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Baikonur, Terra, di Andrea Sorini

Là dove la scienza e la religione si assistono vicendevolmente, là dove il mondo lo si vede, o meglio lo si immagina, solo dallo spazio, là dove si sta da sessant’anni con il naso all’insù per assistere allo spettacolo delle missioni spaziali. Là si è spinto Andrea Sorini per raccontare un luogo mai raccontato, mai mostrato, eppure fondamentale nella storia del mondo.

Siamo a Baikonur, base spaziale russa, nel cuore del Kazakistan, da dove nel 1957 è partito il primo Sputnik e pochi anni dopo la leggendaria missione di Jurij Gagarin, il primo uomo a volare nello spazio, fino a che nel 1963, è stata la volta della prima donna, Valentina Tereškova. Mezzo secolo di esplorazione dello spazio e grandi traguardi scientifici, eppure il cosmodromo di Baikonur è sempre rimasto segreto al mondo, quasi una dimensione parallela in cui solo i cosmonauti possono accedere, dove tutto gira solo in funzione delle missioni spaziali, persino la scuola e la religione.

Ma non è sempre stato così. Nei secoli passati il deserto del Kazakistan era solcato da carovanieri e mercanti, ma nessuno vi si fermava mai perché lì, in quel luogo infertile e impastato nella polvere, nessuno era abbastanza folle da fondare una città. Poi nel 1953 i russi si sono resi conto che quel fazzoletto di terra brulla, se pur lontano dall’umanità, era a un passo dall’universo, e lì hanno deciso di costruire la loro cattedrale nel deserto, il cosmodromo più famoso al mondo, sopravvissuto alla alla Guerra fredda, e votato alla corsa allo spazio.

In questo luogo surreale, dove il silenzio è più assordante dei razzi pronti al decollo, Andrea Sorini ha portato i suoi occhi e quelli del mondo, aprendo una porta rimasta chiusa per troppo tempo. Senza fare rumore, Sorini è entrato discretamente nella dimensione sconosciuta di Baikonur, ne ha fotografato più che filmato i contorni, come un’esploratore catapultato lì da un misterioso Stargate, destinato a lasciare la sua impronta su questa terra e nella memoria degli spettatori, come il primo uomo che ha sfiorato la superficie della luna.

Aliens 30° Anniversario, di Mark Verheiden e Mark A. Nelson

SaldaPress cavalca il rinnovato interesse del pubblico per la saga di Alien e degli xenomorfi con un ampio ventaglio di fumetti abbastanza liberamente ispirati alle vicende narrate per immagini in movimento da Ridley Scott & company:

Aliens : la serie regina in cui vari disegnatori si alternano per schizzare di terrore visionario le storie sempre scritte da Brian Wood;

Fire & Stone : in contemporanea con l’arrivo nei cinema del film Alien: Covenant, una serie-evento in 5 volumi, che coinvolge in un’unica emozionante storia tutte le properties legate all’Alien Universe: Xenomorfi, Ingegneri, Predators:

  1. Prometheus Fire & Stone,
  2. Aliens Fire & Stone
  3. Predator Fire & Stone,
  4. Alien vs. Predator Fire & Stone,
  5. Prometheus: Omega Fire & Stone

Ma è su un prodotto celebrativo che vogliamo porre maggiore attenzione in questa occasione:

 

ALIENS

30° anniversario

 

Si tratta di un volume celebrativo, unico non solo perché presenta una storia autoconclusiva, la raccolta completa della prima miniserie Aliens, ma anche per alcune peculiarità editoriali che lo rendono apprezzabile al 100% solo nella sua forma cartacea: un’accattivante copertina nera lucida su cui campeggia ovviamente il vero protagonista, lo xenomorfo, apprezzabile anche a livello tattile grazie ad una texture in rilievo dello xenomorfo sul granitico cartonato nero, e a perfezionare il tutto il bordo esterno delle pagine rigorosamente nero, una finezza per veri intenditori, in conformità con l’edizione originale americana.

Il disegno di Aliens 30° anniversario è ovviamente un po’ retro, e non poteva essere altrimenti vista la data della prima pubblicazione Dark Horse che risale al 1988, in occasione della realizzazione del terzo film.

«Verso la fine del 1987, ero al telefono con Mike e, a un certo punto, lui sganciò la bomba che la Dark Horse avrebbe realizzato i fumetti di Aliens. Non si trattava di un adattamento del film, ma di nuove storie derivate dal secondo film. E serviva uno sceneggiatore». Chi pronuncia queste parole è proprio Mark Verheiden lo sceneggiatore-produttore che ha dato vita ai mondi di The Mask, Timecop, Battlestar Galactica, Falling Skies e Daredevil, ora alle prese con la serie tv che dovrebbe risarcire il pubblico dalla deludente trasposizione cinematografica de La Torre Nera.

«Adoravo Aliens! – prosegue Verheiden – Il primo Alien era stato superbo, un film horror dalla vena stupendamente dark. L’Aliens di James Cameron, però, aveva l’azione, l’horror e la passione messi tutti insieme all’interno di un prodotto spettacolare. Poter lavorare con un universo tanto mitico senza le limitazioni dettate dal budget era la realizzazione di un sogno. E, quando Mark Nelson fu scelto per disegnare il progetto, ogni pezzo del puzzle andò al suo posto. Mark realizzava i disegni in bianco e nero utilizzando l’ormai introvabile carta a reazione chimica Duoshade: l’abilità stava nel far emergere dal cartoncino i retini incorporati, stendendo con il pennello un apposito reagente.

I disegni di Mark erano straordinari, incredibilmente dettagliati e carichi di atmosfera. Perciò, quando decisi di evidenziare l’aspetto horror del mondo di Alien, sapevo che lui era la persona giusta e che non avrebbe tradito le mie aspettative. E già che è il momento dei complimenti, tanto di cappello a Willie Schubert, letterista infaticabile; Willie ha fatto un lavoro superlativo con tutte le narrazioni in prima persona che si incrociano nella storia
».

Un bianco e nero fortemente contrastato e una cura massima del dettagli nei momenti cruciali di contatto fra umani e xenomorfi sono i punti forti del fumetto. I testi, molto ben curati, senza mai scadere nel banale, suscitano emozioni che vengono costantemente dinamizzate da un montaggio eccentrico delle vignette.

Una nutrita appendice grafica di eccezionale pregio presenta tavole a tutta pagina che svolgono la funzione di visual credits: tutti i realizzatori dell’opera sono disegnati nei panni di vittime nella catena alimentare degli xenomorfi.

La storia, sebbene oggi possa apparire un po’ inflazionata, è in linea con gli standard dell’epoca: un buon numero di scene di terrore puro, innestate in un mood di estremo delirio, sospeso fra incubi e realtà e tipico di personalità dissociate per via delle conseguenze di un’aggressione mostruosamente aliena: se il mostro non ti divora dall’esterno, sarà la paura di rincontrarlo a divorarti dall’interno!

Per quanto riguarda i personaggi, invece, gli autori hanno dovuto combattere con assenze pesanti e limitazioni che hanno reso il loro lavoro non solo più arduo ma anche frustrante perché questo volume unico risulterà sempre slegato dalla linea narrativa che la saga cinematografica ha intrapreso successivamente. Nella prefazione Verheiden lo spiega chiaramente:

«Quando venne il momento di definire la trama, ricordo di aver ricevuto ben poche direttive. Una era “vogliamo vedere le creature aliene sulla Terra.” Due: nel fumetto devono essere presenti i personaggi di Newt e Hicks”. La terza fu l’unica dettata da motivazioni legate all’aspetto commerciale: non potevamo usare il personaggio di Ripley (divieto che fu revocato in occasione della terza serie Aliens: Earth War).

Era il momento di creare la storia. Volevo esplorare un futuro high-tech e distopico insieme, dove religione, affari e tecnologia entravano in conflitto con le creature aliene, con i nostri disgraziati personaggi che ci finivano in mezzo. Non ci voleva molto a immaginare che le esperienze di Newt con gli xenomorfi su LV-426 avessero lasciato segni profondi nella sua mente o che Hicks, con metà faccia bruciata dall’acido, fosse evitato dai suoi commilitoni come un paria. Un’altra cosa che mi intrigava dei due film erano gli androidi, Ash e Bishop. Sentivo che c’era molto da scavare nell’esistenza di una vita artificiale senziente.

A parte questo, dovevo muovermi con grande attenzione nel fare ipotesi su alcuni aspetti su cui poggia la mitologia del film Aliens. Per esempio sulla vera identità dello “space jockey”. Ho analizzato sia il film che gli scatti del set, ma non avrei mai immaginato che la “faccia” elefantiaca della creatura fosse, come si vede nel film Prometheus del 2012, una maschera d’ossigeno per un pilota umanoide. L’unica analogia tra i miei “space jockey” alieni e gli Ingegneri umanoidi di Prometheus è che entrambi ce l’hanno a morte con gli xenomorfi. Be’, almeno su quello ci siamo trovati.

L’altra ipotesi che facemmo tutti fu che Newt e Hicks fossero sopravvissuti al post-Aliens, ma i titoli di testa di Alien3 mi tolsero rapidamente ogni illusione in proposito. Mi hanno chiesto in molti come mi è sembrato Alien3 e, a essere sinceri, sono combattuto. Perdere Newt e Hicks nella sequenza di apertura del film è stato un vero e proprio schiaffo ai fan che si erano affezionati a quei personaggi. Però, d’altra parte, dopo aver lavorato un po’ nel cinema e nella televisione, mi sento quasi di ammirare l’audacia del film nel provocare “l’attesa dell’inatteso”. Ma, in ogni caso, ammetto che mi ha egoisticamente infastidito che, con Alien3, le mie storie non rientrassero più nel canone ufficiale».

Aliens 30° anniversario è arricchito dai bozzetti, le cover e i frontespizi messi a punto per la prima edizione, da prefazione e postfazione entrambe molto appassionate e dalla storia breve Aliens: Fortunato, tutti elementi succulenti da aggiungere alle già decantate tavole in appendice e texture di copertina, che sono già di per sé lo spettacolo per cui val la pena di pagare il prezzo del “biglietto”. Chi sceglierà una versione digitale sa ora cosa si perde! Al vero fan poco importa se il prodotto non è d’avanguardia. In fondo Alien ci piace così: un’avventura horror sci-fi con quel suo gusto vintage inconfondibile e… rassicurante, mi si passi il termine per esprimere l’abitudine spettatoriale dei più nostalgici, mentre per tutto il resto del pubblico permane l’eco impossibile di quelle affascinanti urla di terrore dissipate nello spazio profondo.

«I personaggi che amate ci sono, lo spirito, il tono e la struttura del mondo anche. Le differenze sono abbastanza sottili da tenervi sulle spine permettendovi di godervi questa corsa sulle montagne russe proprio come la prima volta che avete avuto il coraggio di entrare nel labirinto […] E adesso vi invito a entrate nel nostro parco giochi verso nuove avventure, nuove prospettive, nuove interpretazioni, nuovi sviluppi e svolte impreviste. Familiari ma allo stesso tempo diverse. Venite, e godetevi la corsa».

Passengers, di Morten Tyldum

Passengers è un sofisticato catastrophic movie in cui si nasconde un storia d’amore o è un film sentimentale che usa come MacGuffin i tentativi di salvare una nave spaziale in avaria? Ognuno percepirà in maniera differente il piatto della bilancia che si sposta dall’una o dall’altra parte, ma il fatto è che il regista, Morten Tyldum, non è nuovo all’ibridazione dei generi, tra l’altro con esito estremamente positivo, vista la candidatura agli Oscar® con The imitation game, il biopic sul matematico inglese Alan Turing, che spazia dallo spionaggio alla riflessione sull’identità di gender.

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Durante un viaggio lungo 120 anni verso il pianeta Homestead II, sull’astronave-arca Avalon, Jim Preston [Chris Pratt, I Guardiani della Galassia, Jurassic World] si sveglia dall’ibernazione, ma è troppo presto, 90 anni prima del previsto, per la precisione, e senza alcuna possibilità apparente di soluzione: tutti gli altri si sveglieranno a 4 mesi dall’arrivo a destinazione, perciò niente equipaggio, pilota automatico e qualche intelligenza artificiale a provvedere alle necessità di routine!
A causa di un malfunzionamento al sistema della sua capsula, insomma, Jim si trova a dover vivere da solo su di una nave, lussuosa e «a prova di guasto» come il Titanic. Il destino sembra prendersi gioco delle speranze del ragazzo della classe operaia, partito per «costruire un nuovo mondo» con le sue competenze da meccanico e catapultato suo malgrado in una situazione ben sopra le sue capacità. Ma prima che il problema dell’Avalon risulti evidente ai suoi occhi, c’è un problema che gli risulta più importante al momento: deve svegliare o no la «bella addormentata» Aurora Lane [Jennifer Lawrence, Hungers games, X-Men] e “condannarla” a condividere la sua sfortuna?

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Un nome calzante, Aurora, una citazione forse anche troppo esplicita della protagonista della fiaba di Charles Perrault, ma non è l’unica e più avanti avremo modo di parlare dei riferimenti che il film semina all’interno della trama e delle scene. La ragazza rappresenta la prima svolta degna di nota della trama: la ragazza è una passeggera di prima classe (come la Rose interpretata da Kate Winslet), una scrittrice di New York che ambisce al premio Pulitzer e, per questo motivo, ha un biglietto di andata e ritorno per portare su una Terra, più vecchia di almeno 240 anni, la storia sensazionale della «più grande migrazione di massa della storia umana».
Entrambi i protagonisti hanno i loro obiettivi primari, in netto contrasto, ma il vero problema che sono chiamati a risolvere con urgenza è il guasto alla nave, un mistero che mette a repentaglio la vita di tutti i passeggeri. Non c’è tempo per egoistici traguardi, è tempo di “salvare la baracca”.

«Siamo prigionieri su una nave che affonda»

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La sceneggiatura di Jon Spaihts [Doctor Strange, Prometheus] è stata annoverata nella “black list” delle migliori sceneggiature non prodotte nel 2007. «Una delle cose che mi ha attratto di questo script è stato il modo in cui Jon ha collocato una storia intima all’interno di un grande scenario – dichiara il produttore Neal H. Moritz [Piccoli brividi, Fast & Furious 8] – è un film d’azione con una spettacolarità epica».

Chris Pratt è molto ben calato nella parte, si vede che ha dimestichezza, ormai, con il genere ed il green screen, dopo aver interpretato Star-Lord ne I Guardiani della Galassia. Pratt risulta molto espressivo mentre è in navigazione solitaria, un po’ meno incisivo quando deve interagire con il resto del cast, ma pur sempre credibile. Chi invece appare un po’ stretta nella parte è Jennifer Lawrence, che però riesce, nei momenti drammatici e adrenalinici, a ricavare lo spazio necessario perché il pubblico possa rivivere, seppur in parte, la forza e l’emozione dei personaggi che l’hanno resa celebre.

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Una menzione particolare va a Michael Sheen [Frost/Nixon, Via dalla pazza folla]. L’attore, grazie agli straordinari effetti speciali, interpreta l’androide Arthur, il barista di bordo, unica “presenza” fisica sulla nave per Jim fino al risveglio di Aurora. Il regista ne ha giustamente tessuto le lodi: «Michael ha dovuto apportargli umanità, e, allo stesso tempo, doveva emergere il fatto che nella parte inferiore è una macchina, senza farne un cliché»

«Sai tenere un segreto?»
«Non sono solo un barman, sono un gentiluomo!»

Il personaggio di Arthur richiama, insieme al bar stile retro in cui lavora, l’atmosfera dell’Overlook Hotel dello Shining di Kubrick, con tanto di discorsi al limite del paradosso con Jim, novello Jack Torrance, che dimostra scientificamente all’intelligenza artificiale la sua esistenza a bordo attraverso un ragionamento per assurdo [«Non è possibile che lei sia qui»] oppure con il robot che dispensa consigli [«Per un po’ si goda la vita»] e massime filosofiche. Una citazione che si va ad aggiungere a quella de La bella addormentata nel bosco e al riferimento principe della trama: il Titanic di James Cameron. Crea, in questo contesto, una certa indignazione il fatto che questi riferimenti non vengano mai citati in nessuna intervista, pressbook o articoli riguardanti Passengers.

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Parlando della realizzazione della gigantesca astronave Avalon, il regista Tyldum ci tiene a far notare che «guardando al futuro, hanno creato una navicella spaziale con un design molto particolare che utilizza la forza centrifuga tramite la rotazione di pale, per creare forza di gravità, e contiene robot, ologrammi, e altre tecnologie d’avanguardia» con un design generale che lui stesso definisce “nostalgico”, ispirato all’Art Déco, alla Hollywood classica de Il grande Gatsby e alle uniformi della seconda guerra mondiale. «Il passato è con noi – prosegue Tyldum – il passato ci ispira e volevo che apparisse nel film. Allo stesso tempo, ha dei robot, è una nave intelligente, ha degli schermi, e ha Artificial Intelligence. La combinazione di tutto ciò, su un piano puramente estetico e visivo, credo sia unico». Ecco, magari, proprio unico no, se addirittura Jim dice «Ti fidi di me?» ad Aurora, nella loro passeggiata mozzafiato sull’orlo di una nave di lusso che attraversa l’universo, come una qualsiasi coppia che si diverta ad emulare la scena cult di Jack e Rose sulla prua del transatlantico.
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Rendere evidente il riferimento allargherebbe maggiormente il target di Passengers alla fetta di pubblico femminile che, di solito, non apprezza le avventure spaziali catastrofiche, storicamente destinate più che altro ai gusti maschili.

Questo mancato tributo non getta di certo alle ortiche il film intero, che risulta piacevole ed avvincente, nonché spettacolare con CGI non troppo invadente. Unico problema è la flebile paura per la sopravvivenza dei protagonisti: i pericoli vengono affrontati in maniera troppo sbrigativa, eccezion fatta per la magistrale scena in piscina, forse per non distogliere dalle vicende sentimentali e mantenere un equilibrio da cinema classico, cosa che un cinefilo integralista etichetterebbe come una anacronistica mancanza di coraggio nelle scelte. Volenti o nolenti, questa non scelta rende Passengers un film per tutti.

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Jim: «Va’ a farti fottere!»
Computer: «Al tuo servizio»

Una crew d’eccezione per un blockbuster che promette spettacolo e sentimento: la colonna sonora è affidata a Thomas Newman [tredici candidature agli Oscar®, tra cui Spectre e Alla ricerca di Dory]; il direttore della fotografia è l’affidabile Rodrigo Prieto di Argo e The Wolf of Wall Street, forte di una Arri Alexa 65 equipaggiata con lenti Panavision Primo 70; le scenografie, poi, sono affidate a Guy Hendrix Dyas [Inception, I fratelli Grimm e l’incantevole strega]; inoltre, a fornire credibilità ulteriore a tute spaziali e a valorizzare il corpo della Lawrence in vestiti e costumi da bagno all’avanguardia è la costumista preferita di Alfonso Cuarón, Jani Temime [Gravity, I figli degli uomini, Harry Potter]; infine, il delicato settore dell’editing è affidato a MaryAnn Brandon [Star Wars: Episode VII – Il Risveglio Della Forza] che ha avuto il suo bel da fare a montare le scene girate in ottobre per sistemare all’ultimo ciò che non funzionava egregiamente.
Memorabile la performance di Andy Garcia!

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