science fiction

Maze runner – La rivelazione, di Wes Ball

Giunge a conclusione la saga cinematografica di uno dei romanzi young adult più seguiti della decade in corso. Ambientata in un futuro distopico, l’opera di James Dashner è stata adattata per il grande schermo dalla 20th Century Fox. Per mantenere una coerenza concettuale, fondamentale per la buona riuscita della trasposizione, il progetto è stato portato avanti sempre dal regista Wes Ball, che per il momento è conosciuto solo per i film della saga. Ma il soddisfacente lavoro di adattamento gli ha permesso di ricevere l’offerta di dirigere un’altra traduzione dalle pagine sfogliate alle immagini in movimento: il graphic novel Fall of Gods, un progetto crowfunding, lanciato nell’autunno del 2014 dallo studio creativo danese MOOD Visuals, che narra le gesta di un guerriero in un’epoca di guerre in cui gli dei della mitologia norrena sono scomparsi. Questo significa che non dirigerà la saga-prequel di Maze runner, già prenotata dalla Fox? è presto per dirlo.
Intanto, sicuramente, continuerà l’ormai inesorabile scempio dei titoli – per chi non lo sapesse Maze runner in origine è il titolo solo del primo volume – e di alcuni elementi importanti della trama, tradotti in maniera improbabile per venire incontro al grande pubblico: la malvagia società W.I.C.K.E.D. diventa la C.A.T.T.I.V.O. nell’edizione italiana dei romanzi, ma per fortuna il film e, con grande coraggio, il doppiaggio italiano adotta il termine W.C.K.D. molto più performante. Grazie!

Tornando al presente, Maze runner – La rivelazione [titolo originale The Death Cure] è, come dicevamo, il terzo ed ultimo capitolo della saga originaria, lungamente atteso dai fan. In seguito al grave incidente occorso al protagonista Dylan O’Brien proprio sul set, infatti, l’uscita del film, prevista dalla produzione per il 17 febbraio 2017, è stata posticipata inizialmente al 12 gennaio 2018 e poi posticipata ancora al 26 Gennaio negli Stati Uniti e al 1° Febbraio in Italia. Giusto riconoscere la tempra di O’Brien attore che, alla luce di quanto avvenuto, risulta uno dei pochissimi personaggi stoici di un panorama cinematografico infarcito di bellini sempre più pompati ma sempre meno avvezzi agli sforzi atletici e ai rischi del mestiere. Applausi!

Nel nuovo film, le vicende di Thomas [Dylan O’Brien, American assassin, Deepwater – Inferno sull’oceano] e delle altre cavie umane sopravvissute al “parco esperimenti” della WCKD riprendono da dove si erano interrotte in Maze runner – La fuga. Teresa [Kaya Scodelario, Moon, Pirati dei Caraibi- La vendetta di Salazar] aveva tradito i suoi “compagni” di viaggio per tornare al suo lavoro dietro ai microscopi e aveva permesso la cattura di molti immuni fra cui Minho [Ki Hong Lee, Wish upon, The public].

Proprio da una missione di salvataggio on the road parte il nuovo e ultimo capitolo della saga. Si tratta proprio della scena di assalto al convoglio blindato, stile western postapocalittico, che ha spedito O’Brien in ospedale e il regista, furbescamente, se la gioca subito, pronti via, tirando notevolmente su il tasso adrenalinico e spedendo subito il cuore dello spettatore al centro del nuovo gruppo di ribelli del Braccio Destro.

«Il tuo problema è che non riesci a lasciarti alle spalle qualcuno. Nemmeno quando dovresti».

Sacrificabili e cavie umane, con la loro rabbia e il loro desiderio chi di rivalsa, chi di vendetta e chi di salvezza, diventano il nuovo problema della WCKD. Thomas e gli altri Radurai intendono andare alla fonte del problema. La missione impossibile è penetrare all’interno dell’ultima città rimasta in piedi, sede dell’organizzazione, per liberare Minho e gli altri e ottenere le risposte alle loro legittime domande sull’epidemia, gli esperimenti e il presunto antidoto. Verità o bugie che siano, si celano dietro un nuovo dedalo di strade e palazzi (Blade Runner style ma senza pioggia o neve) protetti da mura altissime (stile World War Z). Nel frattempo gli Spaccati non stanno di certo a lustrarsi i denti con il nastro adesivo! E se Thomas e gli altri possono trovare una faglia nella difesa della città, quanto potranno metterci degli zombie affamati a fare altrettanto? A chi spetterà il dominio sulla Terra alla fine dei giochi?

«Vorrei potervi dire che I guai sono finiti»

L’allusione sottile alle mura di confine di Trump con il Messico ha il sapore nostalgico di quel cinema di fantascienza che sapeva narrare una storia e contemporaneamente celare un messaggio sotteso a smuovere le coscienze in maniera recondita, basti pensare a Essi vivono o La cosa di John Carpenter o ai morti viventi di Romero. Rispolverare questa vena moralistica non sarebbe male.

Dal punto di vista tecnico, invece, non si può passare sotto silenzio il lens flare sotto le luci al neon nelle scene di massa in città: se può essere visto come una scelta stilistica in un esterno giorno tenendo il riflesso della luce solare sulla lente sotto controllo, in questo specifico caso, il flare suona proprio come un errore non rilevato in fase di ripresa e camuffato in postproduzione. Male.

Tornando alla storia, il primo capitolo, Maze runner – Il labirinto, proponeva riflessioni filosofiche sul mito del buon selvaggio e sulla bestialità insita nella natura umana, sull’istinto di conservazione della specie anche a scapito di sacrifici umani, sulla crescita degli adolescenti, sulla concezione della vita come un gioco crudele, come un labirinto difficile da risolvere che rappresenta sia la fitta trama di relazioni sociali sia la complessità della mente umana. Ma tutto questo si perde, neanche gradualmente, nell’inutile seguito Maze runner – La fuga, che praticamente non fa che menare il can per l’aia, indisponendo e non poco lo spettatore.
Questa caduta nel vuoto, però, giova a Maze runner – La rivelazione che risulta ben al di sopra delle aspettative, pur presentando difetti strutturali e tecnici palesi: nessuna necessità narrativa impellente giustifica l’abnorme durata; la sceneggiatura risulta scontata per colpa dei soliti cliché che il genere young adult volenti o nolenti si porta con sé, croce e delizia a seconda dei gusti (La quinta onda, Hunger Games); a parte un paio di svolte inaspettate che, però, sono colpi bassi al patto di credibilità con lo spettatore (per non spoilerare bisogna accontentarsi di un “chi non muore si rivede”!), la trama si dipana risolvendo problemi in maniera troppo facile e banale o con stratagemmi visti e rivisti.

Maze runner – La rivelazione ha, però, il merito di concludere dignitosamente una storia che ha comunque interessato e tenuto con il fiato sospeso e che in fin dei conti si distacca dalla tipica adesione degli young adult all’archetipico nucleo narrativo del boy meets girl per privilegiare lo splendore dell’amicizia, corredata da valori come lealtà, spirito di sacrificio, altruismo, comunione d’intenti e condivisione di qualsiasi sorte. Una rivalutazione di valori che tentano di risollevare le sorti della trilogia senza, però, spingersi mai verso un’epicità formale, a cui le generazioni che rappresentano il target fondamentale sarebbero probabilmente allergiche.

Nel cast molti attori che i fan di Game of Thrones conoscono benissimo: Thomas Brodie-Sangster è Newt, Aidan Gillen interpreta il perfido Janson e la bellissima Nathalie Emmanuel, già presente nel secondo capitolo, è Harriet. A completare il cast altri volti noti: oltre al nuovo personaggio di Lawrence, che Walton Goggins interpreta magnificamente inossando uno stupendo make up che lo rende quasi irriconoscibile, i veterani Barry Pepper, Giancarlo Esposito, Patricia Clarkson e la starlet Rosa Salazar (Brenda), che sarà la protagonista di Alita – Angelo della battaglia, trasposizione del famosissimo manga diretta da Robert Rodriguez.

Blade Runner 2049, di Denis Villeneuve

Chi siamo? Da dove veniamo? Cos’è la vita? Cosa ci rende “umani”? Qual è la fonte dei nostri ricordi? Che ruolo abbiamo nella vita del mondo? Quanto conta davvero la nostra volontà? Domande esistenziali fondamentali che difficilmente uno spettatore può trovare in un film che non sia un documentario estremamente soporifero! Chi conosce e ha apprezzato la densità di tematiche, riflessioni filosofico-religiose, allegorie e l’ambientazione distopico-paranoide del capolavoro di Ridley Scott, ritroverà in Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve tutto questo materiale declinato in maniera paradigmatica. Sviluppando e raffinando la trama fino ad ottenere la naturale evoluzione del precedente, il regista di Arrival e Prisoners remixa e attualizza per il nuovo target il profondo lavoro di Scott, pur mantenendo una rispettosa fedeltà allo spirito dell’originale. «Il mio obiettivo – ha confessato Villeneuve – era quello di onorare l’estetica da film noir del primo, pur dando al nuovo film una propria identità». Il connubio di noir, sci-fi e azione è riuscito alla perfezione lasciando comunque spazio alla riflessione. Per ogni domanda che trova una risposta, un’altra ne deriva che scaturisce nuovi percorsi meditativi. Da vedere e, soprattutto, rivedere per godere appieno della stratificazione delle tematiche.

Denis Villeneuve traduce divinamente la riflessione antropologica di Philip K. Dick in uno spettacolo sublime per forma e contenuto. Se Blade Runner è basato sull’archetipica figura collodiana del burattino che vuol far valere i propri diritti alla vita, in una rilettura che va ben oltre la scrittura sofisticatamente filosofica del più antico Frankenstein di Mary Shelley, per il seguito, intriso della visionarietà sentimentale di Villeneuve, bisogna scomodare in parte il complesso registro di personaggi racchiuso nei sapienti versi delle tragedie, con le loro leggendarie figure, mosse da emozioni forti e schiacciate dalla loro stessa piccolezza, dinnanzi ad un disegno di vita che l’altrui volere desidera diverso dalle proprie aspettative, lontano anni-luce dai sogni che li hanno spinti ora alle più alte vette della gloria ora sull’orlo dell’abisso senza possibilità di ritorno.

«Sognare un po’ non è sbagliato, non credi?»
«Per noi lo è»

Blade Runner 2049 ha rispettato l’universo creato da Ridley Scott e ha annodato ogni filo lasciato in sospeso dal predecessore ad una nuova ragnatela di sottotrame che ascendono a nobile rappresentazione dell’antica tendenza alla ricerca dell’identità, delle origini dell’amore nella sua forma più pura. Perché non può esserci futuro senza conoscere il passato o almeno non un futuro degno di essere vissuto senza un passato che ne giustifichi i meriti o possa correggerne i difetti.

Era il 1982 quando il Blade Runner di Ridley Scott vedeva la luce nella buia sala di un cinema. Nella Los Angeles del 2019, luogo e tempo in cui si svolgevano le vicende del film, pioveva e si respirava un’aria decadente, nonostante un’ambientazione distopica in cui la tecnologia sopperiva alle necessità quotidiane che la natura non riusciva più a soddisfare appieno. Alcuni androidi, soprannominati “replicanti” o in senso maggiormente dispregiativo “lavori in pelle” e costruiti per essere schiavi in colonie dell’extramondo, si erano ribellati e un agente speciale, Rick Deckard [Harrison Ford], doveva stanarli e terminarli. In Blade Runner 2049, di Denis Villeneuve, un nuovo cacciatore di replicanti, l’agente K [Ryan Gosling], ha il compito di… riportare lo spettatore laddove era stato lasciato: un origami a forma di unicorno innestava il seme del dubbio sulla natura di Deckard in un contesto in cui la ricerca della verità è diventata un labirinto di domande senza una risposta. Il labirinto permane anche nel nuovo capitolo con l’ulteriore difficoltà per l’agente K: il suo viaggio alla ricerca dei replicanti riporterà alla luce un segreto nascosto da tempo sotto un cumulo di terra morta. Un segreto che può cambiare il destino dell’intera umanità.

«L’umanità non può sopravvivere… La Terra sta morendo… i Replicanti sono il futuro della specie».

L’agente K [Ryan Gosling] non è immune alla crisi esistenziale che già aveva contagiato il cuore del collega Deckard [Harrison Ford]. Per il presunto bene dell’umanità fino a che punto ci si può spingere? Per mantenere un ordine arbitrariamente stabilito, quali crimini è lecito commettere? Vivendo in un mondo ingrigito dall’abuso tecnologico e dalla subordinazione della natura e dei sentimenti agli interessi economici e politici, camminando troppo spesso a cavallo dell’ipotetica linea che divide il Bene dal Male, il bianco dal nero, la luce dalle tenebre, i personaggi di Blade Runner 2049 devono fare i conti più che altro con la propria coscienza e quell’innata predisposizione che ci spinge a scegliere da che parte stare della Forza, per dirla come la direbbe Lucas.

Il 5 Ottobre 2017 – il 6 negli U.S.A. – è uscito nelle sale, attesissimo, Blade Runner 2049. Un sequel di un classico intramontabile, si sa, fa sempre discutere, specialmente se l’originale è da sempre considerato uno dei migliori film di fantascienza che siano mai stati prodotti. L’opinione pubblica ha accolto la notizia dividendosi come in un preparativo di guerra fra pro e contro, se non addirittura fra delusi a prescindere e rassegnati al peggio. Non delude le aspettative, invece, il film di Villeneuve, anzi gioca con esse, divertendosi a gettare arbitrariamente luci ed ombre sui personaggi, senza sciogliere definitivamente i nodi cruciali che li legano gli uni agli altri. Non è rimasto deluso nemmeno Ridley Scott – che non ha diretto ma ha prodotto la pellicola – e, consapevole delle notevoli capacità autoriali del collega, gli ha concesso la totale libertà creativa e fornito la piena disponibilità in caso di bisogno.

In 35 anni di attesa, e parafrasando goliardicamente il monologo del replicante Roy, ne abbiamo viste “cose” che sembrava dovessero scalzare di classifica uno dei migliori film di fantascienza di sempre: robot da combattimento in fiamme uscire dallo schermo grazie agli occhialini 3D, e abbiamo visto serie tv e sequel di film altisonanti balenare dal buio e spiaggiarsi davanti al monumento funebre di Ray Harryhausen. E tutti quei momenti è giusto che vadano perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di iniziare un nuovo percorso per il pubblico esigente di Blade Runner, ed è tempo di affidarsi completamente al fascino del sequel, consapevoli della competenza e del coraggio di Denis Villeneuve, un regista che sa coinvolgere oltre che intrattenere e non è nuovo nel trattamento di sceneggiature filosoficamente complesse con risvolti sentimentali nono scontati. Per giunta candidato agli Oscar® nel 2011 con La donna che canta come Miglior film straniero e nel 2017 per la Miglior regista con Arrival. Di certo non una seconda scelta!

«Cazzo! Ma sono l’unica a vedere l’alba?»

A dimostrazione del desiderio di connubio perfetto fra vecchio e nuovo che è alla base di questo ambizioso progetto, la sceneggiatura di Blade Runner 2049 è stata scritta da Michael Green, autore dei recenti successi Alien: Covenant e Logan – The Wolverine, con la partecipazione indispensabile di Hampton Fancher, cioè l’ideatore del soggetto originale del 1982. Lo stesso Fancher ha firmato le sceneggiature dei cortometraggi che hanno “scaldato” i fan nei mesi precedenti l’uscita del film. Villeneuve ha, infatti, delegato a tre cortometraggi di sviluppare alcuni eventi importanti intercorsi nel tempo filmico tra i due lungometraggi:

il primo in ordine di uscita, intitolato 2036: Nexus Dawn, è diretto da Luke Scott e presenta il carismatico nuovo guru della cybertechnology Niander Wallace, interpretato egregiamente da Jared Leto;

un secondo cortometraggio, diretto sempre da Luke Scott e intitolato 2048 Nowhere To Run, si concentra sul personaggio di Sapper Morton, interpretato da Dave Bautista;

il terzo cortometraggio, Black Out 2022, invece, è un fondamentale prequel di animazione diretto da Shinichirô Watanabe che permette di capire cosa ha accentuato il degrado nella Los Angeles distopica del film e ha permesso la riapertura della produzione di replicanti e la conseguente ascesa di Wallace, trattata nel primo cortometraggio.

Per quanto riguarda la fotografia, il regista si è avvalso di un collaboratore di cui ha già apprezzato composizione, esposizione e sensibilità cromatica in precedenti lavori come Prisoners e Sicario: si tratta del 13 volte nominato agli Oscar® Roger Deakins [Le ali della libertà, Ave, Cesare!]. Anche se non faceva parte della crew di Arrival, Deakins ricostruisce benissimo quel mood fotografico dettato dal grigio dominante. Questa base di decadente quotidianità trova netti contrasti nelle scene che si svolgono in interni e, soprattutto, nella città morta, dove il cromatismo tematico che guida tutto il film si fa più forte.  Come in un percorso iniziatico, il protagonista viaggia attraverso luoghi fortemente caratterizzati e passa dall’indaco dell’incipit al rosso dell’ultima parte con un epilogo legato al bianco della neve che, nel 2049 ha sostituito la pioggia costante che fungeva da leitmotiv nella Los Angeles del 2019. La composizione dei fotogrammi rispolvera l’omaggio a Edward Hopper dell’originale ma preferisce un vintage revival più contemporaneo con riferimenti alla pop-art e al dadaismo rispetto al citazionismo vermeeriano-fiammingo di Blade Runner. Quando, poi, cita La finestra sul cortile [Rear window] di Alfred Hitchcock è forte il desiderio di disturbare la visione del film con un applauso a scena aperta!

«Sono tutto quello che vuoi. JOi. Tutto quello che vuoi sentire. Tutto quello che vuoi vedere».

L’editing, non troppo complesso da seguire, è molto vicino al modello del cinema classico americano. Una scelta saggia, probabilmente per non appesantire ulteriormente la comprensione, viste le notevoli incursioni nella filosofia postumana e nelle riflessioni antropologiche sulla vita e sul trascendente. È affidato ad un altro habitué della crew di Villeneuve, il Joe Walker di Sicario e Arrival. A capo del reparto scenografico, un esperto dalla vena creativa molto caratterizzata sul visionario, Dennis Gassner [Big fish – Le storie di una vita incredibile, The Truman Show], premio Oscar® per Bugsy.

Delle scenografie, tutte memorabili – dal casino con il teatro dove possono esibirsi all’infinito icone pop come Elvis Presley o Marilyn Monroe, o il bar con vista panoramica dove un juke-box proietta l’ologramma di Frank Sinatra, all’immensa discarica che nasconde un ingente numero di suggestive fornaci, dalle serre di periferia alla città inscatolata in forme regolarissime che velano un sottostrato di quartieri dominato dalle solite luci ai neon delle incombenti quanto illusorie pubblicità – ma una è quella che rimane maggiormente scolpita nella memoria: le megalitiche statue femminili in posizioni dall’evidente erotismo in una Las Vegas in cui tutto è semisommerso da un deserto di matrice apocalittica.

«Stiamo tutti cercando qualcosa di reale».

I costumi non presentano niente di troppo futuristico ma sono comunque fortemente caratterizzati. Molto curato il make up, invece. La stessa cura offerta dal reparto effetti visivi. Laddove possibile, la squadra di realizzatori ha evitato di usare la CGI e i green screen a favore di un’interpretazione emotivamente verosimile delle reazioni dei personaggi. Tutti gli attori sono risultati ben all’altezza della situazione. Un cast davvero eccellente.

Blade Runner 2049 ha per protagonista Ryan Gosling [The nice guys, La La Land] e un cast che comprende Dave Bautista [I guardiani della galassia, Spectre], il premio Oscar® Jared Leto [Suicide Squad, Mr. Nobody, Dallas Buyers Club], Mackenzie Davis [Sopravvissuto – The martian, Breath in], Robin Wright [Wonder Woman, Everest], Sylvia Hoeks [La migliore offerta], Ana de Armas [Knock Knock, Trafficanti] e i camei di alcuni attori del primo capitolo, uno su tutti Edward James Olmos [Cani sciolti, La forza della volontà], che interpretava il fondamentale personaggio di Gaff, anche stavolta tanto estremamente importante quanto mai laconico con i suoi origami velatamente esplicativi. Di certo non poteva mancare all’appello chi ha reso immortale Blade runner nel 1982, Harrison Ford [Star Wars: Il risveglio della Forza, Adaline – L’eterna giovinezza], che riprende uno dei tre ruoli che l’hanno reso una celebrità cult, quello del cacciatore di replicanti Rick Deckard (per quanto raffinato, le icone pop Han Solo e Indiana Jones non saranno mai superabili).

Significativa anche la musica. Ormai è assodato che la colonna sonora è da considerare un’ulteriore cifra stilistica di Villeneuve. Già Blade Runner, a suo tempo, aveva puntato molto sulle suggestive musiche di Vangelis, che aveva appena ottenuto l’Oscar® per Momenti di gloria. Per Blade Runner 2049, il regista, come già accaduto in Arrival, per la musica extradiegetica sceglie una partitura minimal cui possano legarsi i rumori e i suoni diegetici, in modo da costruire un ponte virtuale fra la realtà filmica e lo spaziotempo della fruizione spettatore. In aggiunta Villeneuve sceglie di legare all’agente K una musica particolare, il tema del protagonista di Pierino e il lupo, l’opera di Sergej Prokof’ev.

L’insistenza nell’utilizzo di questo quartetto d’archi suggerisce di approfondirne le motivazioni. Si tratta di un parallelismo che magari non genererà le stesse elucubrazioni mentali dell’unicorno della famosa Director’s Cut, ma che può sicuramente tener banco almeno fino al prossimo capitolo: la fiaba sinfonica concepita per intrattenere l’infanzia nasconde, in realtà, ben sottotraccia, un inneggiamento alla ribellione nei confronti della dittatura staliniana. Risulta evidente, quindi, il parallelismo con la condizione dei replicanti, ribellatisi al controllo dei loro padroni. Meno palese il relativo ruolo che assumerebbero alcuni personaggi secondo questa ipotesi, e questo è un altro punto a favore dell’imprevedibilità della trama e della stratificazione delle tematiche.

«Non avete visto un miracolo»

Di tematiche in Blade Runner 2049 è possibile rilevarne un gran numero. Senza scendere nei dettagli è possibile radunarne alcune in un elenco, giusto per confermare l’altitudine del progetto. Permangono il tema del doppio che può essere inteso come lettura tipologica dei personaggi o anche vera e propria replica o simulacro – che, se vogliamo andare per il sottile, è simulacro di un simulacro –,   quello della ricerca dell’identità che diventa anche ricerca del trascendente fino a stimolare interpretazioni di matrice messianica e il tema del ricordo che va declinato in ogni caso, dal ricordo che diventa sogno e viceversa all’evento che si vuole rendere indimenticabile fino al desiderio di fare qualcosa di leggendario che rimanga impresso nelle memorie altrui. Tutti temi mutuati dal primo capitolo,  condensabili in un elemento particolare, ossessivamente utilizzato da entrambi i film, l’occhio. Oltre ad intrecciare il romanzo di Dick a 1984 di George Orwel, l’occhio assume una valenza simbolico-religiosa quasi universale e trasmette qualcosa che le linee di dialogo non dicono: il test di controllo dei replicanti, ad esempio, avviene tramite la pupilla, mentre Wallace ne è privo e per sopperire alla sua cecità si serve di alcuni “occhi” volanti che non sono altro che le miniature dei “gusci” che Villeneuve ha usato come astronavi in Arrival. Sarà nato prima l’uovo o la gallina?

«In ogni opera un artista mette una parte di sé».

I “gusci” che Villeneuve impianta in Blade Runner 2049 non sono l’unico elemento della sua poetica a frapporsi nelle maglie di una ragnatela già particolarmente fitta. I temi della memoria, dell’interpretazione, dell’amore genitoriale, del miracolo della vita e del destino di morte fanno di Arrival un gemello semi-identico di Blade Runner 2049 con quel grigio molto insistito che diventa colore simbolo dell’umanità, ottenuto com’è dalla rappresentazione di Yin e Yang, un contrasto fortissimo da molti visto come manicheo, ma che ad un osservatore non superficiale apparirà come l’armonia di opposti che è uno degli archè studiati dai filosofi dell’età classica: qualunque ruota bianca e nera sui faccia girare, fosse anche quella della vita, è un grigio che si otterrà.

«Le ha dato un nome, deve essere speciale»

Per tirare delle conclusioni, Blade Runner 2049 è un percorso iniziatico che va dal sacrificio dell’innocenza all’ammissione in una società ulteriore passando per la conoscenza di grandi segreti? È frutto del desiderio di essere speciale, di potersi elevare al di sopra degli altri e della propria condizione iniziale, di sentirsi per la prima volta vivi, di essere amati e poter amare liberamente? È la storia di scelte sofferte e destini ineluttabili? È la lotta dell’emarginato, dell’estraneo, del diverso, considerato al pari di un mostro da cui tutti debbano sentirsi minacciati? Durante il suo cameo Gaff crea un nuovo origami per K, a forma di pecora; cosa gli avrà voluto dire?

È tutto questo? Niente di tutto questo? È nella natura stessa del racconto di Dick Ma gli androidi sognano pecore elettriche? fornire spunti di riflessione pressoché infiniti senza fornire chiavi di lettura univoche. Perciò sta allo spettatore trarre o meno le debite conclusioni, poter riflettere a margine e discutere a tuttotondo fino a perdere di vista il punto di partenza, ma quello che è certo è che l’enigmatico progetto portato avanti dalle geniali menti di Scott e Villeneuve non andrà perduto come lacrime nella… neve!

«Non ho mai ritirato qualcosa di “nato”».

Nota curiosa a margine.
Nel frattempo è stato ufficialmente annunciato il progetto di riportare nelle sale cinematografiche un altro grande classico della fantascienza: Dune, il romanzo epic sci-fi che ha ispirato Guerre Stellari e che è già stato portato sul grande schermo da David Lynch nel 1984. Denis Villeneuve sarà il regista di questo remake o reboot, a seconda di come vorrà sviluppare l’ampio materiale a disposizione. Un altro compito estremamente delicato per il regista canadese, che si dovrà di nuovo confrontare con le attese dei moltissimi appassionati della saga.

Valerian e la città dei mille pianeti, di Luc Besson

Sono stati necessari più di dieci anni di lavorazione per realizzarlo, ma Valerian e la città dei mille pianeti, non tradisce le aspettative, neanche quelle del suo fan più esigente: il regista stesso. Sì, perché il nuovo film di Luc Besson, adattamento cinematografico della serie sci-fi a fumetti Valérian et Laureline, ideata dallo scrittore Pierre Christin e illustrata dal disegnatore Jean-Claude Mézières, è stato progettato per far conoscere al grande pubblico un’opera in 22 volumi che dal 1967 al 2010 ha ispirato e continua a influenzare la narrativa di fantascienza di ogni settore.

«Siediti, rilassati e goditi lo spettacolo»

2174. il maggiore Valerian ed il sergente Laureline sono due agenti speciali incaricati di mantenere l’ordine nell’universo. I migliori. L’uno [Dane DeHaan; Chronicle, La cura del benessere] è un soldato valoroso, anche se un po’ approssimativo e svogliato quando si tratta di procedure e regole d’ingaggio, libertino in amore, ha paura solo d’impegnarsi sentimentalmente, cosa che, ovviamente, non è gradita alla sua partner, con la quale ha in piedi una relazione. L’altra [Cara Delevingne; Suicide Squad, Città di carta] è una stratega eccezionale dal temperamento burrascoso, ligia al dovere e ben ferma nelle proprie convinzioni. Il loro rapporto non è, però, la trama principale del film. La loro missione è recuperare un oggetto preziosissimo, l’ultimo trasmutatore esistente, e consegnarlo al comandante Arün Filitt [Clive Owen, Inside man, I figli degli uomini] sulla stazione orbitante Alpha. Scesi dall’Intruder, la loro astronave-factotum, s’imbattono, però, in un difficile intrigo che ha a che fare con una minacciosa Red Zone che, dal nucleo di Alpha, si allarga come un tumore destinato a distruggere la stazione stessa e tutto ciò che essa rappresenti per l’intero universo.

«Chi sapeva è stato ucciso».

Conosciuta come “la città dei mille pianeti”, Alpha è una megalopoli in continua espansione, in cui vivono migliaia di specie provenienti da galassie diverse, anche distrutte dal tempo o dalle guerre. È un vero e proprio cluster intergalattico la cui silente storia è tracciata durante i titoli di testa, accompagnati “soltanto” dal brano Space oddity di David Bowie, che rappresenta non solo un sentito omaggio al camaleontico cantautore britannico e ai suoi futuristici alter ego, ma anche un forte intento di caratterizzazione della stazione orbitante come punto di riferimento privilegiato per ogni pioniere dello spazio e come simbolo supremo di condivisione, unità, fratellanza e pace tra popoli. Questo incipit, molto curato sotto ogni punto di vista, ha la particolarità tecnica di abbinare le immagini del passato con l’aspect ratio tipica dell’epoca (immagini di repertorio in 4:3 per la storica sequenza dell’incontro fra la navicella americana Apollo e la sovietica Soyuz nel 1975; formato 16:9 per la sequenza a episodi che parte dal 2020; fullscreen quando si arriva al 2150).


Il messaggio stesso che è alla base di Valerian e la città dei mille pianeti è veicolato da Alpha che «raccoglie tutta la conoscenza dell’universo – spiega Besson – c’è Wall Street, la Città della Scienza, le Nazioni Unite, Broadway. C’è tutto. E questo la rende il luogo più importante dell’intero universo, dove tutte le razze s’incontrano, portano conoscenza e condividono culture da ogni parte, ma soprattutto hanno imparato a convivere. Se alcuni credono che sia complicato vivere accanto a cinesi o afroamericani, che ne penseranno dei miei alieni? Un proverbio che amo dice “puoi scuotere un albero quanto vuoi, se il frutto non è maturo non cadrà”. Quello che possiamo fare noi artisti è inserire idee qua e là, sta poi al pubblico coglierle. Con i miei cinque figli mi comporto nello stesso modo, cerco di stimolare la loro ricettività».

Insomma, per Besson vale lo stesso concetto che muove i personaggi di Inception di Christopher Nolan: piantare semi di idee nel subconscio dello spettatore stimolando la sua ricettività in maniera implicita. E questa non è l’unica analogia possibile tra i due autori. Entrambi, infatti, lavorano meticolosamente ad un film anche per moltissimo tempo, soprattutto in fase di preproduzione e amano circondarsi di una crew ampiamente collaudata e affiatata, “famigliare” se consideriamo che per loro le figure di moglie e produttrice coincidono perfettamente. Oltre a lei, Virginie Besson-Silla [Lucy, Revolver], Besson si è avvalso di un team di collaboratori storici come il direttore della fotografia Thierry Arbogast [Lucy, Il quinto elemento], il compositore premio Oscar® Alexandre Desplat [Grand Budapest Hotel, The imitation game], lo scenografo Hugues Tissandier [Lucy, Taken], il montatore Julien Rey [Lucy, Cose nostre – Malavita], il costumista Olivier Bériot [Lucy, Taken] e il supervisore degli effetti speciali visivi, il premio Oscar® Scott Stokdyk [gli Spider-man di Sam Raimi, Il grande e potente Oz, La quinta onda].

«Visivamente è un film mozzafiato – ha dichiarato Cara Delevingne – il pubblico sarà travolto da tutti i personaggi che vede. La quantità di sforzi che sono stati compiuti in ogni singolo aspetto – i costumi, il design, l’arte – hanno dato vita a un film incredibile».

Rispetto ai film precedenti Valerian e la città dei mille pianeti è un progetto molto più personale per Luc Besson, tanto da volerlo dedicare al padre, venuto a mancare durante il periodo di lavorazione: «perché è lui che mi ha dato il fumetto a dieci anni». L’idea di trarre un film dal fumetto Valérian et Laureline è nata fin dai tempi della collaborazione tra il regista e uno dei suoi autori, Jean-Claude Mézières, per la realizzazione del mondo visionario in cui si svolge l’azione de Il quinto elemento.

Per poter ideare le migliaia di specie aliene diverse necessarie per Valerian e la città dei mille pianeti Luc Besson ha iniziato sei anni fa a mandare mail ad artisti in giro per il mondo, senza rendere noto né il titolo del film né di cosa trattasse né, ovviamente, che fosse lui a dirigerlo. «Abbiamo chiesto di mandarci disegni di un alieno, di una nave spaziale e di un mondo. Ci sono arrivate circa seimila proposte, da queste ne abbiamo selezionate venti, sei dei quali hanno lavorato con me personalmente per sviluppare altro materiale. Gli ho dato una lista con descrizioni molto vaghe e poi ho permesso loro di creare in libertà per mesi. Hanno prodotto materiale incredibile, io alla fine ho solo dovuto scegliere i pezzi più adatti per comporre il mio puzzle. Il livello di creatività che ho ottenuto dando loro libertà, non ponendo schemi o confini, è stato semplicemente pazzesco».

Alla fine di queste libere fasi creative, è stato necessario un lento e accurato processo di finalizzazione per adattare tutto il materiale artistico in uno stile unico, quello molto ben caratterizzato e inconfondibile di Luc Besson.«Sarà il percorso più breve ma non è certo il più semplice»

Ispirandosi all’artista di videogame Yoji Shinkawa e al famosissimo disegnatore francese Mobius, l’artista concettuale Ben Mauro [Lucy, The Great Wall] ha basato le sue specie spaziali sulla fisiologia degli animali: «Una volta che hai capito come funziona la biologia, prendi queste leggi fondamentali e le trasformi in qualcosa di completamente diverso. Alcuni alieni del film sono basati su rinoceronti o elefanti. Li studi nel loro ambiente naturale e pensi a come ottenere qualcosa di strano e insolito… mantenendo quel qualcosa che li rende familiari».

In un turbinio di colori, di oggetti futuristici ed elementi disseminati ad arte per favorire il desiderio di una o più visioni successive gli artisti concettuali che hanno lavorato al film hanno creato un fantastico bestiario: dai Doghan Daguis – una rivisitazione deformata di Qui, Quo, Qua – agli organismi acquatici che sembrano disegnati dalle parole di Jules Verne; dai mastodontici bromosauri alle meduse mylea; dal criminale alieno Igon Siruss – che nella versione originale ha la voce di John Goodman [10 Cloverfield Lane, The artist, Kong: Skull Island, Argo, Boston – Caccia all’uomo] – ai freddi e spietati K-Tron.

Le inquadrature sono spesso affollate di creature che si vedono anche solo per un attimo: il Grande Mercato sul pianeta Kirian, che ricorda moltissimo il pianeta Naboo di Star wars; le strade e le architetture della stazione Alpha che citano Blade runner e, di nuovo, Star wars ma la trilogia originaria con un inseguimento all’esterno tra corridoi angusti su navicelle ultraveloci – non vi ricorda qualcosa? Vedere per credere.
Le citazioni cinematografiche di Valerian e la città dei mille pianeti non sono finite qui, ovviamente, trattandosi di un maestro del postmodernismo: senza scendere troppo nella pedanteria da nerd o da otaku, mi limito a segnalare una sala riunioni in cui i sedili sono a forma di monoliti neri di kubrickiana memoria; il saluto che Laureline rivolge al maggiore Gibson è tratto da Plan 9 from Outer Space (del 1959, regia di Edward D. Wood Jr.), un supercult per veri appassionati; uno skyjet monoposto che ricorda la moto di Tron ma viaggia seguendo le “traiettorie” di decoupage del miglior George Lucas, di nuovo; non poteva mancare nemmeno un rimando alle fantasie di Philip K. Dick e quindi ecco gli interni in cui dominano i contrasti scenografici con ambienti naturali in luoghi artificiali come nelle trasposizioni di Total recall e gli esterni notturni pieni di insegne al neon e macchine volanti come in Blade runner.

A buona ragione Rutger Hauer, che interpretava il replicante Roy nel film del 1982, è stato coinvolto nel progetto da Luc Besson per un cameo di prestigio con tanto di monologo di fondamentale importanza per il setting del film, che non diventerà un cult come il celebre «Io ne ho viste cose che voi umani…», ma sa scaldare ad hoc il pubblico con il suo grande carisma.
Molto suggestiva e raffinatissima è poi la citazione di uno dei massimi capolavori del cinema francese degli anni ’30, L’Atalante di Jean Vigo: come Jean, il protagonista di quel classico, si tuffa nel fiume per verificare la credenza secondo cui nell’acqua si vede il volto della persona amata (e così accade grazie ad una delle prime sovraimpressioni della storia), così Laureline può “vedere” per osmosi, attraverso il fluido corporeo di una medusa mylea, dove si trova il partner disperso. Una vera chicca per cinefili!

«Voglio una spiaggia!»

Una menzione particolare, infine, va inserita per un riferimento che va ben oltre il gioco di ammiccamenti al fanatico di fantascienza. Oltre al comune desiderio di pace e tranquillità rappresentato dal sogno di una spiaggia incontaminata da parte dei protagonisti maschili, in Valerian e la città dei mille pianeti sono presenti alcune tematiche che sono già state analizzate dalla mente geniale di Terry Gilliam e rielaborate sottoforma di riflessione visionario-filosofica in The Zero Theorem. La virtualità, prima di tutto, è rappresentata in maniera differente dai due registi ma risulta simile la riflessione sul contrasto tra verità presunta e finzione latente ma, soprattutto, la funzione metacinematografica che assume nel momento in cui lo spettatore viene coinvolto in prima persona con sparatorie da gamer in soggettiva o con la stuzzicante performance di trasformismo mimetico della glampod Bubble, interpretata egregiamente da Rihanna [Battleship, Home]. Questa tentazione erotica virtuale ricorda moltissimo quella operata dalla cyberfatina Bainsley ai danni di Qohen Leth nel film di Gilliam, ma lo spettacolo della cantante, come in un Moulin rouge all’ennesima potenza, calamita l’attenzione e diventa un cult da vedere e rivedere all’infinito… e oltre!

Rihanna firma, così, di diritto il voluminoso guestbook delle protagoniste femminili di Luc Besson, pur avendo un ruolo secondario nella trama di Valerian e la città dei mille pianeti e si va ad inserire in un firmamento di stelle che il regista ha contribuito a trasformare in fenomeni del glamour: Milla Jovovic, Natalie Portman, Scarlet Johansson e, da ultima, l’astro nascente Cara Delevingne, che dalle passerelle dell’alta moda è passata con nonchalance sul grande schermo. Come la Jovovic ne Il quinto elemento, Cara ha il phisique du role per indossare un vestiario da applausi a scena aperta, dei costumi stupendamenti assurdi che ben si abbinano alla sua bellezza sofisticata.

«Hai ragione. È uno schianto!»

La popstar Rihanna non è l’unica ospite estirpata dal panorama musicale mondiale. Ad interpretare il Ministro della Difesa è stato chiamato nientepopodimenoché Herbie Hancock, una leggenda del jazz, che ha saputo dire la sua anche nel fusion, nel funk e nell’elettronica a cui va aggiunto il cantante cinese naturalizzato canadese Kris Wu, un volto conosciuto per il target adolescenziale. La partecipazione di cotante ugole famosissime potrebbe aver contribuito a ben disporre i Beatles superstiti ad accordarsi per l’utilizzo della canzone Because nel trailer ufficiale del film. Una concessione senza precedenti. «Ho scoperto in seguito che Paul McCartney è un grande fan della fantascienza, penso ci sia stato un pizzico di fortuna quindi» ha poi spiegato Besson.

Una curiosità a margine, i cammei di alcuni cineasti francesi, amici del regista, in ruoli di ufficiali dell’esercito di Alpha: sono Louis Letterier de L’incredibile Hulk, Olivier Megaton autore di Taken 2 e Benoît Jacquot di Addio, mia regina. Segno evidente di una produttiva relazione professionale senza invidie, segno di una cinematografia in salute che sa creare ogni anno prodotti di eccellente fattura.

Alla luce di tutto questo, Valerian e la città dei mille pianeti è un film meraviglioso in cui la tecnologia 3D diventa un valore aggiunto che amplifica notevolmente le emozioni. Un’indimenticabile spettacolo che sa risvegliare il bambino interiore che è dentro ognuno di noi. Un fantasmagorico caleidoscopio sognante in perfetta armonia fra avventura spaziale e fiaba ecologico-morale.

«Il tempo vola quando ci si diverte»

The War – Il pianeta delle scimmie, di Matt Reeves

The War – Il pianeta delle scimmie [War for the Planet of the Apes], il film di chiusura della trilogia-reboot, ha il respiro dei kolossal d’altri tempi. L’epicità dei gesti, e delle gesta, dei personaggi è sottolineata dalla regia impeccabile di Matt Reeves [Cloverfield, Blood Story] che, dopo i consensi ricevuti all’uscita del capitolo di mezzo Apes Revolution – Il pianeta delle scimmie [Dawn of the Planet of the Apes], è stato chiamato a sostituire Ben Affleck alla regia del reboot The Batman, il nuovo lungometraggio in programma per il progetto Extended Universe della DC Comics. Reeves supera se stesso e i precedenti autori della fertile saga de Il pianeta delle scimmie, surclassando in maniera manifesta ogni singolo film o episodio che sia mai stato prodotto. Le sue sono davvero le migliori scimmie di sempre. Un film che possiede tutte le qualità auliche di quelle epopee che hanno fatto la storia dei generi western o di guerra, contaminate, in questo caso, con studiate pause sentimentali, comiche e filosofico-esistenziali che sanno stabilire un solido ponte con il cuore dello spettatore.

The War – Il pianeta delle scimmie, e i suoi 142 minuti che concludono la storia del leggendario Cesare e ricollegano questo capitolo al capostipite della saga, scorrono senza intoppi e senza gravare sugli occhi e le spalle del pubblico in sala. Dare un giudizio su un film di questo spessore non può trascendere, però, un coinvolgimento in prima persona. Ho amato sia i film che compongono la saga originale sia la serie tv, viste quando ancora si doveva aspettare la trasmissione ufficiale del palinsesto. Posso quindi essere annoverato tra i fan (e l’acquisto del cofanetto completo mette a tacere qualunque obiezione in merito). I fan, si sa, possono essere molto esigenti e vi confesso che per questo genere lo sono. Acquista, quindi, un certo significato il fatto che io sia uscito estasiato dalla sala, dopo aver visto il film di Matt Reeves. The War spegne i riflettori da tutto il resto e li punta tutti su di sé, illuminando il buio del cinema.

Gli elementi per il palato raffinato dei fan sono innumerevoli e non tutti citabili, perché il pericolo dello spoiler potrebbe trovarsi dietro l’angolo, ma basta anche solo far caso ad alcuni nomi come Cornelius e Nova per suscitare ricordi e riallacciare con un doppio nodo questo nuovo film con il primo. Sempre con il film del 1968 si può creare una forte correlazione visivo-emozionale nel momento in cui Cesare si getta a terra sulle ginocchia in un gesto di estremo sconforto, riecheggiando la disperazione di Taylor (Charlton Heston). La figura del leggendario Cesare, oggi, alla luce della trilogia attualmente conclusa, acquista una solidità monumentale che all’epoca era sempre solo tramandata verbalmente dai personaggi. Il Cesare che ha gettato le basi della civiltà scimmiesca in The War deve lottare per salvare la sua stirpe dalla crudeltà del colonnello McCullough [Woody Harrelson, Hunger Games] mentre dentro di sè si accende un profondo desiderio di vendetta nei confronti degli esseri non più così umani da meritarsi di essere la specie dominante. Ma come si arriverà ad avere il fantomatico Pianeta delle scimmie?

Tante le tematiche che accendono il dibattito: il seme dell’odio che si pianta nel cuore e non fa conoscere altre ragioni di vita se non una sterile ricerca di vendetta che possa placarne il desiderio; per contro il seme dell’amore a tuttotondo e indiscriminato che sa far breccia e creare un ponte fra razze, popoli, gruppi per definizione nettamente in contrasto; l’umiliazione della schiavitù e del tradimento pur di continuare a vivere crea un parallelo con la storia della guerra in Vietnam; la malattia come ago della bilancia nell’equilibrio ecosistemico e come tragica punizione per la tracotanza dell’uomo che pretende di sostituirsi alla divinità o contrastare le leggi che governano la natura, ma anche come liberazione/catarsi dal male e dalle sofferenze. Quelli che The War – Il pianeta delle scimmie porta sullo schermo sono dei personaggi mutuati dalla tragedia greca, multisfaccettati, che moltiplicano i punti di vista e innescano riflessioni che trascendono la narrazione filmica e si stagliano nella memoria, come del resto è  successo a suo tempo ai predecessori.

Molte anche le citazioni: ovviamente si ammicca ripetutamente alla saga originale, ma si ricorda spesso anche Apocalypse now e alcune scene ricordano ora Il mucchio selvaggio ora La grande fuga ora Full Metal Jacket con tanto di scritte sugli elmetti dei soldati o sui muri delle abitazioni che richiamano frasi come “L’unica scimmia buona è una scimmia morta” o “Monkey killer”. Il nomignolo “Donkey” dato dai soldati alle scimmie (monkey) non e’ solo l’ennesima umiliazione ma anche la citazione dell’eterna lotta tra il videogiocatore e lo scimmione-boss nel videogame Donkey Kong, una vera chicca per intenditori. Non manca nemmeno la riproposta del citazionismo biblico del secondo capitolo della serie originale con “alpha e omega” come “principio e fine”.

Splendida la fotografia Michael Seresin [Step Up, Apes revolution] di con carrelli aerei e inquadrature a piombo sulle trincee a inizio film, per non parlare della stupenda scena sotto il ciliegio in fiore tra la piccola Nova e il gorilla Luca. Da Oscar l’interpretazione di Andy Serkis, ma nessuno si aspetta niente di meno dall’attore ormai maestro della motion capture. Un’altra piacevole conferma è la bellissima partitura di Michael Giacchino [Zootropolis, Doctor Strange, Rogue One]: veramente completa, altamente emozionale con vette di aulica profondità e che sa preparare anche a significativi silenzi. Uno dei film migliori dell’anno.

La quinta onda, di J Blakeson

Chi ha pianto dando l’ultimo saluto a Katniss dopo Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte II, gli orfani ormai di vecchia data delle relazioni intrecciate al sovrannaturale della saga di Twilight e chi attende trepidante l’ultimo capitolo di Divergent, Maze Runner e lo spin off di Harry Potter Animali fantastici e dove trovarli sappia che ha una nuova eroina da amare e seguire: la protagonista della nuovissima saga YA fiction è la misteriosa e cazzuta Cassie, diminutivo di Cassiopea Sullivan, un nome che preannuncia qualcosa agli spettatori più scafati, se si aggiunge che deriva dalla costellazione che campeggia nella volta celeste visibile da entrambi gli emisferi. Non aggiungerò altro di materia storico-fantascientifica per non rovinare questa e le successive visioni, nonché la lettura dell’ultimo romanzo della trilogia, ancora inedito. Spero, peraltro, di non aver ragione perché, non avendo il sottoscritto doti di chiaroveggenza, vorrebbe dire che la storia è tremendamente scontata.

Tornando a concentrarci sul presente, La quinta onda è il titolo del primo capitolo della trilogia di Rick Yancey trasposta su grande schermo da J Blakeson (La scomparsa di Alice Creed) per Columbia Pictures. L’incipit del film è in media res, tutto giocato di dettaglio, in modo da proiettare subito il pubblico nel cuore delle vicende e, viceversa, far entrare nel cuore dello spettatore la protagonista sedicenne Cassie, che sta cercando di sopravvivere ad un’invasione aliena che l’ha separata dalla sua famiglia. Dai suoi ricordi, in forma di diario, si apprende che l’attacco è avvenuto in diversi momenti: una prima onda, un black-out totale che ha ottenebrato ogni tecnologia, una seconda, un terremoto che ha devastato la Terra, seguito da un’epidemia di influenza aviaria, la terza onda, che ha decimato la popolazione in modo da creare i presupposti per la quarta, quando, infine, gli alieni, denominati “gli Altri”, si sono mostrati in tutta la loro subdola natura, determinati ad usare ogni mezzo per ottenere una facile colonizzazione del pianeta attraverso la misteriosa quinta onda. È davvero questo il destino dell’Umanità: soccombere annientata da alieni antropomorfi che si mescolano alla popolazione da tempo immemore? Quali altri scioccanti avvenimenti dovrà vivere la sfortunata Cassie? Cosa può fare un’adolescente da sola contro un intero esercito così efficacemente organizzato? Cosa ne sarà della sua umanità dal momento che è costretta a diventare cinica e spietata per sopravvivere in un mondo dove i nemici hanno le sembianze degli amici e in cui «nessun luogo è sicuro, ormai»?

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Cassie è la bellissima e molto espressiva Chloë Grace Moretz, la favorita dei fan del romanzo e, probabilmente per questo, unica attrice esaminata per il ruolo. La sua convincente interpretazione ripaga la fiducia dei produttori e del pubblico, e non ci si poteva aspettare nulla di meno dalla bambina prodigio ammirata negli horror remake Amityville horror, The eye e Blood story e diretta da mostri sacri come Martin Scorsese (Hugo Cabret) e Tim Burton (Dark shadows). La Hit-Girl di Kick-Ass e Kick-Ass 2 stavolta è un’adolescente che deve vivere un’avventura fuori da ogni previsione, convivere con le sue due anime di benevolo essere umano e di guerriera improvvisata, rappresentate visivamente dai suoi due compagni di viaggio, un fucile a ripetizione ed il peluche preferito del fratellino Sam, prigioniero degli Altri,  e sopravvivere ad ogni pericolo che si frappone tra lei e la salvezza di Sam.

I riferimenti a gloriose pellicole ormai divenute cult per ogni esperto cinefilo sono tanti: la scoperta delle astronavi e delle prime anomalie avviene mentre Cassie si trova a scuola, impegnata prima a lezione e poi nell’allenamento di calcio della squadra locale, vicende che ricordano quelle dei protagonisti di Alba rossa e del suo remake Red dawn, dove i Wolverines ricordano gli odierni Panthers con tanto di motti che mettono in risalto “onore” e “integrità”; le astronavi che aleggiano sulle principali città come Independence day, che avrà un seguito previsto per giugno 2016; la banale influenza, che crea un’ecatombe, e l’esigua presenza di immuni, che diventano l’obiettivo della contesa tra forze del Bene e forze del Male ricordano The stand – L’ombra dello scorpione; per concludere con un recente The host o la serie originale de I Visitors che presentano non poche assonanze anche per quanto riguarda la trama, mai però quanto Ultracorpi: l’invasione continua di Abel Ferrara, seguito de L’invasione degli ultracorpi.

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La quinta onda è un ormai classico pastiche postmoderno che mescola ingredienti collaudati, presi da vari generi, con una struttura in linea con gli standard del momento e una fotografia spettacolare garantita dall’utilizzo della ARRI® Alexa e delle lenti anamorfiche Panavision® G-series.

Probabilmente la stragrande maggioranza del pubblico si appassionerà, quasi senza rendersene conto, a personaggi e vicende che fanno parte in qualche modo del patrimonio genetico di chi ama il genere sci-fi ma, contemporaneamente, restarà con il fiato sospeso per intrecci amorosi simili a quelli che hanno fatto la fortuna della saga di Twilight. Un prodotto cinematografico che può mettere d’accordo un po’ tutti, se non si è in vena di scegliere drasticamente un genere.

Non mancano riferimenti verbali e correlazioni tra l’invasione aliena del film e la colonizzazione del Nuovo Continente a scapito dei nativi americani. Segno di un’autocritica ormai sdoganata o di una captatio benevolentiae per il pubblico d’oltreoceano? L’operazione commerciale c’è e si vede ma la speranza è che tra tanto cinismo ci sia ancora spazio per messaggi positivi divulgati attraverso operazioni di marketing e non viceversa. Gli Altri considerano l’amore un inganno e la speranza un’illusione che genera debolezza. Anche il cinema, in fondo, è illusione, inganno. E quello che lo spettatore chiede al cinema, sottoscrivendo il solito patto di sospensione dell’incredulità, è di non essere mai tradito nei sentimenti: Hitchcock giustamente affermava che bisogna riempire sia lo schermo sia i posti in sala, ma non dimenticando che va fatto con originalità e stile, qualità che a questo primo capitolo di saga, purtroppo, mancano. Speriamo che gli attesi sequel Il mare infinito e L’ultima stella riportino terrestri e alieni a percorrere sentieri meno battuti e che l’aver scomodato il mito di Cassiopea funga da volano per delle svolte interessanti e… imprevedibili.

«Che cosa gli serve?»
«Gli serve la Terra, ma non noi!»

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