Ryan Gosling

Blade Runner 2049, di Denis Villeneuve

Chi siamo? Da dove veniamo? Cos’è la vita? Cosa ci rende “umani”? Qual è la fonte dei nostri ricordi? Che ruolo abbiamo nella vita del mondo? Quanto conta davvero la nostra volontà? Domande esistenziali fondamentali che difficilmente uno spettatore può trovare in un film che non sia un documentario estremamente soporifero! Chi conosce e ha apprezzato la densità di tematiche, riflessioni filosofico-religiose, allegorie e l’ambientazione distopico-paranoide del capolavoro di Ridley Scott, ritroverà in Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve tutto questo materiale declinato in maniera paradigmatica. Sviluppando e raffinando la trama fino ad ottenere la naturale evoluzione del precedente, il regista di Arrival e Prisoners remixa e attualizza per il nuovo target il profondo lavoro di Scott, pur mantenendo una rispettosa fedeltà allo spirito dell’originale. «Il mio obiettivo – ha confessato Villeneuve – era quello di onorare l’estetica da film noir del primo, pur dando al nuovo film una propria identità». Il connubio di noir, sci-fi e azione è riuscito alla perfezione lasciando comunque spazio alla riflessione. Per ogni domanda che trova una risposta, un’altra ne deriva che scaturisce nuovi percorsi meditativi. Da vedere e, soprattutto, rivedere per godere appieno della stratificazione delle tematiche.

Denis Villeneuve traduce divinamente la riflessione antropologica di Philip K. Dick in uno spettacolo sublime per forma e contenuto. Se Blade Runner è basato sull’archetipica figura collodiana del burattino che vuol far valere i propri diritti alla vita, in una rilettura che va ben oltre la scrittura sofisticatamente filosofica del più antico Frankenstein di Mary Shelley, per il seguito, intriso della visionarietà sentimentale di Villeneuve, bisogna scomodare in parte il complesso registro di personaggi racchiuso nei sapienti versi delle tragedie, con le loro leggendarie figure, mosse da emozioni forti e schiacciate dalla loro stessa piccolezza, dinnanzi ad un disegno di vita che l’altrui volere desidera diverso dalle proprie aspettative, lontano anni-luce dai sogni che li hanno spinti ora alle più alte vette della gloria ora sull’orlo dell’abisso senza possibilità di ritorno.

«Sognare un po’ non è sbagliato, non credi?»
«Per noi lo è»

Blade Runner 2049 ha rispettato l’universo creato da Ridley Scott e ha annodato ogni filo lasciato in sospeso dal predecessore ad una nuova ragnatela di sottotrame che ascendono a nobile rappresentazione dell’antica tendenza alla ricerca dell’identità, delle origini dell’amore nella sua forma più pura. Perché non può esserci futuro senza conoscere il passato o almeno non un futuro degno di essere vissuto senza un passato che ne giustifichi i meriti o possa correggerne i difetti.

Era il 1982 quando il Blade Runner di Ridley Scott vedeva la luce nella buia sala di un cinema. Nella Los Angeles del 2019, luogo e tempo in cui si svolgevano le vicende del film, pioveva e si respirava un’aria decadente, nonostante un’ambientazione distopica in cui la tecnologia sopperiva alle necessità quotidiane che la natura non riusciva più a soddisfare appieno. Alcuni androidi, soprannominati “replicanti” o in senso maggiormente dispregiativo “lavori in pelle” e costruiti per essere schiavi in colonie dell’extramondo, si erano ribellati e un agente speciale, Rick Deckard [Harrison Ford], doveva stanarli e terminarli. In Blade Runner 2049, di Denis Villeneuve, un nuovo cacciatore di replicanti, l’agente K [Ryan Gosling], ha il compito di… riportare lo spettatore laddove era stato lasciato: un origami a forma di unicorno innestava il seme del dubbio sulla natura di Deckard in un contesto in cui la ricerca della verità è diventata un labirinto di domande senza una risposta. Il labirinto permane anche nel nuovo capitolo con l’ulteriore difficoltà per l’agente K: il suo viaggio alla ricerca dei replicanti riporterà alla luce un segreto nascosto da tempo sotto un cumulo di terra morta. Un segreto che può cambiare il destino dell’intera umanità.

«L’umanità non può sopravvivere… La Terra sta morendo… i Replicanti sono il futuro della specie».

L’agente K [Ryan Gosling] non è immune alla crisi esistenziale che già aveva contagiato il cuore del collega Deckard [Harrison Ford]. Per il presunto bene dell’umanità fino a che punto ci si può spingere? Per mantenere un ordine arbitrariamente stabilito, quali crimini è lecito commettere? Vivendo in un mondo ingrigito dall’abuso tecnologico e dalla subordinazione della natura e dei sentimenti agli interessi economici e politici, camminando troppo spesso a cavallo dell’ipotetica linea che divide il Bene dal Male, il bianco dal nero, la luce dalle tenebre, i personaggi di Blade Runner 2049 devono fare i conti più che altro con la propria coscienza e quell’innata predisposizione che ci spinge a scegliere da che parte stare della Forza, per dirla come la direbbe Lucas.

Il 5 Ottobre 2017 – il 6 negli U.S.A. – è uscito nelle sale, attesissimo, Blade Runner 2049. Un sequel di un classico intramontabile, si sa, fa sempre discutere, specialmente se l’originale è da sempre considerato uno dei migliori film di fantascienza che siano mai stati prodotti. L’opinione pubblica ha accolto la notizia dividendosi come in un preparativo di guerra fra pro e contro, se non addirittura fra delusi a prescindere e rassegnati al peggio. Non delude le aspettative, invece, il film di Villeneuve, anzi gioca con esse, divertendosi a gettare arbitrariamente luci ed ombre sui personaggi, senza sciogliere definitivamente i nodi cruciali che li legano gli uni agli altri. Non è rimasto deluso nemmeno Ridley Scott – che non ha diretto ma ha prodotto la pellicola – e, consapevole delle notevoli capacità autoriali del collega, gli ha concesso la totale libertà creativa e fornito la piena disponibilità in caso di bisogno.

In 35 anni di attesa, e parafrasando goliardicamente il monologo del replicante Roy, ne abbiamo viste “cose” che sembrava dovessero scalzare di classifica uno dei migliori film di fantascienza di sempre: robot da combattimento in fiamme uscire dallo schermo grazie agli occhialini 3D, e abbiamo visto serie tv e sequel di film altisonanti balenare dal buio e spiaggiarsi davanti al monumento funebre di Ray Harryhausen. E tutti quei momenti è giusto che vadano perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di iniziare un nuovo percorso per il pubblico esigente di Blade Runner, ed è tempo di affidarsi completamente al fascino del sequel, consapevoli della competenza e del coraggio di Denis Villeneuve, un regista che sa coinvolgere oltre che intrattenere e non è nuovo nel trattamento di sceneggiature filosoficamente complesse con risvolti sentimentali nono scontati. Per giunta candidato agli Oscar® nel 2011 con La donna che canta come Miglior film straniero e nel 2017 per la Miglior regista con Arrival. Di certo non una seconda scelta!

«Cazzo! Ma sono l’unica a vedere l’alba?»

A dimostrazione del desiderio di connubio perfetto fra vecchio e nuovo che è alla base di questo ambizioso progetto, la sceneggiatura di Blade Runner 2049 è stata scritta da Michael Green, autore dei recenti successi Alien: Covenant e Logan – The Wolverine, con la partecipazione indispensabile di Hampton Fancher, cioè l’ideatore del soggetto originale del 1982. Lo stesso Fancher ha firmato le sceneggiature dei cortometraggi che hanno “scaldato” i fan nei mesi precedenti l’uscita del film. Villeneuve ha, infatti, delegato a tre cortometraggi di sviluppare alcuni eventi importanti intercorsi nel tempo filmico tra i due lungometraggi:

il primo in ordine di uscita, intitolato 2036: Nexus Dawn, è diretto da Luke Scott e presenta il carismatico nuovo guru della cybertechnology Niander Wallace, interpretato egregiamente da Jared Leto;

un secondo cortometraggio, diretto sempre da Luke Scott e intitolato 2048 Nowhere To Run, si concentra sul personaggio di Sapper Morton, interpretato da Dave Bautista;

il terzo cortometraggio, Black Out 2022, invece, è un fondamentale prequel di animazione diretto da Shinichirô Watanabe che permette di capire cosa ha accentuato il degrado nella Los Angeles distopica del film e ha permesso la riapertura della produzione di replicanti e la conseguente ascesa di Wallace, trattata nel primo cortometraggio.

Per quanto riguarda la fotografia, il regista si è avvalso di un collaboratore di cui ha già apprezzato composizione, esposizione e sensibilità cromatica in precedenti lavori come Prisoners e Sicario: si tratta del 13 volte nominato agli Oscar® Roger Deakins [Le ali della libertà, Ave, Cesare!]. Anche se non faceva parte della crew di Arrival, Deakins ricostruisce benissimo quel mood fotografico dettato dal grigio dominante. Questa base di decadente quotidianità trova netti contrasti nelle scene che si svolgono in interni e, soprattutto, nella città morta, dove il cromatismo tematico che guida tutto il film si fa più forte.  Come in un percorso iniziatico, il protagonista viaggia attraverso luoghi fortemente caratterizzati e passa dall’indaco dell’incipit al rosso dell’ultima parte con un epilogo legato al bianco della neve che, nel 2049 ha sostituito la pioggia costante che fungeva da leitmotiv nella Los Angeles del 2019. La composizione dei fotogrammi rispolvera l’omaggio a Edward Hopper dell’originale ma preferisce un vintage revival più contemporaneo con riferimenti alla pop-art e al dadaismo rispetto al citazionismo vermeeriano-fiammingo di Blade Runner. Quando, poi, cita La finestra sul cortile [Rear window] di Alfred Hitchcock è forte il desiderio di disturbare la visione del film con un applauso a scena aperta!

«Sono tutto quello che vuoi. JOi. Tutto quello che vuoi sentire. Tutto quello che vuoi vedere».

L’editing, non troppo complesso da seguire, è molto vicino al modello del cinema classico americano. Una scelta saggia, probabilmente per non appesantire ulteriormente la comprensione, viste le notevoli incursioni nella filosofia postumana e nelle riflessioni antropologiche sulla vita e sul trascendente. È affidato ad un altro habitué della crew di Villeneuve, il Joe Walker di Sicario e Arrival. A capo del reparto scenografico, un esperto dalla vena creativa molto caratterizzata sul visionario, Dennis Gassner [Big fish – Le storie di una vita incredibile, The Truman Show], premio Oscar® per Bugsy.

Delle scenografie, tutte memorabili – dal casino con il teatro dove possono esibirsi all’infinito icone pop come Elvis Presley o Marilyn Monroe, o il bar con vista panoramica dove un juke-box proietta l’ologramma di Frank Sinatra, all’immensa discarica che nasconde un ingente numero di suggestive fornaci, dalle serre di periferia alla città inscatolata in forme regolarissime che velano un sottostrato di quartieri dominato dalle solite luci ai neon delle incombenti quanto illusorie pubblicità – ma una è quella che rimane maggiormente scolpita nella memoria: le megalitiche statue femminili in posizioni dall’evidente erotismo in una Las Vegas in cui tutto è semisommerso da un deserto di matrice apocalittica.

«Stiamo tutti cercando qualcosa di reale».

I costumi non presentano niente di troppo futuristico ma sono comunque fortemente caratterizzati. Molto curato il make up, invece. La stessa cura offerta dal reparto effetti visivi. Laddove possibile, la squadra di realizzatori ha evitato di usare la CGI e i green screen a favore di un’interpretazione emotivamente verosimile delle reazioni dei personaggi. Tutti gli attori sono risultati ben all’altezza della situazione. Un cast davvero eccellente.

Blade Runner 2049 ha per protagonista Ryan Gosling [The nice guys, La La Land] e un cast che comprende Dave Bautista [I guardiani della galassia, Spectre], il premio Oscar® Jared Leto [Suicide Squad, Mr. Nobody, Dallas Buyers Club], Mackenzie Davis [Sopravvissuto – The martian, Breath in], Robin Wright [Wonder Woman, Everest], Sylvia Hoeks [La migliore offerta], Ana de Armas [Knock Knock, Trafficanti] e i camei di alcuni attori del primo capitolo, uno su tutti Edward James Olmos [Cani sciolti, La forza della volontà], che interpretava il fondamentale personaggio di Gaff, anche stavolta tanto estremamente importante quanto mai laconico con i suoi origami velatamente esplicativi. Di certo non poteva mancare all’appello chi ha reso immortale Blade runner nel 1982, Harrison Ford [Star Wars: Il risveglio della Forza, Adaline – L’eterna giovinezza], che riprende uno dei tre ruoli che l’hanno reso una celebrità cult, quello del cacciatore di replicanti Rick Deckard (per quanto raffinato, le icone pop Han Solo e Indiana Jones non saranno mai superabili).

Significativa anche la musica. Ormai è assodato che la colonna sonora è da considerare un’ulteriore cifra stilistica di Villeneuve. Già Blade Runner, a suo tempo, aveva puntato molto sulle suggestive musiche di Vangelis, che aveva appena ottenuto l’Oscar® per Momenti di gloria. Per Blade Runner 2049, il regista, come già accaduto in Arrival, per la musica extradiegetica sceglie una partitura minimal cui possano legarsi i rumori e i suoni diegetici, in modo da costruire un ponte virtuale fra la realtà filmica e lo spaziotempo della fruizione spettatore. In aggiunta Villeneuve sceglie di legare all’agente K una musica particolare, il tema del protagonista di Pierino e il lupo, l’opera di Sergej Prokof’ev.

L’insistenza nell’utilizzo di questo quartetto d’archi suggerisce di approfondirne le motivazioni. Si tratta di un parallelismo che magari non genererà le stesse elucubrazioni mentali dell’unicorno della famosa Director’s Cut, ma che può sicuramente tener banco almeno fino al prossimo capitolo: la fiaba sinfonica concepita per intrattenere l’infanzia nasconde, in realtà, ben sottotraccia, un inneggiamento alla ribellione nei confronti della dittatura staliniana. Risulta evidente, quindi, il parallelismo con la condizione dei replicanti, ribellatisi al controllo dei loro padroni. Meno palese il relativo ruolo che assumerebbero alcuni personaggi secondo questa ipotesi, e questo è un altro punto a favore dell’imprevedibilità della trama e della stratificazione delle tematiche.

«Non avete visto un miracolo»

Di tematiche in Blade Runner 2049 è possibile rilevarne un gran numero. Senza scendere nei dettagli è possibile radunarne alcune in un elenco, giusto per confermare l’altitudine del progetto. Permangono il tema del doppio che può essere inteso come lettura tipologica dei personaggi o anche vera e propria replica o simulacro – che, se vogliamo andare per il sottile, è simulacro di un simulacro –,   quello della ricerca dell’identità che diventa anche ricerca del trascendente fino a stimolare interpretazioni di matrice messianica e il tema del ricordo che va declinato in ogni caso, dal ricordo che diventa sogno e viceversa all’evento che si vuole rendere indimenticabile fino al desiderio di fare qualcosa di leggendario che rimanga impresso nelle memorie altrui. Tutti temi mutuati dal primo capitolo,  condensabili in un elemento particolare, ossessivamente utilizzato da entrambi i film, l’occhio. Oltre ad intrecciare il romanzo di Dick a 1984 di George Orwel, l’occhio assume una valenza simbolico-religiosa quasi universale e trasmette qualcosa che le linee di dialogo non dicono: il test di controllo dei replicanti, ad esempio, avviene tramite la pupilla, mentre Wallace ne è privo e per sopperire alla sua cecità si serve di alcuni “occhi” volanti che non sono altro che le miniature dei “gusci” che Villeneuve ha usato come astronavi in Arrival. Sarà nato prima l’uovo o la gallina?

«In ogni opera un artista mette una parte di sé».

I “gusci” che Villeneuve impianta in Blade Runner 2049 non sono l’unico elemento della sua poetica a frapporsi nelle maglie di una ragnatela già particolarmente fitta. I temi della memoria, dell’interpretazione, dell’amore genitoriale, del miracolo della vita e del destino di morte fanno di Arrival un gemello semi-identico di Blade Runner 2049 con quel grigio molto insistito che diventa colore simbolo dell’umanità, ottenuto com’è dalla rappresentazione di Yin e Yang, un contrasto fortissimo da molti visto come manicheo, ma che ad un osservatore non superficiale apparirà come l’armonia di opposti che è uno degli archè studiati dai filosofi dell’età classica: qualunque ruota bianca e nera sui faccia girare, fosse anche quella della vita, è un grigio che si otterrà.

«Le ha dato un nome, deve essere speciale»

Per tirare delle conclusioni, Blade Runner 2049 è un percorso iniziatico che va dal sacrificio dell’innocenza all’ammissione in una società ulteriore passando per la conoscenza di grandi segreti? È frutto del desiderio di essere speciale, di potersi elevare al di sopra degli altri e della propria condizione iniziale, di sentirsi per la prima volta vivi, di essere amati e poter amare liberamente? È la storia di scelte sofferte e destini ineluttabili? È la lotta dell’emarginato, dell’estraneo, del diverso, considerato al pari di un mostro da cui tutti debbano sentirsi minacciati? Durante il suo cameo Gaff crea un nuovo origami per K, a forma di pecora; cosa gli avrà voluto dire?

È tutto questo? Niente di tutto questo? È nella natura stessa del racconto di Dick Ma gli androidi sognano pecore elettriche? fornire spunti di riflessione pressoché infiniti senza fornire chiavi di lettura univoche. Perciò sta allo spettatore trarre o meno le debite conclusioni, poter riflettere a margine e discutere a tuttotondo fino a perdere di vista il punto di partenza, ma quello che è certo è che l’enigmatico progetto portato avanti dalle geniali menti di Scott e Villeneuve non andrà perduto come lacrime nella… neve!

«Non ho mai ritirato qualcosa di “nato”».

Nota curiosa a margine.
Nel frattempo è stato ufficialmente annunciato il progetto di riportare nelle sale cinematografiche un altro grande classico della fantascienza: Dune, il romanzo epic sci-fi che ha ispirato Guerre Stellari e che è già stato portato sul grande schermo da David Lynch nel 1984. Denis Villeneuve sarà il regista di questo remake o reboot, a seconda di come vorrà sviluppare l’ampio materiale a disposizione. Un altro compito estremamente delicato per il regista canadese, che si dovrà di nuovo confrontare con le attese dei moltissimi appassionati della saga.

Song to song, di Terrence Malick

Austin è l’unico posto al mondo in cui la musica si respira, si assapora, e si vive fino in fondo. Non c’è musicista o aspirante tale che non si sia lasciato trasportare dal ritmo di questo luogo straordinario, mitico a tratti, dove un festival musicale ne insegue un’altro e country, folk, blues, new wave, punk o rock si mescolano in un’unica armonia. Talvolta il ritmo frenetico di Austin fa girare la testa, ma l’unica maniera per scoprire la propria identità è perdersi tra le pieghe della capitale mondiale della musica live, farsi risucchiare dal vortice dei concerti e della vita mondana, incontrare gli artisti, innamorarsi, e lasciare che qualcuno di loro ti cambi la vita, che sia con un bacio o con una canzone.

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Di canzone in canzone e di bacio in bacio, la giovane cantautrice Faye (Rooney Mara) si tuffa a capofitto nella vita musicale di Austin, facendosi rapire prima dalla sensualità esplosiva del suo produttore Cook (Michael Fassbender), impegnato con la cameriera Rhonda (Natalie Portman), e poi dalla dolcezza ingenua di BV (Ryan Gosling), la sua anima gemella musicale. La musica li nutre, li attrae l’uno all’altro più del sesso e li lega in un triangolo amoroso dal quale è impossibile uscire. Ed è proprio in questo momento che il regista Terrence Malick entra nelle loro vite, di soppiatto, senza far rumore, solo per danzare con loro. Sembra quasi che i personaggi vengano scoperti quasi casualmente dalla macchina da presa, che si avvicina ai loro volti tanto da annullare il confine tra l’inquadratura e la loro pelle, ma non tanto da infrangere la loro intimità.

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La loro danza scorre leggera, lenta, come un flusso di adrenalina costante. E loro non fanno altro che volteggiare, attorcigliarsi, abbandonarsi alla bellezza della natura che li ingloba. Ancora una volta Terrence Malick si dimostra un maestro dell’arte mimetica, capace di catturare gli sguardi e i comportamenti discreti e attraverso questi narrare la sua storia. E le immagini mostrate sono talmente magnetiche da ingoiare i dialoghi, lasciando che siano i corpi a parlare, e ancora di più gli spazi in cui si muovono, rappresentazione speculare del loro continua ricerca della perfezione estetica.

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La fotografia fluida di Lubezki impreziosisce la pellicola e riesce a far emergere il lato oscuro e nascosto dei personaggi con un collage di inquadrature studiate in ogni dettaglio, estreme in alcuni casi, ma talmente potenti da risucchiare lo spettatore dentro all’immagine stessa, fino all’abisso in cui sono imprigionati i personaggi. La firma di Malick è evidente in ogni scena, così come la sua capacità di far intravedere l’inferno dietro l’apparenza del paradiso, la corruzione dietro la perfezione, e di affascinare chi nel cinema cerca l’immagine sopra ogni cosa.

La La Land, di Damien Chazelle

C’è voglia di bellezza, di energia e di eleganza vintage nell’aria. E La La Land li serve allo spettatore su un vassoio d’argento. Più precisamente li confeziona in modo magistrale e crea un mosaico raffinato che non tralascia nessuno dei clichè più amati e nostalgicamente rimpianti di (e da) un certo cinema d’epoca, riferendosi in modo particolare alla migliore tradizione dei film musicali.

Una pellicola che fa qualcosa di più che raccontare una storia: sfrutta la storia che intende raccontare per esprimere un reverenziale feticismo nei confronti della Settima Arte e per valorizzarne tutti i meccanismi con attestati genuini di passione, culto e fedeltà. Il risultato è una sorta di “narrazione visiva” che fa della citazione e del virtuosismo la sua cifra stilistica.

La storia di due indomiti sognatori che si scontrano con una realtà feroce e deludente appare quasi banale nella sua semplicità ma il linguaggio cinematografico corre in soccorso del regista e offre l’imprevedibile soluzione di un montaggio particolare, che utilizza connessioni a volte al limite dell’illogico per rendere al meglio quello che vuole essere un lirico resoconto onirico. La dedica della locandina “ai sognatori” assume così un senso diverso e più profondo: il film è dedicato tanto a chi è capace di lottare per i propri sogni quanto a chi è capace di sognare a occhi aperti.

Ogni elemento sembra un avvertimento: il cinema è un mezzo di espressione creativa e al contempo una disciplina che usa tecniche precise per raccontare una storia, il film vuole allora mettere a nudo quelle tecniche che da dietro le quinte creano la magia del cinema istituendo con lo spettatore un tacito accordo basato su un dialogo visivo. Si ricompongono così una serie di elementi tecnici che, più o meno smascherati, vogliono interagire con le emozioni dello spettatore per creare una risposta emotiva, compresi ad esempio la palette cromatica irresistibilmente studiata e il richiamo costante a una certa moda anni 50 (forse anche un tantino esagerato per quanto serva a perseguire un facile consenso da parte del pubblico) nonostante la storia sia ambientata ai giorni nostri.

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Lei, aspirante attrice, fa la cameriera in un bar mentre, un provino dopo l’altro, colleziona una serie di umilianti figuracce e fallimenti. Tra un passo di danza e una canzone, la convincente interpretazione di Emma Stone riesce ad associare la grazia e la leggerezza propria di una moderna Cenerentola che insegue il suo sogno, alla fragilità e all’autenticità di una donna che lavora con fatica e dedizione per costruire il proprio avvenire.

Lui, artista incompreso e animo profondo, cerca di sopravvivere suonando il piano in un ristorante ma convive con la frustrazione di non poter esprimere davvero se stesso e sogna di aprire un locale in cui salvaguardare la libertà degli artisti e la purezza del jazz, che venera come un culto.

Costretto a scendere a compromessi suonando in una band di musica commerciale, scopre che la facile fama raggiunta non lo rende felice mentre il vecchio sogno resta sopito in attesa di uno spiraglio di volontà che lo costringa a mettere tutto in discussione.

Entrambi i protagonisti sperimentano quanto possa essere faticosa e al tempo stesso eccitante la strada della autoaffermazione in una città che solo in apparenza è l’emblema del self-made-man, Los Angeles, “la città delle stelle”.

La loro simbiosi come coppia artistica è declinata in ogni possibile linguaggio cinematografico e scenico: dal duetto cantato all’irresistibile passo di danza che rievoca la perfetta sintesi artistica rappresentata da Fred Astaire e Ginger Rogers.

Il film ha ottenuto un successo di critica strepitoso: il record già stabilito con la vittoria di tutte e sette i Golden Globe a cui era candidato è stato confermato dalle 14 nomination agli Oscar, numeri fin’ora raggiunti solo da titoli del calibro di Eva contro Eva e Titanic. Il prossimo 26 febbraio, durante la Notte degli Oscar, si scoprirà se La La Land riuscirà a conquistare i titoli più prestigiosi  come Miglior film, Migliore colonna sonora e Miglior sceneggiatura. Emma Stone, già premiata da uno stuolo di apprezzamenti da parte di critica e pubblico oltre che da una serie di importanti riconoscimenti internazionali, è data quasi certamente vincitrice dell’ambita statuetta come Migliore attrice protagonista per la sua interpretazione di Mia Dolan, eroina femminile del film.

La regia del giovane Damien Chazelle, candidato all’Oscar come Miglior regista, è volutamente enfatizzata, quasi teatrale: luci, movimenti degli attori, dialoghi, espressività dei volti, pose plastiche e inquadrature “frontali” danno l’impressione di assistere a una pièce teatrale.

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La luccicante spettacolarità del cabaret è addirittura esplicitamente citata in una scena del film, attraverso una metafora che intende suggerire la realtà finta e stereotipata entro cui danzano i due protagonisti.

Tutti i personaggi si muovono come in una immensa coreografia, una danza continua tale da creare un continuum fluido con le scene realmente coreografate della pellicola. L’ambientazione della storia funziona come un immenso palcoscenico su cui si realizza una disposizione di elementi mai causale ma sempre funzionale al movimento dei personaggi. Uno schermo in 16:9 restituisce delle vere e proprie scenografie studiate al vetriolo mentre la gestualità enfatizzata dei personaggi sembra quasi voler portare allo scoperto il ruolo dell’attore di emulare le emozioni umane.

La composizione di ogni singola scena è così un meraviglioso artificio imposto e la dimensione comunicativa si esprime attraverso un linguaggio riconosciuto universalmente dai suoi fruitori, quello dell’industria cinematografica.

Il cinema dunque, come fine ultimo e come strumento comunicativo, scelto non a caso in quanto arte che più di ogni altra ha saputo rendere reale i sogni, costruendo un mercato che quei sogni li costruisce e li alimenta. La dedica sulla locandina suggerisce allora che il film è indirizzato a tutti coloro che si vogliono lasciar trasportare in un sogno ad occhi aperti, attraverso quel mistico contenitore immaginifico che è la sala cinematografica.

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La delicatezza è il leitmotiv del film, anche nei momenti di crisi dei due protagonisti, anche quando la musica invita a scatenarsi, una leggerezza di sottofondo sfuma l’atmosfera. Come se tutto concorresse a rendere il senso di sfuggevolezza e di calorosa trepidazione che accompagna il percorso di realizzazione di un sogno. Ma il film si domanda anche quale sia il prezzo che si è disposti a pagare per vedere il proprio sogno diventare reale. La risposta è definitiva e senza possibilità di appello: una piena e totale serenità chiede in pegno la purezza di un sentimento travolgente che deve sacrificarsi e far posto a una felicità reale ma forse meno appagante.  Chi sono dunque i sognatori? Coloro che lottano duramente per realizzare i propri sogni, nonostante i fallimenti e le umiliazioni, per scoprire alla fine di questo duro percorso che ne valeva la pena nonostante quello che si è perso per strada. O forse proprio in nome di quello.

La sequenza finale del film, quella che in sostanza emoziona maggiormente e che tira le somme dell’intera vicenda, vede il compimento definitivo della grande metafora del cinema come sogno ad occhi aperti mostrando quella parte di vita che il destino avrebbe potuto riservare “se…”

L’accensione delle luci di sala è l’equivalente del ripiombare nella realtà dopo un sogno. Il sogno intrappolato nella dimensione della realtà mostra tutti i suoi limiti, mentre quello che “poteva essere se…” resta qualcosa di meravigliosamente inafferrabile.

Perché il sogno per essere tale deve vivere di incompletezza, di fame e di follia. Come la scena di un film che per essere credibile e emozionante non deve far trapelare gli oggetti di scena né la bidimensionalità del set. Pena la perdita delle emozioni più autentiche.

Ma infondo quello che insegnano i due protagonisti di questa romantica fiaba musicale, e attraverso essi il cinema in generale, è che non importa se certe storie siano vere o inventate, quello che conta è che si sia vissuto il sogno.

Ryan Gosling e Russell Crowe presentano The Nice Guys

I due “Nice Guys” Ryan Gosling e Russell Crowe hanno presentato a Roma il film di Shane Black che li vede protagonisti di una commedia a tinte noir nei panni di un investigatore privato, Holland March, e di un detective senza scrupoli, Jackson Healy, che si alleano per risolvere il caso il caso del secolo nella Los Angeles libertina e stravagante degli anni ’70. La coppia di personalità opposte, che fa tornare immediatamente alla memoria i classici buddy movies, funziona perfettamente sullo schermo e crea situazioni comiche esilaranti ma come sottolinea Russell Crowe non è a loro che si sono ispirati: “Non abbiamo preso spunto da coppie famose perché questi due personaggi erano già fantastici così com’erano sulla sceneggiatura. Siamo cinefili e anche cineasti quindi conosciamo bene Stanlio e Olio, Abbot e Costello, Crosby & Hope, Gene Wilder e Richard Pryor, ma in questo caso abbiamo deciso di rimanere fedeli ai personaggi creati da Shane Black, che funzionano perché restano sempre in bilico tra comicità e dramma”.

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“I ruoli più interessanti – aggiunge Russell Crowe – sono proprio quelli agrodolci come The Nice Guys, in cui non c’è un lieto fine ma piccole vittorie personali. Dopo tutto anche il protagonista di Il Gladiatore non esce vittorioso ma trova la pace, e per questo mi è piaciuto interpretarlo”. E anche Ryan Gosling confessa di amare questo genere di film: “Ho sempre sperato di poter mettere un po’ di comicità in un film drammatico, perché spesso queste scene vengono eliminate in sala di montaggio, ed è un gran peccato. Dramma e umorismo dovrebbero sempre coesistere in un film perché l’atmosfera comica disarma lo spettatore e lo rende più sensibile al cazzotto emotivo che arriva dal dramma. Inoltre se con i film drammatici bisogna attendere la reazione del pubblico per sapere se funzionano, con le commedie si comprende immediatamente”. Anche Crowe confessa di aver aggiunto dettagli comici a un film estremamente drammatico come Il Gladiatore: “Forse in pochi lo ricordano ma anche qui ci sono molti momenti comici, per esempio quando ho decapitato una persona con due spade quando avrei potuto farlo con una sola! La violenza da videogame non è realistica, è artefatta, mentre la comicità fa da contrappunto al dramma e non è un caso che i film migliori siano quelli che variano continuamente di tema e di tono “.

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The Nice Guys nasce da un soggetto originale e non è basato su un libro, un fumetto o una serie televisiva, ma è un caso ormai raro perché sempre più spesso gli attori sono coinvolti in remake, reboot e sequel, come accadrà a Ryan Gosling con Blade Runner. Cosa sta succedendo a Hollywood? “Quando del personaggio di un film è bello vederlo crescere, evolversi, andare in profondità nella storia – afferma Ryan Gosling – e io ho amato molto Blade Runner, quindi sono molto felice di prendervi parte”. E Russel Crowe aggiunge: Non è facile definire cosa sia un remake. Ogni anno a teatro viene riproposto Amleto, ha sempre un grande successo e nessuno si sorprende, mentre nel cinema non si sa perché il remake genera perplessità. Credo che gli Studios si stiano concentrando su ciò che la gente già conosce e che vogliano ricreare le opere passate in modo nuovo, diverso, e secondo me è una grande idea”.

The nice guys, di Shane Black

«Ma… Ha nominato il nome di Dio invano?»

«No! Mi è tornato utile!»

Shane Black, dopo Iron man 3, torna a dirigere un genere a lui caro e congeniale. In questo effervescente buddy movie che contamina il noir con la commedia, la strana coppia di inetti detective, formata dal violento ex poliziotto Jackson Healy [Russel Crowe] e dall’inconcludente investigatore privato Holland March [Ryan Gosling], si ritrovano a dover gestire le loro divergenze ed unire le forze per sbrogliare un caso molto più grande di loro.

Dopo gli esplosivi 48 ore, Arma letale, L’ultimo boyscout, Black propone con successo, fuori concorso a Cannes, una nuova coppia mal assortita di outsider, di antieroi, che tutto vorrebbero fuorché complicarsi la vita, già di per sé mal messa, con un lavoro complicato e pericoloso. Come esterna spontaneamente il regista, fondamentale è stato il lavoro di Gosling e Crowe che, come esterna spontaneamente il regista e sceneggiatore, «sono entrambi attori di massimo livello che hanno saputo infondere la vita nei loro personaggi; e la storia non è solo una commedia o un film d’azione, ma una perfetta combinazione di entrambi».

«I giorni delle signore e dei gentiluomini è finito».

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Healy è più pragmatico e spartano: è «cresciuto da irlandese a Riverdale nel Bronx» e ha un passato mai dimenticato nella polizia, che gli ha fornito un’etica di base la quale, però, si scontra con un bisogno irrefrenabile di sfogare la violenza repressa e generata da vicende non espresse esplicitamente in questo film. March è diventato prematuramente vedovo, con progetti di famiglia e di casa rimasti miseramente incompiuti; questo lo spinge a cercare costantemente scorciatoie, immerso in un loop depressivo in cui si alternano fasi di cinica lucidità, quando deve cogliere occasioni per spillare soldi facili ad ingenui clienti, e stati di oblio dovuti all’eccesso di alcool nel sangue. Il personaggio di Gosling sarebbe un perdente irrecuperabile su tutta la linea, se non fosse per sua figlia Holly, una tredicenne cresciuta in fretta, con uno spiccato senso della giustizia, una perspicacia probabilmente, derivata sicuramente dai cromosomi materni, e una simpatica attitudine ad ignorare le regole paterne.

«Questione di genetica!»

Holly è interpretata dal talento australiano Angourie Rice, che già aveva conquistato il pubblico di Cannes come coprotagonista nel dramma di ambientazione apocalittica These final hours e che vedremo in Jasper Jones (regia di Rachel Perkins), adattamento cinematografico del romanzo di Craig Silvey. Per interpretare al meglio i ruoli di padre e figlia, i due attori hanno trascorso parecchio tempo insieme, e l’alchimia che è derivata da questo metodo la si evince palesemente sul grande schermo.

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The nice guys è un noir con molti elementi da commedia rocambolesca, un buon poliziesco dalla storia non convenzionale, leggermente surreale, nella quale si muovono personaggi esasperati eppure credibilissimi, familiari oserei dire. Healy e March sono, alla luce dei fatti, due idioti che si completano come in un’unione ben riuscita, e dire che Healy non perde occasione di rendere palese, con battute sarcastiche, che odia il matrimonio, il perché lo scopriremo in un probabile sequel.

«Vomitiamo e poi ci sbarazziamo del corpo».

Gosling coglie appieno l’essenza stessa del film: «La sceneggiatura – scritta a quattro mani da Anthony Bagarozzi [Death note] e dallo stesso Black – non si prende troppo sul serio… i personaggi sì; è proprio questo che li rende ridicoli».

Fotografata creativamente da un Philippe Rousselot [Animali fantastici e dove trovarli, Big fish, Charlie e la fabbrica di cioccolato] che ci regala un bell’incipit con ripresa aerea della città partendo da dietro la famosa insegna di Hollywood, la Los Angeles degli anni ’70, è ricostruita egregiamente dallo scenografo Richard Bridgland [Priest, Rock’n’Rolla] e dalla costumista Kym Barrett [collaboratrice fissa dei fratelli Wachowski]. Con l’aggiunta di una colonna sonora molto colorita e variegata, in tono con il resta dell’ambientazione, che evoca i party fuori di testa nel bel mezzo del boom del cinema a luci rosse. I compositori John Ottman e David Buckley radunano pezzi di storia della musica come Bee Gees, Kiss, America, Kool & the Gang, Al Green e addirittura portando fisicamente sulla scena gli Earth, Wind & Fire, una vera chicca per gli appassionati.

The nice guys è spettacolare e divertente fino alle lacrime, sin dal prologo.

Non perdetevi l’inizio!

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