Questa è la prima stagione senza Proietti ma la direzione artistica è ancora la sua e, come in un passaggio di testimone, l’attenzione è tutta rivolta ai giovani: gli sketch trasmessi prima della rappresentazione lo ritraggono mentre guida i giovani attori in una delle prime rappresentazioni del dramma shakesperiano per eccellenza: ad omaggiare il grande attore e regista romano, torna in scena Romeo e Giulietta, proprio come all’apertura del Globe nel 2003. La chiave interpretativa cambia radicalmente e l’opera ci presenta un Romeo dei giorni nostri, con la felpa dei Chicago Bulls, in preda ai deliri d’amore, mentre Giulietta balla e rockeggia nella casa di famiglia.
La vicenda drammatica diventa così frutto dell’immaginazione di Romeo: i costumi cambiano improvvisamente, così come il linguaggio giovanile lascia spazio a quello delle tragedie shakesperiane, e ci ritroviamo nel bel mezzo del ballo organizzato dai Capuleti; è qui che il conte Paride chiederà la mano di Giulietta ed è sempre qui che Romeo si innamora della giovane Capuleti, dopo essersi introdotto a palazzo, nascosto da una maschera. Sarà questo il casus belli che porterà Tebaldo ad aggredire, per la prima volta, Romeo. È da questo momento che la situazione precipita e lo stesso Tebaldo si scontra con Mercuzio.

Viene da pensare che Gigi Proietti e William Shakespeare abbiano condiviso valori importanti: l’amore e l’ironia tra tutte. Valori ancora validi ai giorni nostri, verità ineffabili, celate ai più, raccolte e raccontate dal fool di turno, Mercuzio, al quale Shakespeare dà voce: un’interpretazione superlativa, quella dell’attore Fausto Cabra che ravviva una vicenda dai toni drammatici, in cui le posizioni austere dei padri veronesi chiudono e semplificano la realtà. Ma tutti i drammi di Shakespeare sono dei cerchi tracciati nella storia letteraria mondiale e anche i peggiori drammi si chiudono con un insegnamento.
È ancora Mercuzio a illuminare: “Maledette le vostre due famiglie che mi hanno ridotto a carne per i vermi”. Il cugino del Principe muore sotto gli occhi, anzi sotto il braccio – la spada di Tebaldo gli passa proprio sotto – di Romeo che lo vendica, uccidendo Tebaldo. La tragedia da questo momento si rivela per quella che conosciamo: pozioni, veleni e misunderstanding porteranno alla cacciata del protagonista da Verona e alla morte degli amanti.
La scena finale vuole essere un monito per tutti: l’amore è una faccenda intima e delicata, da trattare con estrema delicatezza insomma; l’intromissione di terzi o l’esasperazione del sentimento stesso hanno portato al compimento di una vicenda iniziata quasi per scherzo e terminata con la morte dei protagonisti e dei loro cari.
C’è un ulteriore risvolto: il Principe chiude la tragedia canonizzando le parole del pazzo Mercuzio: “Ebbene, dove son questi nemici? Capuleti! Montecchi! Ecco, vedete da qual flagello è colpito il vostro odio. Il cielo s’è servito dell’amore per uccidere a ognuno di voi due le rispettive gioie. Ed io, per aver troppo chiuso gli occhi sulle vostre contese, son privato di violenza di due cari parenti. Siamo puniti tutti!”.
Dopo il forzato distanziamento sociale e il lockdown, il Silvano Toti Globe Theatre, l’unico teatro elisabettiano d’Italia, nato nel 2003 grazie all’impegno dell’Amministrazione Capitolina e della Fondazione Silvano Toti per una geniale intuizione di Gigi Proietti, riaprirà le porte alla nuova stagione il 29 luglio 2020.
L’obiettivo è quello di confermare agli spettatori un appuntamento di incontro e condivisione che è diventato consuetudine dell’estate a Roma. L’intento sarà quello di offrire una serie di spettacoli coerenti con la programmazione che ha distinto il teatro, cercando per quanto possibile di non penalizzare la ricchezza numerica degli interpreti, senza trascurare uno sguardo alla formazione e alla didattica.
La grande novità di quest’anno è la collaborazione con un partner naturale per collocazione ed eccellenza, l’Accademia Nazionale d’arte drammatica “Silvio d’Amico”.
In coproduzione con Politeama s.r.l. – Teatro di Roma – Accademia Silvio d’Amico, il Globe ospiterà una nuova versione de “I due gentiluomini di Verona” con le musiche del premio Oscar Nicola Piovani , la traduzione originale di Vincenzo Cerami, per la regia di Andrea Baracco. Offrirà a giovani attori l’occasione, l’emozione di debuttare nella professione, incontrando un pubblico numeroso, recitando su un grande e vero palcoscenico le parole di un autore che costituisce un appuntamento fondamentale per ogni interprete.
È questo il giusto sviluppo di uno spazio che ha ospitato in precedenza i debutti degli allievi di tante scuole nazionali di recitazione e ha organizzato laboratori incentrati su testi shakespeariani. Anche in questa stagione si terrà uno studio/laboratorio di Marco Carniti su “Lucrezia” di William Shakespeare.
Nonostante il rallentamento dovuto al Covid-19, il 16 aprile 2020, è stato inaugurato l’Archivio Silvano Toti Globe Theatre, promosso e ospitato dal Dipartimento di Lingue Letterature e Culture Straniere dell’Università Roma Tre, con cui continua anche quest’anno la collaborazione. Durante la stagione, infatti, il teatro ospiterà il PCTO di Roma Tre rivolto a studenti delle scuole superiori romane e laziali, dedicato alle potenzialità del teatro Shakespeariano per l’apprendimento della lingua inglese.
PROGRAMMA
La stagione 2020 del Silvano Toti Globe Theatre
Dal 29 luglio al 2 agosto ore 21.15
VENERE E ADONE
Regia di Daniele Salvo.
Traduzione e adattamento Daniele Salvo
Produzione Politeama s.r.l.
Dal 6 al 23 Agosto, ore 21.15 (da giovedì a domenica)
SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE
Regia di Riccardo Cavallo
traduzione Simonetta Traversetti
Produzione Politeama s.r.l.
11, 12 Agosto ore 21.15
CANZONI
Uno spettacolo di Germano Mazzocchetti e Nicola Fano.
Supervisione artistica Marco Carniti
Produzione Politeama s.r.l.
18, 19 Agosto – 15,16, 22 Settembre ore 21.15
LE OPERE COMPLETE DI SHAKESPEARE IN 90 MINUTI
Regia Andrioli, Checcacci, Degl’Innocenti.
Prodotto da Politeama s.r.l. e Macchina del suono
Dal 27 al 30 Agosto 21.15
Studio da
I DUE GENTILUOMINI DI VERONA
Regia di Andrea Baracco
Prodotto da Politeama srl – Teatro di Roma – Teatro Nazionale e
Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”
Dal 2 al 6 Settembre, ore 21.00
SHAKESPEA RE DI NAPOLI
regia di Ruggero Cappuccio
Prodotto Teatro Segreto e Politeama S.r.l.
11 ,17, 18, 23, 24, 25 Settembre ore 21.00
12,13 , 19, 20, 26, 27 Settembre ore 18.00
LA DODICESIMA NOTTE
Regia Loredana Scaramella
Traduzione e adattamento Loredana Scaramella.
Produzione Politeama s.r.l.
7 Settembre ore 21.00
MURMAT SHORT FILM FESTIVAL
Il MSFF nasce nel 2018 da un’idea di Angelica Mureddu e Valerio Matteu con il fine di sviluppare una manifestazione culturale, capace di creare connessioni tra i professionisti del settore artistico e cinematografico. La manifestazione è organizzata senza alcun scopo di lucro, dall’associazione Shake Art, in collaborazione con Murmat Studio e Nuvole Rapide Produzioni.
Al Globe con mamma e papà
Il Sabato e la Domenica mattina spettacoli per bambini in compagnia di Shakespeare
1,2, 22, 23 Agosto – 5, 6,19, 20 Settembre ore 11.00
RICCARDINO TERZO
Scritto e diretto da Gigi Palla
Produzione Politeama s.r.l.
8, 9, 29, 30 Agosto – 12, 13, 26, 27 Settembre ore 11.00
LE TRE STREGHE DI MACBETH
Scritto e diretto da Gigi Palla
Produzione Politeama s.r.l.
“Via, maledetta macchia!… Via, ti dico! Uno, due tocchi… Su, questo è il momento! L’inferno è tenebroso….”. Lava, strofina, igienizza e lava ancora, ma non basterebbero tutti i profumi d’Arabia a pulire questa mano. Il virus invisibile è ovunque e non c’è modo di cancellarlo, come il sangue del re Duncan sulle mani assassine di Lady Macbeth, spirito guida in questo inferno terreno in cui il contatto umano è una colpa, e si può morire anche solo per un bacio o per un abbraccio troppo stretto. Su questo palcoscenico globale in cui sta andando in scena la tragedia di un’epidemia senza precedenti, che spazio può avere il teatro e ancor più Shakespeare, con le sue opere sanguigne e i suoi personaggi guidati da passioni violente, travolgenti, che si urlano contro, si stringono, si amano e si uccidono, vicinissimi in scena nelle scene intime come in quelle corali?
Secondo le più recenti disposizioni per contenere l’epidemia di Covid-19 gli attori in scena devono mantenere la distanza di un metro oppure indossare la mascherina. Ma come si può recitare con la mimica facciale completamente annullata e la voce costretta in una mascherina? Come si può mettere in scena Shakespeare senza toccarsi, recitando l’amore e l’odio a un metro di distanza? La legge contiene il teatro, incatena gli attori a una distanza impossibile da mantenere per salvaguardare la loro salute e quella degli spettatori ma, come spesso accade, una situazione di grave crisi può generare una grande creatività e portare alla luce risorse sopite. Un esempio è proprio Shakespeare che, confinato a casa per più di un anno per via dell’epidemia di peste, ha approfittato della chiusura dei teatri per scrivere alcune tra le sue opere più grandi, come Re Lear, Macbeth e Antonio e Cleopatra.

E questo è anche il caso delle due brillanti attrici Annabella Calabrese e Giovanna Cappuccio, che dall’oscurità della quarantena e dalla rigidità granitica delle misure di sicurezza, hanno saputo creare qualcosa di nuovo, figlio di un’epoca di spaesamento, in cui la fame di spettacolo è grande, ma anche la paura del contagio. Shakespeare in plexiglass è proprio questo, un’opera sperimentale che immagina infinite possibilità per portare in scena i drammi shakespeariani senza violare le norme, restando a distanza, separati appunto da schermi di plexiglass. E se il testo shakespeariano rimane invariato non è lo stesso per la performance, completamente riplasmata per questo tempo, ma non meno efficace nell’esecuzione.
Il dramma è palpabile, così come il forte desiderio di continuare a tenere in vita questi straordinari personaggi, onnipresenti sulla scena come fantasmi a cui è concesso di parlare attraverso il corpo e la voce delle due attrici, e che ardono dal desiderio di tornare a vivere come prima il loro spazio e le loro passioni. Nonostante le mascherine, i guanti di lattice e gli schermi di plaxiglass, il teatro è ancora vivo, pulsante e Shakespeare in plexiglass ne è la prova, prologo di una stagione teatrale che si preannuncia per il Teatro Trastevere di Roma unica nel suo genere, ma che tra tante difficoltà saprà trasformare questo momento di arresto in una ripartenza ricca di spunti creativi.
“Ma perché mi guardate così? Cosa c’è di sbagliato nel mio modo di amare? Io non voglio cambiare, io non posso, non sono così forte”. L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme… Perché Sappiamo ciò che siamo ma non quello che potremmo essere. Nonostante tutto è una bella prigione il mondo. Fatevelo dire da delle pazze.
Tre donne in scena. Tutte e tre condividono lo stesso destino. Amleta, Ofelia e Gertrude si sono ritrovate dopo quattrocento anni sul palcoscenico del mondo per raccontare la loro storia e portare alla luce la verità attraverso la finzione del teatro. Il testo shakespeariano però è solo un canovaccio sul quale ricamano le loro personalità, quasi uno stratagemma per raggiungere un pubblico altrimenti inaccessibile, condurlo nella Casa Circondariale Femminile di Rebibbia e dare finalmente la propria versione dei fatti.
Amleta incarna la follia, Ofelia l’abbandono e Gertrude le scelte sbagliate fatte in nome dell’amore, ma se pur diverse queste tre donne sono accomunate dal medesimo destino. Sono prigioniere in una vita che non gli appartiene più e stanno pagando a caro prezzo gli errori del passato. Nel non luogo in cui si ritrovano, che più che al freddo castello di Elsinore somiglia ad un caldo salotto, danno libero sfogo ai loro pensieri condividendo uno spirito di sorellanza che mai si è visto nel testo shakespeariano, ma che qui è la chiave per comprendere lo stato d’animo di queste eroine. Nello stare insieme ritrovano la pace, nella recitazione la libertà, nel teatro la casa. Ed è solo sul palcoscenico che riescono ad essere sè stesse, a mostrare chi sono oggi, nell’hic et nunc della rappresentazione. Per essere qui hanno studiato, lavorato duramente e percorso una strada tortuosa, fatta di prove interminabili e infinite riscritture del copione, ma è solo grazie a tutto questo che sono diventate Amleta, Ofelia e Gertrude.
Il teatro ha dato loro un nome nuovo e una vita nuova, in cui l’arte è una parte imprescindibile, è ossigeno e boccata di libertà. Una volta aver provato questa sensazione non è possibile tornare indietro ed è per questo che la Compagnia delle Donne del Muro Alto, guidata dalla regista Francesca Tricarico, continua a lavorare sui testi classici, a riscrivere il passato con le parole del presente e a trovare nel teatro riparo dalle tempeste della vita.
“Una volta assaporata la libertà come si può rinunciare?” Perché in un solo posto siamo libere davvero, siamo noi senza esserlo, a TEATRO. Amleta è stata l’occasione per indagare e riflettere sulla parola giudizio e scelta, ma sopratutto sul viaggio senza ritorno alla scoperta della verità. Amleta è uscita davvero pazza stavolta. Ma la verità questo effetto può fare?”
Sogno di una notte di mezza estate, di Riccardo Cavallo
Un salto indietro nel tempo, il teatro elisabettiano in tutto il suo fascino: al Silvano Toti Globe Theatre si concretizza la vera magia di Shakespeare. Sogno d’una notte di mezza estate non ha bisogno di presentazioni. È la commedia della magia, della dimensione onirica e del sogno a occhi aperti, del divertimento popolare e della beffa. È un merletto raffinato, cucito alla perfezione da uno Shakespeare a metà circa della sua carriera, un labirinto in cui la realtà si contrappone al sogno, l’indiscutibile si confronta con l’incertezza, il mondo della magia e della natura si mescolano al mondo degli uomini e ai loro terreni affanni. È sopratutto il gioco a incastri, tema caro al grande drammaturgo, del teatro nel teatro.
La magia che scaturisce da questa storia di amori, sortilegi, fughe e duelli rivive di fronte agli occhi dello spettatore romano in tutta la sua sublime unicità grazie a una location del tutto eccezionale: la ricostruzione esatta del Globe Theatre di Londra, quel mitico luogo che, tra il 1586 e il 1612 circa, vide susseguirsi sul suo palcoscenico la più straordinaria produzione drammaturgica di tutti i tempi, quella di tale Sir. Shakespeare.
Diretto da Gigi Proietti e situato nella piacevole cornice di Villa Borghese, il Silvano Toti è uno splendida struttura in legno che propone nella calda estate romana una selezione di opere del repertorio shakespeariano, tra commedie e tragedie in lingua originale o con originali riadattamenti.
Al di là del singolo titolo al botteghino dunque, l’atmosfera che si respira è pura magia. Il teatro è volutamente spartano (sedili in legno e posti in piedi sul parterre) per riproporre al pubblico in tutta la sua interezza l’esperienza del teatro elisabettiano, passatempo popolare accessibile anche alle classi meno abbienti.
Ideato e rappresentato in occasione di una celebrazione di nozze, il Sogno si snoda lungo un intricato guazzabuglio di situazioni e personaggi fino a formare un percorso ad anello che va dall’annuncio di un matrimonio tra il re di Atene e la sua consorte conquistata in guerra a una benedizione nuziale “multipla”, in un lieto fine che unisce a festa tutti i personaggi.
Le chiavi di lettura con cui è possibile analizzare questa commedia sono infinite come infinito è il gioco degli specchi che frantuma le prospettive e espande una storia in mille nodi narrativi.
Il testo shakespeariano, con la traduzione di Simonetta Traversetti, riprende vita per la regia di Riccardo Cavallo in un adattamento che conserva in modo lucido e intelligente il legame con la tradizione.
In primis nel far emergere benissimo gli intrecci psicologici e i movimenti di tensione che si nascondono nei diversi ruoli dei protagonisti: Ippolita non è una regina innamorata ma una preda, Elena non è solo una fanciulla preda delle pene d’amore ma una donna piena di insicurezze e lacerata tra la fedeltà all’amica d’infanzia Ermia e la gelosia che la bellezza dell’amica suscita in lei. Persino di Titania e Oberon, Re e Regina delle Fate, esemplari di un mondo incantato e irraggiungibile, sembra possibile comprendere le ragioni di comportamenti capricciosi e futili grazie alle puntuali interpretazioni degli attori.
Elemento forse ancora più importante e apprezzabile è la resa drammaturgica, fedele ma magistralmente attualizzata, delle gag comiche per eccellenza della rappresentazione: la compagnia di zotici artigiani che con improbabili manie di grandezza e con la scatenata bizzarria di assurde trovate sceniche tenta di mettere in scena uno spettacolo in vista delle nozze del Re di Atene.
Si tratta di Peter Quince, Francis Flute, Snug e Tom Snout – rispettivamente interpretati da Marco Simeoli, Roberto Stocchi, Andrea Pirolli e Claudio Pallottini – protagonisti loro malgrado degli intermezzi tra i più divertenti della storia della commedia.
La loro maldestra ignoranza è contestualizzata e resa attuale da una calata napoletana che conferisce alla loro esibizione, tutta focalizzata su iperboliche e disastrose prove teatrali, un aspetto di farsa partenopea a cui è impossibile restare indifferenti. Fanno divertire il pubblico con gestualità esagerate e tempi comici perfetti.
Lo studiato meccanismo del teatro nel teatro, costruito ad hoc dall’autore, acquista una credibilità e un’efficacia insolita e divertentissima.
Abbassa definitivamente ogni tono drammatico della storia la beffa per eccellenza: la Regina delle fate, costretta con un filtro d’amore a prostrarsi folle d’amore a Nick Bottom, tessitore con velleità artistiche, per di più mostruosamente trasfigurato in un essere antropomorfo con la testa d’asino.
Straordinaria emerge la figura di Titania, interpretata da Claudia Balboni, gigante tanto nel timbro vocale quanto nella presenza scenica. A Gerolamo Alchieri, splendidamente poliedrico nella sua interpretazione, spetta invece il difficile ruolo di Nick Bottom, forse il personaggio comico più riuscito di Shakespeare.
Tutt’altro che secondari alla riuscita della giusta ri-creazione dell’atmosfera festosa e fiabesca del Sogno sono i costumi, curati da Manola Romagnoli, capaci al tempo stesso di identificare la classe sociale d’appartenenza (elemento fondamentale nel gioco dei ruoli di Shakespeare) e di astrarre totalmente ogni ipotesi documentaristica di datazione epocale per innalzare tutto a un piano sospeso tra il mito e la leggenda.
Personaggio cerniera dell’intera vicenda è Puck: folletto scaltro, malandrino, tutt’altro che impavido con il suo padrone ma scanzonato e risolutivo, è lui a fare da ponte tra il mondo magico delle fate e il mondo degli uomini.
Gerolamo Alchieri da’ a questo personaggio una fisicità per nulla “follettosa” ma ancor di più stupisce la sua capacità di sembrare piccolo, invisibile nell’oscurità del bosco, indaffarato a rimediare ai suoi pasticci e, infine, immenso nel vibrante monologo finale che incarna e rivela le parole e il pensiero di Shakespeare in persona, il suo legame con il palcoscenico, con il pubblico e la sua intera concezione del teatro come “sogno a occhi aperti”.
La scenografia, a cura di Silvia Caringi e Omar Toni, è semplice, come nel teatro elisabettiano. Pochi elementi bastano a far vivere una molteplicità di situazioni che si susseguono nei due topoi della commedia classica: il palazzo e il bosco. Le luci, disegnate da Umile Vainieri, creano le atmosfere, scandiscono il passare delle ore e soprattutto demarcano quella sottile linea di confine tra il giorno e la notte, tra il regno della magia e la società degli uomini.
Potere evocativo di immagini, musica, trame che si sovrappongono e – non ultimo – il fascino della parola di Shakespeare: ogni elemento si ricompone in un grande quadro finale, tutto si salda in una compiuta unità. Tuttavia ogni cosa resta sospesa nel Sogno. Tutto è ricoperto da un aurea di magia e incanto.
Il pubblico, a fine rappresentazione, si chiede se abbia assistito a un sogno o a uno spettacolo reale. E puntale nel preciso istante in cui la magia del teatro ha compiuto la sua missione, dal palco riecheggiano le parole di Shakespeare, messe in bocca al folletto Puck: “Pensate, per rimediare al danno/che qui vi abbia colto il sonno/durante la visione del racconto/e questa vana e sciocca trama/non sia nulla più di un sogno.”
Re Lear, di Stefano Sabelli
Dal nulla verrà nulla. Questa è la maledizione che il vecchio Re Lear lancia a Cordelia, la figlia che ama di più ma che non è capace di pesare il suo amore con l’adulazione nel momento in cui lui chiede alle sue figlie di dimostrare a parole il loro amore in cambio di un pezzo del suo regno. Così inizia la tragedia portata in scena da Stefano Sabelli al Teatro dell’Orologio, che immerge il dramma shakespeariano in un’atmosfera balcanica colorata e costantemente sopra le righe, in cui un ruolo fondamentale giocano gli scatenati musicisti della Riserva MOAC & Bukurosh Balkan Orchestra. Se Lear è un Re zingaro, le sue figlie Goneril e Regan diventano le lascive concorrenti di un concorso di bellezza, che non esitano a mettere in gioco tutta la loro fisicità, oltre che l’adulazione più sfrenata per essere incoronate Miss delle nuove Regioni di Bretagna.
Completamente diverso è l’atteggiamento di Cornelia che, serrata nei suoi abiti rigorosi, non lascia intravedere neanche un briciolo dell’affetto debordante che ostentano le sue sorelle e, salda sulle sue posizioni, preferisce l’onestà all’ipocrisia a costo di perdere ogni cosa. Lear divide il suo Regno fra due figlie adulatrici e ripudia Cornelia, ma è proprio questo l’inizio della fine perché questo gesto sconsiderato fa perdere al re zingaro il senno e la rosa dei venti del suo roboante carrozzone, e lo costringe a vagare per il suo regno perduto in cerca d’amore in una tempesta d’odio.
Il Re Lear messo in scena dalla Compagnia del Loto è un’ode alla decomposizione lenta ma inesorabile dell’uomo, che si materializza prima in quella del suo regno, poi della sua famiglia, e infine della sua mente, mentre intorno a questo teatro-mondo esplodono ritmate fanfare Gipsy, ad annunciare il crollo dell’impero dei vecchi per far posto ai giovani, che mettono in campo tutte le armi a loro disposizione per trovare il loro posto nel mondo. Ma se Goneril e Regan si aggirano nel regno come Erinni affamate, pronte a risucchiare la vita di chiunque intralci il loro piano diabolico, Cornelia non usa altro che l’amore e la compassione, cercando l’alleanza di tutti coloro che un tempo erano fedeli al vecchio re. Chi vincerà questa sanguinosa battaglia? Nell’adattamento di Stefano Sabelli così come nel dramma shakespeariano l’unico vincitore di questa tragedia umana è l’odio, che travolge gli uomini come ramoscelli in balia della tempesta, e con il suo alito di morte è in grado di radere al suolo anche i regni più fiorenti e le menti più brillanti.
Table Top Shakespeare apre le porte del laboratorio segreto del Bardo, dove i personaggi dei suoi drammi giacciono silenziosi sui ripiani di due grandi credenze nella forma di oggetti di uso comune, affastellati come pozioni magiche ansiose di essere mescolate per dare vita storie straordinarie. Il palcoscenico su cui questi piccoli oggetti si combinano ad arte per mettere in scena le opere di Shakespeare è un un tavolo di legno grezzo posto al centro della scena, dietro al quale si muove un narratore/attore, che con l’ausilio della voce e degli oggetti più disparati è in grado di rappresentare qualunque storia.
La magia ha inizio sotto gli occhi degli spettatori in uno spazio in cui l’incredulità è sospesa. Qui Otello e Desdemona hanno la forma buffa di due piccoli contenitori di sale e pepe, Antonio e Bassanio di due bottiglie di ketchup, e Falstaff di un panciuto fiaschetto di vino, mentre i membri del loro seguito sono relegati a miseri torsoli di mela e pile ricaricabili. E in questa sfilata senza fine di bottiglie, vasi di cristallo, barattoli, scatole di biscotti, e soprammobili di ogni tipo i versi di Shakespeare prendono corpo, diventano materia e raggiungono il pubblico con una naturalezza inimmaginabile, con la dolcezza di una favola raccontata attorno al camino.
Complete Works: Table Top Shakespeare crea così una dimensione d’intimità e vicinanza con lo spettatore ed esplora la forza della narrazione e la potenza della lingua shakespeariana incarnandola nel silenzio di oggetti apparentemente inermi, mossi su un tavolo di legno che diviene arena dell’immaginario del pubblico e luogo dell’emotività. Questo è uno dei lavori più originali e radicali di Forced Entertainment, la compagnia nata nel 1984 a Sheffield, in Inghilterra, e guidata dal carismatico Tim Etchells, che s’è imposta all’attenzione internazionale attraverso una continua sperimentazione di forme e linguaggi e un costante dialogo tra comico e drammatico.
Grazie al Romaeuropa Festival il loro straordinario lavoro è arrivato anche in Italia, dove in cui nell’arco di una settimana sono state portate in scena sullo stesso palcoscenico 36 opere teatrali shakespeariane in performance da 40/60 minuti ciascuna. Un tour de force senza precedenti, che ha ammaliato e allo stesso tempo messo alla prova gli spettatori, indagando il significato che il teatro e la performance assumono nella nostra contemporaneità e la relazione tra scena e pubblico. Ma nonostante l’alto grado di sperimentazione del progetto, in un contesto in cui la diegesis si concentra esclusivamente sul testo shakespeariano e la mimesis resta condensata negli oggetti, Shakespeare rimane il protagonista assoluto e come ha detto Tim Etchells: «Se le commedie non saranno incredibilmente divertenti non è veramente un nostro problema – è più un problema di Shakespeare».
Zona d’ombra, di Peter Landesman
«L’unica cosa importante è finire la partita. Se finiamo, vinciamo!»
Zona d’ombra – Una scomoda verità, scritto e diretto da Peter Landesman [Parkland, La regola del gioco], ha come protagonista Will Smith, che interpreta il dr. Bennet Omalu, un neuropatologo plurispecializzato, preparato e scrupoloso, cristiano e con un modo tutto suo di “parlare” con i cadaveri durante le autopsie. Non come Eliza Dushku nella serie Tru calling, si capisce, ma con una delicatezza e sensibilità che in quell’ambiente è assente nella quasi totalità dei casi.
Tratto da una storia vera, il film prende spunto dall’articolo Game Brain, scritto nel 2009 da Jeanne Marie Laskas per la rivista GQ, ed è incentrato sul difficile percorso di sensibilizzazione del mondo sportivo nei confronti della CTE, l’acronimo dell’encefalopatia traumatica cronica, una malattia neurodegenerativa che colpisce chi subisce violenti e ripetuti colpi alla testa.
Nel 2002 il Dr. Omalu si trova a dover effettuare l’autopsia del corpo di un irriconoscibile “Iron” Mike Webster, giocatore dei Pittsburgh Steelers, campione nel ruolo di centro, la più violenta posizione in campo perché punto di partenza del gioco, proprio nel fulcro della linea di scrimmage, dove si può ricevere una media di 70000 colpi in carriera. Da questo episodio inizia una serie di costosissimi studi per portare alla luce quella che si preannuncia da subito come una scomoda verità. Webster, interpretato da David Morse [Il miglio verde, Contact, Disturbia], lamentava forti emicranie ed era stato abbandonato dalla famiglia per i continui cambi di umore e ripetuti segni di squilibrio mentale, dedito all’autolesionismo più volte, è infine morto solo, in miseria e considerato pazzo, nel suo pick-up, l’unico luogo dove poteva non arrecar danno ad altri. La ricerca del neuropatologo parte proprio da questo episodio e, mentre cerca connessioni e confronti con animali che per natura si trovano a dover fronteggiare violenti colpi al cranio (la suna del capo, il picchio testarossa, il montone delle montagne rocciose), la cronaca nera gli sottopone nuove morti violente e, soprattutto, evitabili, se la malattia da lui scoperta viene diagnosticata per tempo e, non da ultimo, se la National Football League, invece di minacciare e ostacolare lo scienziato, lo ascoltasse e prendesse provvedimenti e precauzioni per tutelare quelli che dovrebbero essere i migliori giocatori dello sport nazionale, e non gladiatori – morituri – chiamati a rappresentare esclusivamente una fonte di lucro e di spettacolo.
«Dio non ci ha creati perché giocassimo a football!»
A fare da contrasto con il dramma dei suicidi, della pazzia dei giocatori e della situazione di angoscia dei familiari delle vittime, il regista sceglie proprio delle immagini di repertorio che rimarcano proprio la spettacolarizzazione degli scontri fino ad allora – e tuttora, purtroppo – presente nella maggior parte dei programmi di informazione sportiva.
Un film-inchiesta, prodotto da Ridley Scott, dall’assetto più televisivo che cinematografico, nonostante le splendide riprese con la ARRI Alexa. Ma non per questo noiosa, anzi: il film è stato apprezzato in America, nonostante la contemporanea uscita in sala dell’attesissimo Il risveglio della Forza, ed ha ottenuto importanti premi e nomination. La sceneggiatura dello stesso regista presenta, infatti, una struttura in cui si rivela fondamentale l’alternanza di fasi ben legate ma distinte dal punto di vista del genere di riferimento: si passa dall’indagine modello CSI ai momenti di svago umoristico e satira sociale che allentano la tensione emotiva quanto basta, dalle vicende giudiziarie al dramma delle vittime, trattate con delicatezza ed estremo rispetto e non spettacolarizzate. A fare da contrappunto sentimentale a questa struttura ad incastri ci pensano le vicende amorose del neuropatologo con Prema [Gugu Mbatha-Raw], una ragazza appena immigrata, che rappresenta per lui un sostegno e allo stesso tempo il simulacro di sé stesso ai primi passi in America e, quindi, un contrasto netto con la possibilità di scontrarsi contro un muro di omertà e di dover andare contro colleghi che si definiscono «meccanici che lavorano per mantenere l’auto in pista» e contro la necessità di una realizzazione professionale che non calpesti il giuramento d’Ippocrate, accettando situazioni di comodo avvolte nel silenzio.
Come nel mito di Prometeo, la conoscenza portata al comune mortale dal dr. Omalu arreca sofferenze per primo a lui che, già immigrato in continua lotta per un’integrazione difficile, insegue il sogno americano. Così, sebbene si tratti di una scoperta capace di cambiare le sorti di coloro che hanno scelto il football non solo come passione, ma come mestiere, i provvedimenti sembrano non giungere mai a conclusioni definitive, come del resto la trama stessa del film, che si schiera ma non conclude, che accusa ma poi giustifica e perdona cristianamente le vittime e mediaticamente i carnefici inconsapevoli (?), sentenziando che il football è un gioco di una violenza irragionevole «ma è anche Shakespeare».
«Perdonateli. Perdonate voi stessi».
A margine due note stonate.
Una musica di commento forse poco ispirata o volutamente poco incisiva di James Newton Howard, nonostante l’importanza che il protagonista fornisce alla musica classica ascoltandola sempre durante le autopsie.
Infine, il titolo originale del film, Concussion (letteralmente: commozione cerebrale), non è stato utilizzato dalla distribuzione italiana. Viceversa, il suo impiego sarebbe stato probabilmente meno anacronistico, meno vago e, soprattutto, più significativo, favorendo un’auspicabile maggior diffusione di termini anglofoni in un’epoca in cui internet è davvero alla portata di tutti!
Berlinale 65 – Cinderella, di Kenneth Branagh
Sei metri di velo colore del cielo, un paio di scarpette di cristallo, e il sogno diventa realtà nella meravigliosa cornice di un castello incantato in cui le principesse più belle del mondo volteggiano nei loro abiti variopinti. Cinderella è di una bellezza ipnotica e, non appena fa il suo ingresso a palazzo, gli occhi di tutte le fanciulle del regno e dei loro cavalieri sono puntati su di lei, compresi quelli del principe, che da una vita aspettava di incontrare la donna della sua vita. Un solo sguardo basta a riconoscersi l’uno nell’altra, ma a mezzanotte l’incantesimo si spezza e tutto ciò che rimane di quel fantastico sogno è una scarpetta di cristallo nelle mani di un principe disperato e una ragazza vestita di stracci nelle grinfie di una matrigna crudele. La fantasia di una notte di infrange violentemente sulla realtà, come la carrozza d’oro massiccio che si riduce a una zucca frantumata sul ciglio della strada, ma qui la fiaba resta intatta in tutta la sua magia e indossa una veste ancora più grandiosa dell’originale, tempestata di una miriade di preziosi dettagli che disegnano i personaggi e i luoghi in cui si muovono con un’eleganza mai sfiorata prima d’ora. I colori inondano lo sguardo con i loro toni saturati, e le stoffe preziose si accavallano sui fondali damascati e ridondanti di oro dei palazzi, mentre le tonalità pastello si amalgamano con i colori della natura, marcando la distanza universale tra fasullo e autentico, tra bellezza posticcia e dono innato. Questo trionfo di contrasti è una festa per gli occhi, un incanto impresso su pellicola, ma allo stesso tempo ha il potere di rendere la visione reale con dei personaggi meno ingenui rispetto al passato e fortificati da una sofferenza tangibile, che giustifica le loro azioni, empie o sublimi che siano.
Cinderella prende vita e si svincola dal ruolo di eterna sottomessa in cui l’immaginario fantastico l’ha relegata sin dalla sua nascita, per dare contorni più definiti ad una personalità plasmata nel coraggio e nella gentilezza dai suoi veri genitori, che per la prima volta entrano in scena per mostrare al mondo l’antefatto della tragedia e la loro vita felice nella cornice fiabesca della loro casa. Prima di Cinderella c’è la piccola Ella, che parla agli animali e mostra gentilezza verso tutte le creature che animano il suo giardino, che si lascia l’infanzia alle spalle con la perdita improvvisa dell’adorata madre e il secondo matrimonio del padre con un’affascinante vedova. “Abbi coraggio, e sii gentile perché questo è il tuo potere più grande, non dimenticarlo mai”, le diceva sempre sua madre, e queste parole continuano a rimbombarle nella testa per tutta la sua vita, ogni qualvolta la sua dignità viene calpestata dalle due sorellastre ingorde di attenzioni o dalla matrigna invidiosa della sua straordinaria bellezza e dell’amore incondizionato di suo padre. Ma il coraggio non basta e la gentilezza è impossibile da sostenere quando i soprusi superano ogni limite, frantumano i sogni e annullano l’ego, ed è allora che l’unica speranza di sopravvivenza vive nella magia, nell’intervento inaspettato di una fata madrina, che con un tocco di bacchetta magica trasforma il brutto in bello e, almeno per una notte, ristabilisce l’ordine delle cose ricompensando Cinderella con un ballo indimenticabile tra le braccia del suo principe.
Kenneth Branagh con il suo tocco magico porta indietro le lancette dell’orologio all’epoca spensierata in cui si credeva ancora alle favole e, senza lasciarsi mai andare ai quadretti sdolcinati e a inutili orpelli fantastici, rende i suoi personaggi vivi sulla scena, ironici e arroganti all’occorrenza. Così mentre Cinderella si sforza di essere coraggiosa e gentile ad ogni costo, la fata madrina porta nella sua vita la leggerezza che le manca, la frivolezza della bellezza esteriore condita con una deliziosa patina di umorismo British, che allevia immediatamente i dolori del passato al fianco di una matrigna crudele ma irrimediabilmente affascinante, che domina la scena con i suoi costumi grandiosi e la sua cattiveria sottile. La cura per i dettagli e i giochi di parole caratterizzano questo adattamento Branagh che, solo per una manciata di ore come la sua eterea eroina, sembra essere tornato indietro alla magia di un cinema in costume profondamente radicato nella letteratura shakespeariana, in cui ogni personaggio era perfettamente inscritto nel suo ruolo per linguaggio e apparenza, e da qui traeva lo straordinario potere di attirare gli spettatori in una dimensione surreale, al di là del tempo e dello spazio, in cui tutto era possibile, anche entrare nei propri sogni.