Rooney Mara

Maria Maddalena, di Garth Davis

La tradizione iconografica e storica ci ha tramandato l’immagine di Maria Maddalena come donna “penitente”, emblema di un umanità peccatrice che redime se stessa grazie alla misericordia divina. Senza dubbio però la figura di questa donna ha sempre esercitato un fascino particolare su artisti di ogni epoca e genere, e al di là della facile identificazione con il lato più umano – e più carnale – del Nuovo Testamento, la Maddalena risulta essere il fulcro di una serie di simbologie e misticismi che dai vangeli apocrifi arrivano fino alla versione di Dan Brown.
La pellicola di Garth Davis, nelle sale cinematografiche dal 15 marzo, si propone di restituire a un personaggio spesso oscurato e quasi sempre frainteso, lo spessore e la complessità che merita.

La vicenda prende avvio sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade, nel villaggio di pescatori chiamato Magdala, dove Maria, giovane donna, vive con la sua famiglia e possiede suo malgrado un carattere tenace non tollerato dalla società patriarcale e gerarchica dominante. Il conflitto con il nucleo familiare si esaspera quando la donna rifiuta di sottostare alla volontà paterna di darla in sposa a un uomo.
La figura di Maria è da subito associata a un certo simbolismo legato al femmineo: è nota nel villaggio per il dono innato di alleviare le sofferenze delle partorienti, ritornano di frequente le immagini della luna e soprattutto è costantemente presente l’elemento liquido. È nell’acqua che, come racconta lei stessa a Gesù, amava abbandonare il suo corpo da bambina per percepire la sensazione di un’anima immersa nella Fede, è con l’acqua che la famiglia cerca di esorcizzarla e di ammansirla ed è proprio dall’acqua che Gesù la fa risorgere a nuova vita tramite il Battesimo.
La tradizione evangelica viene dunque preservata ma sottoposta a rielaborazione laica: i sette demoni della Maddalena di cui parla il Nuovo Testamento altro non sarebbero che una forza di volontà inaccettabile per una donna dell’epoca, mentre l’incontro con Gesù, profeta e guaritore di passaggio nel suo villaggio, è salvifico ma non redime Maria da una vita dissoluta e peccaminosa, agisce piuttosto da riscatto rispetto a una vita che lei sente non appartenerle.


La sceneggiatura di Philippa Goslett e Helen Edmunson ripercorre l’ultimo arco temporale della vita di Gesù dal punto di vista narrativo di Maria, che diventa testimone degli episodi evangelici più rappresentativi: dalle guarigioni miracolose alla resurrezione di Lazzaro, dalla predicazione itinerante all’Ultima cena. Se la sua figura in un contesto inequivocabilmente maschile sembra quasi schiacciata, indifesa, trova tuttavia una dimensione propria in un dialogo privilegiato con Gesù e si ritaglia un ruolo determinante nella predicazione, la sua conversione diventa uno strumento per dare voce alle donne di Galilea. Farne una moderna paladina femminista sarebbe stato facile e scontato, il regista invece calibra sapientemente il suo ruolo femminile non perdendo mai di vista le insormontabili difficoltà che la accompagnano, come dimostra lo splendido dialogo con un’altra figura chiave della fede cristiana, la madre di Gesù: non c’è banale complicità nel breve scambio di battute tra le due Marie, emerge piuttosto una compassione reciproca di due donne consapevoli di amare un uomo fatalmente legato al suo ruolo e al suo destino.

Dall’entrata a Gerusalemme tutto scivola velocemente verso l’epilogo decisivo, i fatti non contano, o contano quanto basta per far emergere le emozioni coinvolte. Nessuna traccia dunque del processo a Gesù, di Ponzio Pilato, dei sacerdoti o di Barabba, l’ellisse è facilmente giustificata da uno svenimento di Maria durante la cattura al monte degli Ulivi. Ci ritroviamo traghettati direttamente sul percorso del Calvario, quando la forza della Maddalena sembra per un attimo venire meno, e infine ai piedi della croce dove lei occupa con coraggio il posto che l’iconografia le ha sempre riservato.
La scelta narrativa di eliminare ogni elemento ultraterreno, dagli squarci nel cielo agli angeli di guardia al sepolcro, consente ai rapporti personali e ancora di più a quelli psicologici di essere inquadrati in un ottica tanto provvidenziale quanto umana. Non ci sono pedine investite da un ruolo provvidenziale ma uomini con speranze e timori e ogni azione assume un’urgenza immediata che sembra coincidere con il progetto divino precostituito solo per puro caso.

Inevitabilmente spicca la figura di Pietro, interpretato da Chiwetel Ejiofor già candidato all’Oscar per 12 anni schiavo, il discepolo dell’impulsività, rappresentato come un uomo desideroso di dimostrare al gruppo la sua leadership e geloso del dialogo intimo che si instaura tra il Rabbì e quella giovane donna arrivata a portare scompiglio nel gruppo che lui sente invece la responsabilità di gestire. La portata metaforica del loro rapporto conflittuale raggiunge un apice narrativo nella scena estremamente toccante tra i moribondi di Samaria: il ruolo istituzionale e razionale di Pietro, che incarna la Chiesa, si scontra e viene annientato dalla volontà granitica di Maria, spirito missionario e misericordioso, che soccorre i bisognosi senza mai vacillare.

Ma è Tahar Rahim nei panni di Giuda a godere di una particolare trattamento. Ci troviamo di fronte a un personaggio inaspettatamente a tutto tondo, a cui non serve il celebre bacio per trovare posto nella storia. L’emblematicità del suo ruolo ha sempre tenuto la figura di Giuda sospesa tra la rappresentazione di un semplice strumento divino privo di volontà propria e la malvagità di un’ispirazione demoniaca improvvisa. Il film ribalta ogni meccanismo strutturale e ci consegna finalmente la storia di un uomo, con un passato difficile e con delle aspettative rispetto al Messia. Il suo tradimento è un gesto di disperazione e speranza generato da un fraintendimento fatale del messaggio di Gesù, talmente ingenuo da risultare quasi commovente. Anche il suicidio viene assorbito dalla storia personale del personaggio ed è impossibile non empatizzare con il carico di fallimento che si porta dietro.

Gesù ha il volto di Joaquin Phoenix, il cui indiscutibile talento conferisce alla figura chiave del racconto apostolico una malinconia e una concretezza ammirevole. Un Gesù il suo che appare stanco, affaticato non tanto dalla missione divina, quanto dalla ripetuta incomprensione che le sue parole e le sue azioni generano negli uomini che ha scelto come discepoli. Trova rifugio spirituale e conforto umano solo nel dialogo che instaura con la Maddalena, la sola davvero capace di comprendere il suo messaggio di salvezza e il peso di una natura umana votata al sacrificio. Maria è l’unica a non pretendere nulla da Lui, l’unica che non ha aspettative se non quella di stargli accanto fino alla fine.

La due volte candidata all’Oscar Rooney Mara interpreta una protagonista forte, tenace, che però non perde mai la femminilità e soprattutto la dignità, a dimostrazione che il femminismo autentico è ben lontano dagli stereotipi con cui viene oggi identificato. Il suo sguardo magnetico si accosta al racconto evangelico con un disincanto capace di affascinare lo spettatore, mentre la sua fisicità esile traduce sullo schermo tanto l’inadeguatezza dell’uomo di fronte al mistero divino quanto lo sforzo di essere donna in una società implacabile. La sua interpretazione offre allo schermo una Maddalena che è una sintesi di fragilità umane e forza morale, di misericordia incrollabile e etica irreprensibile.

Una fotografia calibrata, attenta alle sfumature e ai dettagli dirige un ritmo narrativo incentrato sulle emozioni più che sui fatti ben noti della vita di Gesù, mentre gli uomini e i loro progetti appaiono come sovrastati costantemente da una natura silenziosa e imponente.
Tanti i set italiani: dopo Pasolini e Mel Gibson, anche la produzione di Mary Magdalene sceglie come location strategica per rappresentare le vicende evangeliche quella dei Sassi di Matera. Altre scene sono state girate tra la provincia di Trapani e Napoli, dove un’irriconoscibile Piazza del Plebiscito è stata utilizzata per la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme.

L’elemento più innovativo e sorprendente è forse l’onestà intellettuale con cui il film, distribuito dalla Universal Pictures, sceglie di trattare una figura così emblematica e così discussa della storia secolare e religiosa, tralasciando ogni aspetto di morbosa curiosità legata alla sua vicenda.
Non c’è traccia per tanto nel film né della tradizione popolare che associa Maria Maddalena alla prostituta salvata dal Messia da un’atroce morte per lapidazione – versione per altro derivata da una errata sovrapposizione con altre due adultere di cui si parla nel Vangelo – né della versione complottistica e romanzata che la vuole la ricca amante dell’uomo Gesù, vero Sacro Graal e quant’altro.
La forza del film sta piuttosto nella volontà di una ricostruzione che sia fedele alla versione canonica dei Testi sacri ma non documentaristica e che al tempo stesso risulti coinvolgente senza però ricorrere all’esasperazione degli elementi che la compongono. La “discepola tra i discepoli” prima testimone della Resurrezione del Cristo recupera così quella investitura ufficiale che, come una didascalia alla fine del film precisa, per troppo tempo la Chiesa ha cercato di soffocare con la calunnia e che solo di recente ha riscoperto.

La salvezza della Maddalena dunque non è un dono ma una conquista. È lei che, non senza tormenti o dubbi, decide di prendere in mano la sua vita e di liberarsi letteralmente da una rete di rapporti che la sovrastano e la ingabbiano, è lei che sceglie di seguire il suo istinto e il suo cuore. Una donna coraggiosa che costruisce il suo destino dunque ma anche una testimone della Fede, Maria Maddalena non si limita ad affrontare un viaggio fisico e metaforico di redenzione, quel percorso lo analizza, ne valuta le implicazioni, e infine lo incarna nella sua vita perché ne comprende il significato. La narrazione sceglie di associare la vocazione di Maria alla parabola del seme (ritorna un elemento associabile al femmineo, simbolo di fecondità ma anche di conoscenza per il legame con la mela di Eva) attraverso cui Gesù descrive il Regno di Dio, tuttavia i discepoli, e con essi la Chiesa, non colgono subito il senso autentico delle sue parole: la più imprevedibile delle rivoluzioni può scaturire da un elemento piccolo e all’apparenza insignificante. È questa la lezione di Maria Maddalena.

Song to song, di Terrence Malick

Austin è l’unico posto al mondo in cui la musica si respira, si assapora, e si vive fino in fondo. Non c’è musicista o aspirante tale che non si sia lasciato trasportare dal ritmo di questo luogo straordinario, mitico a tratti, dove un festival musicale ne insegue un’altro e country, folk, blues, new wave, punk o rock si mescolano in un’unica armonia. Talvolta il ritmo frenetico di Austin fa girare la testa, ma l’unica maniera per scoprire la propria identità è perdersi tra le pieghe della capitale mondiale della musica live, farsi risucchiare dal vortice dei concerti e della vita mondana, incontrare gli artisti, innamorarsi, e lasciare che qualcuno di loro ti cambi la vita, che sia con un bacio o con una canzone.

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Di canzone in canzone e di bacio in bacio, la giovane cantautrice Faye (Rooney Mara) si tuffa a capofitto nella vita musicale di Austin, facendosi rapire prima dalla sensualità esplosiva del suo produttore Cook (Michael Fassbender), impegnato con la cameriera Rhonda (Natalie Portman), e poi dalla dolcezza ingenua di BV (Ryan Gosling), la sua anima gemella musicale. La musica li nutre, li attrae l’uno all’altro più del sesso e li lega in un triangolo amoroso dal quale è impossibile uscire. Ed è proprio in questo momento che il regista Terrence Malick entra nelle loro vite, di soppiatto, senza far rumore, solo per danzare con loro. Sembra quasi che i personaggi vengano scoperti quasi casualmente dalla macchina da presa, che si avvicina ai loro volti tanto da annullare il confine tra l’inquadratura e la loro pelle, ma non tanto da infrangere la loro intimità.

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La loro danza scorre leggera, lenta, come un flusso di adrenalina costante. E loro non fanno altro che volteggiare, attorcigliarsi, abbandonarsi alla bellezza della natura che li ingloba. Ancora una volta Terrence Malick si dimostra un maestro dell’arte mimetica, capace di catturare gli sguardi e i comportamenti discreti e attraverso questi narrare la sua storia. E le immagini mostrate sono talmente magnetiche da ingoiare i dialoghi, lasciando che siano i corpi a parlare, e ancora di più gli spazi in cui si muovono, rappresentazione speculare del loro continua ricerca della perfezione estetica.

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La fotografia fluida di Lubezki impreziosisce la pellicola e riesce a far emergere il lato oscuro e nascosto dei personaggi con un collage di inquadrature studiate in ogni dettaglio, estreme in alcuni casi, ma talmente potenti da risucchiare lo spettatore dentro all’immagine stessa, fino all’abisso in cui sono imprigionati i personaggi. La firma di Malick è evidente in ogni scena, così come la sua capacità di far intravedere l’inferno dietro l’apparenza del paradiso, la corruzione dietro la perfezione, e di affascinare chi nel cinema cerca l’immagine sopra ogni cosa.

Kubo e la spada magica, di Travis Knight

Quarto lungometraggio per Laika Entertainment, con i suoi oltre 145.000 fotogrammi, Kubo e la spada magica è un capolavoro di animazione in stop-motion che insidia il primato di Alla ricerca di Dory nella classifica del miglior film di animazione dell’anno e non solo, potrebbe addirittura competere con le migliori pellicole dell’anno.

Perfetta la sceneggiatura di Marc Haimes [Collateral, Transformers] e Chris Butler [ParaNorman, La sposa cadavere, Coraline e la porta magica], basata sul formidabile soggetto di Shannon Tindle [Coraline e la porta magica, I Croods] e Marc Haimes: nucleo narrativo da romanzo di formazione, struttura che richiama il viaggio dell’eroe, innestando elementi desunti dalla cultura nipponica, come origami, bunraku, samurai, cerimonie antichissime al fascino della lanterna magica, l’origine del cinematografo.

«Non battere ciglio… da ora! Presta attenzione a tutto ciò che stai per vedere e ascoltare, per quanto strano possa sembrarvi. E vi avverto: se distoglierete lo sguardo, se vi distrarrete o se dimenticherete anche una sola parte della storia, il nostro eroe di sicuro perirà!».

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Nell’antico Giappone un ragazzo senza un occhio di nome Kubo si prende cura di sua madre in una grotta su una scogliera isolata e si guadagna da vivere raccontando storie agli abitanti del vicino villaggio costiero sfruttando il potere magico di famiglia che permette di animare gli origami come in uno spettacolo bunraku, accompagnato dal suono del suo fedele shamisen, uno strumento a tre corde. Protagonista delle sue storie è il leggendario guerriero Hanzo, suo padre, che morì per difendere lui e sua madre dall’ira del nonno Raiden. Da allora madre e figlio vivono celati dalla luce della luna per non essere trovati, ma una notte, nel tentativo di comunicare con lo spirito del padre durante l’obon, la tradizionale cerimonia delle lanterne, Kubo rimane fuori dal rifugio dopo il tramonto e le malvagie zie lo trovano e faranno di tutto per strappargli l’altro occhio. Intraprendere un viaggio alla ricerca dei tre pezzi dell’armatura del padre è l’unica soluzione per salvare se stesso e la propria famiglia. Fortunatamente con lui ci sono Scimmia e Scarabeo, due insoliti aiutanti per una “quest” che va ben oltre gli oggetti in sé: la spada indistruttibile, la corazza impenetrabile e l’elmo invulnerabile sono solo una piccola parte dei segreti che Kubo dovrà scoprire.

«Sicuro non sia la spada “introvabile”?».

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Gli elementi dell’epopea avventura e della leggenda popolare si mescolano ai sentimenti che sono l’energia vitale della trama, della storia che in questo film è, a maggior ragione, l’equivalente stesso della vita. Scheletri giganti, occhi scrutanti, malvagi mascherati dovranno vedersela con la loro nemesi per antonomasia: l’amore indistruttibile, impenetrabile, invulnerabile.

«I ricordi hanno un grande potere».

La voce di Kubo, nella versione originale [Kubo and the two strings], è di Art Parkinson, che ha interpretato Ingeras, l’amato figlio di Dracula Untold, mentre a doppiare gli altri personaggi sono le star Matthew McConaughey, alla sua prima volta, Charlize Theron, Rooney Mara [Carol, Prometheus] e Ralph Fiennes [Spectre, A bigger splash]. A cotante stelle corrispondono fortunatamente grandi nomi italiani, molto esperti nel doppiaggio di film di animazione, Neri Marcorè, Domitilla D’Amico, Chiara Colizzi, Stefano Benassi, a sostegno della voce italiana di Kubo, Giulio Bartolomei.

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Kubo e la spada magica segna il debutto alla regia per Travis Knight, che non è il fratello di Michael Knight, il pilota della Supercar K.I.T.T., anche se la macchina meravigliosa che ha tirato su è altrettanto super e in quanto a fama non scherza neanche lui: ex rapper, con lo pseudonimo Chilly Tee, è da qualche anno il presidente e CEO della Laika Entertainment, nata dalle ceneri dei Will Vinton Studios, realizzatori di animazioni in claymation che hanno fatto la storia degli anni ‘80 e ’90: i cortometraggi The Creation e The Great Cognito, nominate agli Oscar rispettivamente nel 1981 e nel 1982; le animazioni di Nel fantastico mondo di Oz, sfortunato seguito de Il mago di OzSpeed demon, una delle sequenze animate di Moonwalker, e alcune trovate pubblicitarie tanto seguite da raggiungere una seppur minima serializzazione televisiva, come The California Raisin Show, da noi erroneamente intitolato Le prugne della California, ma i più famosi al momento sono i testimonial animati della MM’s, attualmente in uso.

Travis, muove i suoi primi “passo uno” come animatore proprio presso i Vinton Studios e, quando la società inizia ad aver bisogno di fondi esterni, Phil Knight, padre di Travis, nonché presidente e cofondatore della Nike, s’inserisce come azionista di maggioranza nel 2002 e in pochi anni, nel  2005, viene fondata la Laika con un supervisore d’eccezione, Henry Selick (The nightmare before Christmas, Coraline e la porta magica).

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Da allora la casa di produzione di Portland, patria di un’altra gemma come I Simpson, ha inanellato una serie di successi che, per chi conosce il lavoro maniacale che c’è dietro questo genere di animazione, sono vere e proprie opere d’arte: da La sposa cadavere a Kubo, passando per BoxTrolls, ParaNorman e il citatissimo Coraline, quest’ultimo battuto di un minuto nel primato di stop-motion movie più lungo al mondo.

«Tutte le storie hanno una fine».

Ad impreziosire un prodotto già di per sé fantastico, è stupendo poter evidenziare, per stima prima che per campanilismo, le musiche originali, studiate nel dettaglio, del pisano Dario Marianelli, premio Oscar® 2008 per Espiazione e compositore anche di BoxTrolls, Il solista, Everest, V per vendetta, Anna Karenina, Il pescatore di sogni, Agora, Jane Eyre, Orgoglio e pregiudizio, Quartet, Stanno tutti bene, Mangia prega ama, solo per citare le colonne sonore di maggior successo.

End credits da applausi con una While my guitar gently weeps di George Harrison, in una nuova versione cantata da Regina Spektor, e qualche chicca imperdibile, perciò non alzatevi immediatamente dalle poltrone, le vostre quest quotidiane possono attendere qualche altro minuto per godere fino alla fine di questo prezioso gioiello d’animazione che è Kubo e la spada magica.

«You are my quest».

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Carol, di Todd Haynes

A volte la vera bellezza si nasconde in luoghi inaspettati, dietro la vetrina appannata di un negozio di bambole d’epoca, sulle labbra scarlatte di una donna che attorciglia graziosamente i suoi riccioli biondi o nelle maglie di una pellicola delicatamente sgranata che incornicia i volti come in quadro di Hopper. La bellezza di Carol vive tra le pieghe degli abiti di seta, nella polvere di cipria e nell’eleganza formale dei corpi e degli ambienti in cui si muovono, ricostruiti con grazia e dovizia di particolari da Todd Haynes, il regista che meglio sa dipingere l’alta borghesia degli anni Cinquanta, così perfetta nelle apparenze quanto imperfetta nelle azioni.

Carol (Cate Blanchett) è una donna bellissima, sposata senza amore con un ricco banchiere newyorkese, innamorata della sua bambina ma non di suo marito. Sotto la maschera di moglie e madre perfetta, con i capelli sempre impeccabili e la vita fasciata da abiti di sartoria all’ultima moda, nasconde un trasporto inconfessabile per una giovane donna, Therese Belivet (Rooney Mara), che ha visto per la prima volta in un negozio di giocattoli la vigilia di Natale. Therese appartiene a un ambiente sociale diverso da Carol, e si sta appena affacciando al mondo adulto, ma stranamente rimane incanta da questa donna così bella e sicura di sé e fa di tutto per entrare nella sua vita.

(L-R) KYLE CHANDLER and CATE BLANCHETT star in CAROL
L’attrazione tra Carol e Therese è magnetica, brucia sotto la pelle e freme ogni volta che si toccano con lo sguardo, ma si sforza di rimanere sopita più a lungo possibile agli occhi di una società, che inizia ad accarezzare l’emancipazione della donna, ma non è ancora abbastanza coraggiosa da rompere le convenzioni che la imbrigliano nei ruolo di moglie e madre. Carol è l’America del dopoguerra, la personificazione del sentimento contrastante che freme verso il futuro ma rimane bloccato dal retaggio del passato, mentre Therese è una donna indipendente e determinata a seguire le sue passioni, ma ancora troppo insicura per scegliere per sé un amore omosessuale.

Il loro incontro nel 1952 ha acceso l’America, trasformando Carol, il romanzo di Patricia Highsmith, in un caso letterario, per aver descritto per la prima volta l’amore tra due donne newyorkesi, e oggi le parole dell’opera si sublimano in una scena elegante e perfetta nella sua compostezza. Todd Haynes dipinge la passione tra le due donne con la cura di un pittore che si sofferma sui dettagli estetici per raccontare i sentimenti che si dibattono sotto la superficie, ma rimane a guardare i suoi personaggi da lontano, attraverso una finestra invisibile, per non turbare la perfezione della casa di bambole che ha costruito per loro. Questa è la vera bellezza.