spettacolo

Ben-Hur, di Timur Bekmambetov

Ben-Hur, diretto da Timur Bekmambetov, regista di Wanted, I guardiani della notte, I guardiani del giorno, ma soprattutto del gigionesco Abraham Lincoln: Vampire Hunter, nonché produttore di successi come 9 di Shane Acker o Hardcore! primo film 3D completamente in soggettiva, è un film che mantiene le promesse di spettacolarità per quanto riguarda le scene epiche della battaglia navale e della corsa mozzafiato delle quadrighe (essendo palesemente a quattro cavalli non è il caso di chiamarle bighe), ma che delude sotto l’aspetto drammaturgico, come se la sceneggiatura non fosse che un mero espediente per collegare i due momenti di maggior dispendio di energie creative, tecniche ed economiche.

La pellicola è il quinto adattamento cinematografico di Ben-Hur: A Tale of the Christ, romanzo scritto da Lew Wallace nel 1880, la cui trasposizione più celebre è il film del 1959, diretto da William Wyler con protagonista Charlton Heston, che si è aggiudicato 11 Oscar nella 32ª edizione, record eguagliato ma mai battuto. Il confronto risulta impari se, a maggior ragione, si mette in relazione il bilancio: se il kolossal di Wyler costò 15 milioni di dollari e, in proporzione all’inflazione e al prezzo dei biglietti all’epoca, ne incassò già solo in U.S.A. circa $720 300 000, questa trasposizione di Bekmambetov dovrebbe stregare i cuori degli spettatori fino all’inverosimile per recuperare già solo il budget che è stato di 100 milioni di dollari, largamente utilizzato per le scene in CGI, quelle girate ai Sassi di Matera e per le fedeli ricostruzioni scenografiche negli studi di Cinecittà.

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Gerusalemme. I secolo. Il nobile giudeo Giuda Ben-Hur e l’orfano romano Messala crescono insieme amici per la pelle prima che come fratelli adottivi. Quando Messala, divenuto comandante delle legioni romane, torna in città per scortare il prefetto Ponzio Pilato, i due fratellastri entrano in contrasto circa le rivolte locali. Così, durante la parata di benvenuto, un ribelle, ospitato con benevolenza in casa di Ben-Hur, coglie l’occasione per uccidere il governatore romano. Il tentativo fallisce ma Messala è costretto dalle circostanze a prendere provvedimenti, condannando la madre e l’amata sorella alla crocifissione e Giuda Ben-Hur alla deportazione come schiavo su di una galea. Ma non tutto è perduto…

«La mia famiglia era una delle più rispettate di Gerusalemme poi siamo stati traditi dal mio stesso fratello».

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Perdono o vendetta?

«Tutti abbiamo una scelta».

Tra questi due sentimenti oscilla la pendola del protagonista, mentre la sua vita s’intreccia con quella di un illustre contemporaneo, Gesù, con il quale s’innesca una serie di parallelismi più o meno velati che comunicano una volontà, purtroppo rimasta in embrione, di fornire una lettura tipologico-allegorica delle vicende narrate filmicamente.

«Abbiamo un’altra possibilità. Usala per provare odio e sarai di nuovo schiavo», afferma con severità Esther, amata sposa di Ben-Hur, facendo suoi gli insegnamenti cristiani, ma lo sceicco Ilderim, interpretato dal premio Oscar® Morgan Freeman [Million dollar baby], fornisce all’uomo, assetato di vendetta, l’occasione migliore per uno scontro all’ultimo sangue, forti del fatto che «nell’arena non ci sono leggi».

«Ricorda, Giuda Ben-Hur: primo a finire, ultimo a morire».

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«Se tuo fratello è l’orgoglio di Roma, sconfiggilo e avrai sconfitto un impero!».

Per quanto encomiabile possa risultare il messaggio finale, l’impressione è che si sia svolta una semplificazione estrema nella costruzione delle emozioni primarie dei protagonisti con conseguente riduzione di tono nello scioglimento finale di quello che, a detta dello stesso regista, è la storia di un eroe tragico di impianto shakespeariano. Non vengono forniti chissà quali elementi che possano cancellare anni di odio covato e sofferenze subite. Forse, per non rischiare di annoiare lo spettatore medio, i dialoghi chiarificatori sono stati ridotti all’osso, ma così facendo lo spettatore esigente non può che sentire in bocca un retrogusto amarognolo che sa di ingenuità, di paura nell’osare e di mancanza di una qualsiasi forma di autorialità.

Eppure il romanzo stesso innesca automaticamente tutta una serie di riflessioni su valori assoluti quali la giustizia e la misericordia e sui parallelismi di sofferenze e sacrifici che la fotografia rende graficamente in maniera molto sbrigativa, lasciando allo spettatore esperto il compito di risistemare i pezzi del puzzle disseminati qua e là: il cavallo bianco Aliyah – che significa “salita”, “ascensione” e “paradiso” ed esprime probabilmente l’amore puro e incondizionato, pronto al sacrificio estremo – preannuncia la sorte di Gesù, alla quale si può ricollegare un’altra inquadratura degna di menzione: Giuda Ben-Hur, interpretato dal “nipote d’arte” Jack Huston [American Hustle – L’apparenza inganna, Outlander], dopo il naufragio, galleggia esanime, in balia delle onde, al centro dell’albero della nave che, spezzato in vari punti, ha assunto l’aspetto di una croce.

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Per quanto riguarda, poi, la figura di Gesù, che ha il volto dell’attore brasiliano Rodrigo Santoro [la voce del commentatore radiofonico in Pelé è la sua e poi, qualcuno forse lo riconoscerà, è stato il Serse di 300], è molto significativo calarlo nel suo lavoro prima che nella predicazione o nei miracoli. Una scelta guidata, magari, da un bisogno di evidenziarne l’umile origine, l’appartenenza a quella classe sociale degli ultimi che vuole elevarsi spiritualmente e che costruisce il proprio destino con le proprie mani e il sudore della fronte attraverso i mestieri più semplici, dispensando sorrisi, osservazioni giuste e gesti di benevolenza, nonostante l’occupazione straniera e le vessazioni subite quotidianamente. Ma, il cinema, impietoso più che mai in questo caso, nel suo widescreen superpanoramico, consegna al pubblico lo sguardo di un attore che “non buca”, non cattura perché non ha il carisma necessario. Un vero peccato, perché magari non serviva un altro attore, solo un po’ di “mestiere” e qualche piano ravvicinato in più, che non avrebbe di certo tolto visibilità né alla tanto attesa corsa delle quadrighe né tantomeno allo spettacolo grossolano del 3D.

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Tra gli altri interpreti, Toby Kebbell è Messala Severus [un veterano ormai di film in costume dopo Prince of Persia, La furia dei titani, L’apprendista stregone, ma noto anche in qualità di doppiatore di blockbuster in CGI come Apes Revolution – Il pianeta delle scimmie e Warcraft – L’inizio dove dà voce a Durotan e Antonidas]. Tanto fumo ma poco arrosto, come il resto del film.

Una piacevole scoperta risulta, invece, Nazanin Boniadi che dà il volto a Esther [Iron Man e qualche apparizione in serie TV come Homeland, CSI – Scena del crimine e How I met your mother].

Chiamato a recitare il piccolo ma fondamentale ruolo di Ponzio Pilato, non delude Pilou Asbæk [Stille hjerte, R], che tutti conoscono come il Greyjoy di Game of Thrones – Trono di spade.

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Musica del nostro Marco Beltrami.

Per concludere, il Ben-Hur di Bekmambetov è sì spettacolare e mozzafiato, ma la profondità della storia non è stata raggiunta. Il cinema d’autore, vera e propria arte, è qualcosa che deve andare ben oltre il mero intrattenimento.

Now you see me 2, di Jon M. Chu

«Mi sentite, Cavalieri? Avrete presto quello che vi spetta, ma nel modo che non vi aspettate!».

Un anno dopo aver ingannato l’FBI e aver guadagnato l’adulazione del pubblico con i loro spettacoli di magia in stile Robin Hood, I Quattro Cavalieri ritornano a calcare le scene con una nuova performance, che ha come obiettivo primario rendere pubbliche le pratiche non etiche di un magnate della tecnologia. Ma qualcosa non va per il verso giusto. Qualcuno si intromette e manda all’aria i loro piani svelando alcuni loro segreti. Lo stesso Dylan Rhodes [Mark Ruffalo] viene braccato dall’FBI e costretto a separarsi dagli altri. Atlas [Jesse Eisenberg], Merritt [Woody Harrelson], Jack [Dave Franco] e Lula [Lizzy Caplan] si ritrovano in un batter d’occhio in Cina, a Macau, come se avessero usato il teletrasporto. L’uomo che si cela dietro la loro fuga fallita e il viaggio inaspettato non è altro che Walter Mabry [Daniel Radcliffe], un altro prodigio della tecnologia, narcisista e psicopatico, che vuole costringere i Cavalieri a mettere in atto una rapina quasi impossibile: rubare un chip che permette di decriptare qualsiasi codice di accesso, rendendo disponibile qualsiasi tipo di informazione con lo scopo di condizionare i mercati e diventare, di fatto, al pari di una divinità in Terra. La loro unica speranza è quella di assecondare lo psicopatico ed effettuare un colpo quasi impossibile tentando di rovesciare in qualche modo la loro situazione, al fine di ripulire il loro nome e svelare contemporaneamente la vera mente che si nasconde dietro tutto questo. Chi sarà costui? E come si comporterà l’Occhio in questa situazione? Isolati e controllati a vista anche da Chase, il gemello di Merritt, i Cavalieri dovranno imparare ad agire come un unico corpo, se vorranno cavarsela, ma dovranno fare i conti con paure, ambizioni, tormenti e propositi di vendetta.

«Il più grande potere che un mago ha è nel suo pugno vuoto».

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Produttori e regista si prendono un gran rischio a cimentarsi nel sequel di un film di così grande successo come è stato il Now you see me di Louis Leterrier nel 2013. Eppure rimane il dubbio su quale dei due sia il migliore e la domanda, in realtà, diventa: si è aperto un meraviglioso ciclo di film, che possa attraversare le generazioni come ha fatto la saga di 007? Probabilmente sì. Specialmente se la collaudata struttura del format rimane inalterata, in bilico tra la action-comedy e lo spy-thriller.

Lo scrittore Ed Solomon, che ha contribuito alla scrittura del primo film, ha collaborato alla nuova storia con Peter Chiarelli riuscendo a catturare lo spirito dell’originale, ad incorporare più illusionismo, intrigo e azione e ad inserire il tutto in un contesto internazionale, partendo dall’inedito presupposto di far cadere i Cavalieri vittime di un trucco magico che li lascia senza vie d’uscita. Un rovesciamento continuo di ruoli rende la sceneggiatura abbastanza ricca di sorprese anche per gli spettatori più esperti. Il resto del fascino è a vantaggio dell’illusione, intesa come arte magica e come patto di sospensione dell’incredulità, principio basilare dell’arte cinematografica. Un parallelismo che ricorda alla lontana il The Prestige di Nolan, senza averne, ovviamente, quella struttura perfetta da meccanismo da orologio svizzero.

Sullo schermo si susseguono numeri di micromagia, mentalismo, cartomagia, prestidigitazione, ipnosi, escapologia, fachirismo, perfino grandi illusioni e si ha la vivida sensazione di essere in presenza di un vero grande spettacolo di illusionismo. «È importante che il pubblico non pensi che li stiamo ingannando – afferma Chu – perché non è così. Facciamo magia sullo schermo così come la si vede, senza tagli».

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«Non ci si rende conto – spiega lo sceneggiatore Ed Solomon, – di quanto duro lavoro richieda creare qualcosa che sembri apparentemente agevole. Non sto parlando dei trucchi da illusionista, che siano piccoli, medi o grandi. Mi riferisco alla creazione dell’atmosfera magica in tutto il film, in modo che sembri tutto un unico grande trucco. Abbiamo cercato di creare la suspense dell’incredulità che nasce quando si guarda uno spettacolo di magia».

La collaborazione, anche nelle fasi di stesura del copione, di un artista del calibro di David Copperfield, anche co-produttore, e di altri suoi colleghi come Keith Barry è stata sotto questo aspetto fondamentale e i risultati si vedono. Gli attori hanno partecipato a un corso intensivo di illusionismo per affinare la loro destrezza nel far scomparire gli oggetti. Soprattutto hanno fatto molto esercizio per diventare esperti di cartomagia per una delle scene più emblematiche di Now you see me 2. Mark Ruffalo ha persino imparato a sputare il fuoco e il maestro illusionista di Woody Harrelson asserisce che «se decidesse di smettere di recitare per dedicarsi a tempo pieno all’ipnosi, dovremmo preoccuparci tutti, davvero».

Sarà stato un lavoro duro anche per Daniel Radcliffe passare dalle magie da piccolo wizard al manipolare oggetti come un vero magician, senza trucchi e inganni da green screen! La parte dell’inetto psicopatico sempre una spanna indietro agli altri, per quanto si possa dannare l’anima, sembra gli riesca naturale. Non si distingue e non caratterizza il suo personaggio in maniera memorabile e questo continua a far parlare i suoi detrattori che lo vedono ancora indissolubilmente legato al maghetto di Hogwarts. L’auspicio è che venga anche per lui un mentore che lo faccia strisciare nella neve, nel fango e nel sangue per scappare da critici voraci quanto orsi!

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Arthur Tressler: «L’inferno, a confronto, sarà un soggiorno alle terme».
Walter Mabry: «Mi avevi già convinto ad “inferno”!»

Tra morti inscenate e resurrezioni a sorpresa, lo spettatore può godere di una stupenda partita a scacchi, farcita di bei dialoghi, mai scontati e mai inutili. Da genio della tecnologia qual è, il personaggio di Radcliffe mette la scienza, la sua amata scienza, contro la magia dei paladini della giustizia, in una guerra che in realtà è tecnologia vs scienza, in quanto l’illusionismo altro non è se non un insieme di trucchi che sfruttano proprio la fisica, la meccanica, la chimica, l’idraulica, l’ottica e, non da ultima, la psicologia. Il trionfo delle scienze su palcoscenico, la vera “rivincita dei nerds”, se vogliamo.

Interessante è poi il mistero della carta dei tarocchi che appare nel momento del trucco fallito ad inizio film. Sappiamo da Now you see me che Atlas ha gli Amanti, Merritt l’Eremita, Jack la Morte e Lula la Papessa, eredità della Henley Reeves del primo film. In questo film appare una carta in mano a Dylan quando vengono i Cavalieri subiscono l’iniziale disfatta. È il Matto, ovvero la follia, la sregolatezza, ma rappresenta anche lo zero, il caos che origina il tutto, la tabula rasa che azzera e permette di ripartire per un nuovo viaggio. Cosa rappresenterà per loro questa carta? Chi si cela dietro di essa?

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Now you see me 2 è ineccepibile anche sotto l’aspetto tecnico. L’impiego della ARRI Alexa XT permette una fotografia satura, dai toni alti, che non perde definizione nei colori scuri e nei neri e che gestisce alla perfezione i bagliori e le luci della ribalta, nonché la credibilità della scena della manipolazione delle gocce d’acqua: probabilmente anche un inglese penserà che la pioggia di Londra non è mai stata così bella. La colonna sonora, curata ancora dall’ormai ambitissimo Brian Tyler [John Rambo, Iron Man 3, Truth], è una musica briosa, frizzante e adrenalinica, che mescola sapientemente il classico con il contemporaneo, come, del resto, la regia di Jon M. Chu.