Room

I film del 2016 più amati dalla nostra redazione

L’anno cinematografico appena trascorso ci ha regalato grandi emozioni, riuscendo portare sul grande schermo film estremamente eterogenei tra loro, ma tutti di grande impatto visivo e narrativo. Scegliere quali film portare nel nuovo anno non è stato facile, proprio perché ognuna di queste opere cinematografiche segue un linguaggio diverso e sa veicolare le emozioni calandosi a fondo nella realtà oppure sconfinando nella fantasia, per questo abbiamo scelto le storie che più ci hanno toccato il cuore e che secondo noi sopravviveranno al passare del tempo per la loro forza espressiva. Questi sono i 20 film che abbiamo amato di più e che non smetteremmo mai di guardare. Buona lettura!

1 – Zootropolis, di Byron Howard e Rich Moore

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2 – Animali Fantastici e Dove Trovarli, di David Yates

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3 – Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti

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4- Perfetti sconosciuti, di Paolo Genovese

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5 – The Danish Girl, di Tom Hooper

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6- Il Piccolo Principe, di Mark Osborne

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7- Captain Fantastic, di Matt Ross

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8- The Hateful Eight, di Quentin Tarantino

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9- Room, di Lenny Abrahamson

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10- Revenant, di Alejandro González Iñárritu

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11- Il caso Spotlight, di Tom McCarthy

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12 – Carol, di Todd Haynes

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13- Deadpool, di Tim Miller

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14 – La pazza gioia, di Paolo Virzì

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15- Alla ricerca di Dory, di Andrew Stanton

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16 – Rogue One: A Star Wars Story, di Gareth Edwards

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17 – Animali notturni, di Tom Ford

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18 – Sing Street, di John Carney

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19 – Macbeth, di Justin Kurzel

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20- Captain America: Civil War, di Anthony e Joe Russo

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Room, di Lenny Abrahamson

C’era una volta il piccolo Jack, che insieme alla sua Ma viveva in ‘Stanza’… Nella Stanza la vita scorre attraverso giornate identiche scandite da azioni ripetitive e presenze costanti: ci sono i silenziosi e immobili amici ‘Lampada’, ‘Lavandino’ e ‘Sedia’; c’è la scatola magica ‘Tv’; c’è l’irraggiungibile ‘Lucernario’ che si affaccia sull’ indeterminabile spazio; ci sono le irruzioni notturne di ‘Old Nick’, misteriosa presenza che ogni sera si infila per qualche ora nel letto di Ma mentre Jack sta nascosto dentro ‘Armadio’, fino a quando, sparito l’ospite notturno e ritornata la luce, tutto ricomincia uguale. All’indomani del suo quinto compleanno Jack però sente che qualcosa è cambiato: nuove domande e nuovi bisogni iniziano ad emergere dentro di lui, manifestandosi in un’irrequietezza crescente e incontrollabile. Il riflesso di tutto ciò è la sua Ma, sempre meno sorridente, sempre più inquieta e pensierosa, fino a rivelare una sconvolgente verità: fuori c’è un mondo molto più grande e complesso, fatto di persone, animali e cose reali, e per loro due è arrivato il momento di uscire dalla Stanza e raggiungere l’unica vera casa.

Room, l’ultimo film di Lenny Abrahamson, tratto dall’omonimo romanzo di Emma Donoghue (che è anche la sceneggiatrice del film), si presenta fin dall’inizio allo spettatore come continuamente oscillante tra l’invito ad una sospensione dell’incredulità e il richiamo ad una presa di coscienza della realtà. Se il suo soggetto trae indubbiamente ispirazione dalla cronaca più amara e attuale, esso  è tuttavia rappresentato attraverso una doppia lente straniante: quella della favola raccontata da un bambino di appena cinque anni, ed è indubbiamente questo particolare il principale punto di forza del film. Di fronte ad una storia di reclusione, abuso e disagio due sembrerebbero infatti le strade: quella del thriller o quella del dramma; Room invece scardina qualsiasi regola formale imposta dalla tradizione cinematografica e, rifuggendo sia cupezza che patetismo, assume interamente l’ottica leggera sincera e spontanea del suo piccolo narratore protagonista, sì da cogliere e coniugare ricchezza e profondità.

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Non vi è traccia di retorica, né di pornografia emotiva nell’opera di Abrahamson, che sapientemente sceglie di lavorare in sottrazione, con uno sguardo mai invadente, ma al contrario delicato e sensibile in un distacco che preserva e anzi valorizza l’autenticità di abbracci, sguardi o di qualsiasi altro momento d’intimità, in cui alla fine a trionfare sono dolcezza e tenerezza. Uno sguardo e una sensibilità, quelli voluti dal regista, che  guidano lo spettatore anche quando la storia continua al di fuori della stanza, determinando una cesura e una divisione in due parti del film che rappresentano l’ennesima scelta forte e ‘rivoluzionaria’ del regista. Una scelta però ancora una volta vincente, poiché se in un primo momento lo spettatore risulta quasi disturbato dall’insolito invito ad andare oltre il rassicurante e liberatorio ‘happy ending’, alla fine è proprio nel prosieguo della storia che si nasconde una più completa catarsi, oltre che una completezza e un’onestà maggiori non solo dal punto di vista narrativo, ma soprattutto da quello psicologico e sociologico.

C’è tanto, tantissimo in  Room: ci sono, s’è già detto, l’abuso e la reclusione, c’è la difficile relazione tra genitori e figli, c’è il tema della crescita e quello della famiglia, c’è la denuncia dei meccanismi perversi e della violenza dei media; eppure tutto trova il suo posto e si armonizza in un film potente e leggero tanto quanto le magnifiche interpretazioni dei suoi due indiscussi protagonisti: Brie Larson (vincitrice, grazie a questa interpretazione, dell’Oscar 2016 come ‘Miglior attrice protagonista’) e lo sbalorditivo Jacob Tremblay, di appena dieci anni.

Se è vero che nel mondo d’oggi – e nelle manifestazioni artistiche da esso scaturite – qualsiasi utopia risulta ingannevole e lascia il posto a realtà distopiche, Room non nega ed anzi rispetta tale assunto, ma nel farlo mostra la rara virtù (dal sapore calviniano) di riuscire a trovare in mezzo all’inferno ciò che inferno non è, lasciando che bellezza e dolcezza ci salvino con sincerità.