino, e che, da quel 1979, infesta le sale cinematografiche mondiali a buona ragione.

Con l’intento di spaventare utilizzando una sceneggiatura intelligente e sofisticata, Ridley Scott ripropone lo xenomorfo gigeriano con tutte le sue irrinunciabili fasi biologiche: attesa dell’ospite, infezione dell’ospite, gestazione-lampo, nascita dell’ibrido e atroce morte dell’ospite. L’uomo, come al solito, può ottenere indistintamente i ruoli di cibo o di incubatrice, ma sarà sempre e comunque preda ma, come in ogni film, la produzione gioca sulle variazioni del tema, talora tradendo talora assecondando le aspettative del pubblico. Lo spettatore-fan, infatti, conosce perfettamente la creatura inventata da Scott e le propensioni dell’una e le abitudini registiche dell’altro. Proprio per questo si è reso necessario curare l’interpretazione autoriale affidandola a chi sa fornire una vasta gamma di colori sentimentali. Privilegiando, ovviamente, il colore del sangue: «Se non ricordo male  – racconta uno dei produttori, Mark Huffam [Prometheus, Sopravvissuto – The Martian] – la prima frase di Ridley è stata: ‘Faremo un film tosto vietato ai minori, e ci servirà un sacco di rosso’, che è il nostro modo di dire sangue».

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Anche il resto del cast è stato scelto in modo da contribuire alla realizzazione di un crescendo di tensione in grado di sostenere il confronto con il capostipite del 1979. I risultati sono davvero notevoli! «Non puoi continuare a fare inseguire gente da un mostro in un corridoio, è noioso. – dichiara Scott – Mi è venuto in mente che nessuno si era posto la domanda: chi ha fatto questo e perché. Potresti dire che sono mostri dello spazio, o divinità spaziali o ancora degli “Ingegneri” dello spazio esterno che li hanno inventati.. non è così. ALIEN: COVENANT stravolgerà tutto».

La trilogia-prequel continua a dar spessore alla trama, a costruire una cosmogonia mostruosa, a popolare con nuove forme di ibridi una mitologia già densamente “nutrita”. L’Alien originale resta uno degli horror più memorabili, un film molto curato dal punto di vista psicologico e a dir poco claustrofobico, una sceneggiatura asciutta ed efficace. «E’ divertente, perché in un certo senso, ho sempre pensato ad Alien come a un B movie davvero ben riuscito. – dice Scott – Il plot era piuttosto semplice: sette persone chiuse in una vecchia casa oscura e si trattava di chi morisse prima e di chi sarebbe sopravvissuto». Per quanto riguarda, invece, Alien: Covenant si può subito notare come anche il sottotesto sia diventato sofisticato con un’esplosione di tematiche trasversali che trascendono il film stesso:

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    • sull’astronave Covenant l’equipaggio è composto da coppie già formate, come un’arca biblica, per favorire una rapida colonizzazione del nuovo pianeta, senza però escludere dal discorso l’omosessualità (Hallett e Lope), un chiaro messaggio di speranza per un futuro migliore in cui non si etichettano le persone in base a criteri arbitrari per il solo gusto di discriminarle ed emarginarle;
    • la figura femminile rimane, come sempre, il vero protagonista del film e rappresentata in modo onesto e credibile con un’evoluzione del personaggio che porta, in questo specifico caso, Daniels [Katherine Waterston; Vizio di formaSteve Jobs], la responsabile delle operazioni di terraformazione, dapprima a chiudersi come in un bozzolo nei panni del partner quasi a volersi far proteggere da quei vestiti più grandi di lei, come a voler tradire un’inadeguatezza insormontabile, per poi reagire alla crisi tirando fuori un carattere coriaceo e deciso che ricorda molto da vicino la migliore Ripley, una metamorfosi che fa da contraltare a quella della famelica creatura;

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      • la prevaricazione di una specie sulle altre senza rispettare gli equilibri naturali: lo xenomorfo, come l’uomo sulla Terra, non si cura del suo impatto ambientale e divora inesorabilmente senza pensare alla conseguente scarsità di risorse;
      • la delinazione della riflessione sulla xenofobia, intesa come paura dello straniero o di un corpo estraneo, di un invasore, l’uomo colonizzatore di pianeti che si ritrova a dover temere una controinvasione che lo attacca sottopelle oltre che esternamente;
      • il sacrificio degli agnelli per permettere ad un solo predatore di nascere e dominare sconsideratamente su tutto;

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    • il rapporto conflittuale che intercorre fra Daniels e Oram esprime una lotta tra l’innato istinto di conservazione mischiato al desiderio di portare a termine la missione scientifico-militare da una parte e la fredda e cieca fede nelle coincidenze come espressione del trascendente dall’altra;
    • l’annosa riflessione sull’intelligenza artificiale e la sua fedeltà servile all’uomo-creatore è ben rappresentata dalla contrapposizione Walter vs David, entrambi interpretati da Michael Fassbender [Assassin’s creed, MacBeth]: Walter è l’evoluzione di David 8, l’organismo sintetico già presente in Prometheus;
    • la dicotomia delle A.I. introduce ad un ultimo tema, il più diffuso in Alien: Covenant, il tema del doppio. Molti degli elementi significativi del film sono raddoppiati: non solo David e Walter, ma anche i Neomorfi sono due; il pianeta su cui la Covenant atterra è simile a quello verso il quale stavano viaggiando; l’equipaggio, com’è noto, è diviso in coppie; il rapporto privilegiato fra Daniels e Walter ricorda quello tra Shaw e David in Prometheus…

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Dal confronto di Walter con David emergono anche dei riferimenti di alta cultura come le citazioni del Paradiso perduto [il titolo provvisorio di Alien: Covenant è stato proprio questo], il poema di John Milton, riguardanti il dilemma di Lucifero che si domanda se sia «meglio regnare all’Inferno che servire in Paradiso». Oltre alle citazioni letterarie non mancano quelle cinematografiche (il personaggio di Tenneessee liberamente ispirato al maggiore TJ “King” Kong de Il Dottor Stranamore ovvero come ho imparato a non preoccuparmi ed amare la bomba di Stanley Kubrick) e delle opere liriche di Richard Wagner con L’olandese volante e soprattutto L’oro del Reno, il prologo de L’anello dei Nibelunghi, nonché la citazione di un celebre dipinto di Füssli con il Neomorfo al posto dell’incubo e David a sostituire la spettrale giumenta che si muove e osserva dietro le quinte.

Il fotogramma cita il celebre dipinto Incubo, di Johann Heinrich Füssli
Il fotogramma cita il celebre dipinto Incubo, di Johann Heinrich Füssli

Sul piano visivo si fanno notare, inoltre, nel mezzo della scenografia nel laboratorio approntato da David sul pianeta di approdo, anche i bellissimi disegni dello stesso Ridley Scott che, da perfezionista qual è, ama realizzare da sé gli storyboard per la preparazione delle riprese, «fantastici, incredibilmente precisi – spiega Charley Henley, VFX Supervisor – praticamente è come se guardassi attraverso l’obiettivo».

Regia classica con una sceneggiatura stratificata e moderna. Eccellente fotografia di Dariusz Wolski [The Walk, Sopravvissuto – The Martian] che trasforma ogni fotogramma in un capolavoro assoluto sfruttando nel migliore dei modi lo standard tecnico di alto livello raggiunto dalle riprese con la ARRI Alexa.

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A completare il settore squisitamente tecnico un audio avvolgente che contribuisce a mantenere vivo il terrore anche nei momenti di presunta quiete filmica.
Anche il silenzio gioca un ruolo fondamentale nell’economia emotiva del film e saperlo rendere filmicamente non è impresa da poco. Alla celebre tagline «Nello spazio nessuno può sentirti urlare», infatti, si aggiungono tutta una serie di linee di dialogo che rimangono scolpite nella memoria fin dal trailer, tra cui «Senti? Il niente: niente uccelli, nessun animale… Niente!». Non impeccabile il montaggio [peraltro del Premio Oscar® Pietro Scalia; Black Hawk Down, JFK] che si lascia sfuggire un errore abbastanza grossolano, un’inversione di tagli che non inficia un lavoro d’equipe colossale in cui ogni settore si è messo in gara per ottenere il massimo.

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costumi di Janty Yates [Prometheus, Sopravvissuto – The Martian, Il gladiatore] possono essere fieri del loro contributo al valore artistico del film con la loro tuta spaziale gialla, veramente bellissima, e con la scelta di non vestire tutto l’equipaggio con una stessa divisa ma di fornire loro un abbigliamento che fosse funzionale al loro ruolo nell’astronave o nell’esplorazione del pianeta.
La scenografia, ideata dal production designer Chris Seagers [Deepwater: Inferno sull’oceano, X-Men – L’inizio] e messa in atto da Victor J. Zolfo [Premio Oscar per Il curioso caso di Benjamin Button], come sempre curatissima nel dettaglio, ha la doppia funzione di dare concretezza alla realtà filmica per lo spettatore e di fornire all’attore una base realmente fisica in contrasto con gli standard attuali che prevedono un larghissimo uso di green screen che non facilitano di certo una recitazione sentita e verosimile.
Il commento musicale di Jed Kurzel [Babadook, Assassin’s creed, MacBeth] sottolinea la tensione e l’incalzante crescendo di terrore con una colonna sonora che prevede campane distorte, flauti dal suono artigianale, accompagnati dalle note del già citato Wagner e, non da ultimo, l’evergreen country di John Denver Take Me Home, Country Roads, che sarà la prima fondamentale svolta narrativa.

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Per la campagna promozionale del film sono stati realizzati due cortometraggi, diretti da Ridley Scott, che fungono da prologo al film: in Last Supper [L’ultima cena] viene introdotto l’equipaggio della Covenant tra cui appare ancora James Franco nei panni di Jacob Branson, il capitano originale della Covenant; The Crossing, un prologo interpretato da Michael Fassbender e Noomi Rapace, nei rispettivi ruoli dell’androide David 8 e della Dr. Elizabeth Shaw, che funge da ponte tra Prometheus e Alien: Covenant. Entrambi i corti sono disponibili sul canale YouTube ufficiale della 20th Century Fox.

Questo è tutto, per ora! Non è al momento conosciuta la data d’inizio riprese del prossimo capitolo della saga, ma in un’intervista al The Sydney Morning Herald, rilasciata il 3 marzo 2017, il regista Ridley Scott dichiara qualcosa che va ben oltre il seguito di Alien: Covenant:

«Fino a un certo punto, devi quasi dare per scontato il successo del film e, proprio per questo, devi essere pronto. Non vuoi una pausa di due anni. Per cui sono pronto a cominciare le riprese il prossimo anno. Se volete davvero un franchise posso mandare avanti l’ingranaggio per sei film. Non ho intenzione di fermarlo di nuovo, nel modo più assoluto».

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Sopravvissuto – The Martian, di Ridley Scott

Mark Watney (Matt Damon) lo sa sin dal momento in cui apre gli occhi dopo l’impatto: è rimasto da solo a 300 milioni di chilometri da casa, su un pianeta pressoché sconosciuto. Per sfuggire a una violenta tempesta l’Ares 3 ha organizzato un piano di rientro d’emergenza, ma qualcosa è andato storto. Il resto dell’equipaggio lo ha abbandonato lì credendolo morto e tra dieci mesi raggiungerà la terra. E lui? Lui si ricuce le ferite, rileva i danni all’hub e al Rover esplorativo, fa la conta dei viveri e prende una decisione: non morirà su Marte. Nessuna allerta spoiler dicendo che l’intento del protagonista verrà ripagato: il titolo italiano del film non lascia dubbi di sorta (contrariamente all’originale inglese, conforme al titolo del romanzo The Martian del biologo Andy Weir da cui la pellicola è tratta): Mark sopravvivrà. Ma a quale prezzo?
La lotta per la sopravvivenza diventa una lotta contro l’infertilità, l’inospitalità e la solitudine. Il prezzo da pagare per resistere i Sol (i giorni marziani, di durata di poco differente da quelli terrestri) che lo separano dalla missione di Ares 4 in arrivo tra 4 anni è la conoscenza profonda di se stessi. Il proprio io può diventare un amico fedele o il nemico più acerrimo: Mark ha stretto un bellissimo rapporto con la propria interiorità, la mossa giusta per affrontare mesi di lotta e attesa, di ingegno e delusioni, di speranza e consapevolezze.

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Ridley Scott torna dietro alla macchina da presa con Sopravvissuto – The Martian in maniera intelligente ed emozionante. La tecnologia di cui non disponeva ai tempi di Blade Runner (come il green screen più grande mai usato nel cinema), lo aiuta di certo a creare un’atmosfera talmente realistica da far sembrare Marte quasi familiare, ma il suo talento fa tanto. I guizzi di regia rimangono sempre frizzanti e divertenti: 130 minuti trascorrono senza l’angoscia di conoscere la sorte di un Matt Damon in una delle sue migliori interpretazioni ma con la curiosità di scoprire quale diavoleria si inventerà al sopraggiungere del prossimo imprevisto. Il resto del cast, poi, inclusi i comprimari come Kate Mara o Michael Peña, è ben calato in ogni personaggio (Jeff Daniels e Sean Bean su tutti).
Dimentichiamo The Counselor – Il Procuratore (2013) e Prometheus (2012) e godiamo di quello che non può essere definito un semplice film di fantascienza (che così “fanta” non è, visto che l’ESA prevede di inviare astronauti su Marte nel periodo 2030-2035), ma che diventa una vera e propria ispirazione sul futuro. La storia di un botanico, che scartabella in tutti i file della sua mente alla ricerca di quel dettaglio utile che non gli permetta semplicemente di sopravvivere ma di pianificare una permanenza duratura, non racconta la semplice curiosità scientifica ma lo spirito creativo e combattivo dell’uomo; un inno alla genialità umana, da non impiegare solo quando l’esigenza di risolvere un problema è impellente ma in ogni momento dell’esistenza. In questo modo qualunque risultato si raggiungerebbe in pochissimo tempo.