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C’era una volta a… Hollywood, di Quentin Tarantino

C’era una volta…

Così cominciano le fiabe e così inizia l’avventura del nuovo lavoro di Quentin Tarantino: dal titolo. Non quello sovrimpresso nell’incipit del film, volutamente assente e significativamente collocato alla fine. Sto parlando di quello che campeggia sui poster che hanno creato l’attesa spasmodica e che richiamano un’altra epoca, l’epoca d’oro del cinema, che lui ama e che noi stessi amiamo, forse ancora di più proprio perché lui la ama così tanto e ce ne rende immancabilmente partecipi.

Ogni volta, il regista di Pulp fiction e The hateful eight ha lo straordinario potere di sospendere lo spettatore tra sogno e realtà, come un papà che, accanto al letto del bambino, inventa e rielabora, perché non ricorda o fa finta di non ricordare o semplicemente perché da grandi poteri derivano grandi responsabilità, sì, ma se hai il dono di raccontare bene forse puoi anche fare qualcosa di più: cambiare il corso della storia anche solo per il tempo di una fiaba affinché sia davvero una buona notte.

Chi legge questa recensione prima di vedere il film troverà, spero, abbastanza criptica questa introduzione. Lungi da me spoilerare la trama o addirittura il finale! Pensate che per molto tempo sul sito di wikipedia, probabilmente per proteggere il piacere della visione, è stata pubblicata una trama dotata di un finto finale! Perciò non aggiungerò niente di più, se non una piccola sinossi della trama per poi analizzare il film quel tanto che si può, senza scendere troppo nei particolari, cosa non certo facile.

Vedendo C’era una volta a… Hollywood capirete che non è tanto la fine ad essere sotto minaccia dello spoiler quanto più tutte quelle citazioni, quei riferimenti palesi o celati, quel sottotesto velato ma intriso di ammiccamenti ai cinefili che Tarantino è un maestro a disseminare anche in questo suo nono lungometraggio. Non manca niente del suo stile inconfondibile neanche stavolta. Come al solito il “collega spettatore” Quentin ha tenuto fede al suo modo estremamente ludico di far vivere l’esperienza cinematografica:

  • camei, riferimenti, citazioni e chicche per veri appassionati disseminati in una ricostruzione maniacale delle scenografie e dei costumi, senza dimenticare di inserire qualcuna delle sue fake brands;
  • il fascino per ciò che concerne la cultura pop, l’universo dei B movie, la golden age of exploitation e la filosofia grindhouse, ingredienti affini ma differenti, mescolati e shakerati, in perfetta adesione al postmodernismo, fino a smarrirne i confini distintivi e a perdere soprattutto la differenza tra verità e finzione, tra desiderio e disillusione, tra sogno plausibile e realistico e realtà dura e cruda ad iniziare dalle tanto amate locandine disegnate alle insegne al neon di una Los Angeles di fine anni Sessanta, passando per i megaposter pubblicitari, copertine di riviste come Mad magazine, i drive-in, le sale cinematografiche old style, la vita dei set al di qua e al di là della macchina da presa;
  • la simpatia nei confronti del mondo underground, del retroscena, del reietto, dell’outsider che viene finalmente illuminato dai riflettori della ribalta; spesso le scene a cui assistiamo sono momenti verosimili di vita da set: Rick si blocca durante le riprese e si fa suggerire le battute, Cliff battibecca con Bruce Lee dietro le quinte de Il calabrone verde e lo stesso palesare la presenza degli stuntmen è già di per sé una prova di questa simpatia; curiosità a margine: la presenza di Kurt Russell (lo stuntman Randy, ma anche voce narrante) e Zoë Bell (sua moglie e collega Janet) come coordinatori degli stuntman, sempre per The Green Hornet, è al tempo stesso una conferma di questa rivalsa dell’ombra e un riferimento alla filmografia del regista di Kill Bill: Russell, suppergiù con lo stesso look, aveva interpretato Stuntman Mike in Grindhouse – A prova di morte (2007) dove recitava come attrice la Bell, che in realtà lavora da sempre come controfigura, soprattutto di Uma Thurman; a tal proposito, bisogna aggiungere che Tarantino accredita loro insieme a Michael Madsen e altri come “The Gang”, praticamente i suoi attori-feticcio (proprio Zoë Bell è la regina delle presenze in 7 lungometraggi del regista). Inoltre, un altro habitué, Tim Roth, ne è accreditato come membro, anche se le sue scene sono state tagliate da questo film;
  • la consueta quantità spropositata di dialoghi e monologhi su argomenti solo apparentemente divaganti, ma che risultano coerenti con quel sottotesto intriso di cinefilia;
  • lo stallo alla messicana, o mexican standoff, che ricorre in più punti con protagonista Cliff Booth; 
  • mentre invece è assente il trunk shot, l’inquadratura da dentro il bagagliaio dell’auto, e dire che ci si arriva davvero vicinissimi al ranch! mi sa che Tarantino si è divertito a farcelo credere, questa volta, mantenendo pertanto la nostra attenzione attiva per tutto il film, salvo non si consideri la ripresa da dentro un’ambulanza, come trunk shot, del resto per Bastardi senza gloria lo si è fatto;
  • il foot fetishism, ovvero l’ossessione per i piedi, in questo caso innalzata da mero elemento ricorrente ed eccentrica firma artistica a filo conduttore nascosto e stilema vero e proprio: pensate che i piedi sono presenti nell’inquadratura in ben 36 scene, per un totale di quasi 10 minuti, senza contare che in una scena al ranch della Manson’s family c’è un tripudio di piedi, se mi passate il gioco di parole;
  • i tecnicismi, per veri intenditori, con movimenti di macchina inconsueti; l’utilizzo di dolly, crane e grandangoli; l’alternanza di vari formati di pellicola che presuppone l’utilizzo di svariati tipi di mdp, anche pezzi d’antiquariato; il montaggio tramite jump cut; lo slow motion; il ricorso al piano-sequenza e al piano nomade a sorpresa e con significati profondi;
  • la colonna sonora, ben nutrita, con 37 brani, tra cui anche uno di Charles Manson, potrebbe essere utilizzata, come al solito, per insegnare ogni funzione che può assumere la musica nell’accostamento con le immagini: si va dal semplice commento allo straniamento, dalla consonanza alla dissonanza e così via.

Il regista si diverte – è sicuramente il caso di dirlo – a far sì che tutti questi elementi occupino un’ampia porzione di film, completamente incurante delle ansiose esigenze dello show business e delle regole della comunicazione odierna con la soglia dell’attenzione ridotta ad 8 miseri secondi per l’audiovisivo (per quanto riguarda la lettura avrei già dovuto concludere qualche riga fa per sperare almeno nei fantomatici 25 lettori manzoniani!).

Ambientato nella Los Angeles del 1969, C’era una volta a… Hollywood segue le vicende di un attore in odore di declino, Rick Dalton [Leonardo Di Caprio: Revenant, Django Unchaned], e della sua inseparabile controfigura, Cliff Booth [Brad Pitt: Allied, Bastardi senza gloria]. Tra set, viaggi in macchina, flashback la trama si dipana leggiadra e si fa largo la netta sensazione che l’intero film sia un divertissement di più di 2 ore e mezza, tutt’al più un mockumentary sullo star system dell’epoca, a cavallo tra due periodi fondamentali: l’era del rassicurante cinema classico americano e la cosiddetta Nuova Hollywood, che rinnovava il processo produttivo e contaminava i generi privilegiando il realismo, decretando il successo di personaggi dal carattere complesso e di registi che erano sempre più liberi autori. Un ottimo esempio è proprio il Roman Polanski che, filmicamente parlando, abita proprio accanto a Rick Dalton in Cielo Drive: è rappresentato come l’idolo inarrivabile dell’attore protagonista – ciò lo rende simulacro di un mise-en-abyme di simulacri su cui è meglio non addentrarsi – insieme alla moglie Sharon Tate, interpretata magistralmente da Margot Robbie [Suicide Squad, Tonya], che appare sullo schermo forse meno dei piedi di Di Caprio, ma che riesce con pochi gesti misurati a trasmettere i sentimenti corretti.

Nonostante la sua presenza in scena non sia commisurata a quella dei due protagonisti, il personaggio di Margot Robbie è fondamentale. È suo il compito di far immedesimare appieno lo spettatore. Il momento in cui si giunge addirittura all’identificazione tra le due, anzi, le tre figure è la tenerissima scena in cui Sharon Tate diegetica è al cinema, scalza e con un paio di occhiali più grandi della gonna che indossa – tutto materiale fornito dalla sorella stessa della compianta attrice – a guardare la reale se stessa recitare nel film The wrecking crew (Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm), accucciata sulla poltrona, nel buio della sala, come uno spettatore qualunque, per sbirciare titubante le reazioni del pubblico al frutto delle sue fatiche artistiche.

Carica di significato anche la figura di Cliff, personificazione dell’ombra dietro l’attore. Per Rick è l’alter ego fuori dalle luci dei riflettori e della ribalta ma anche l’amico fraterno che sa consigliare e appoggiare ma anche restare al suo posto, sicuramente più costruttivo del se stesso-villain con cui litiga proprio vestito da villain attraverso lo specchio nella roulotte-camerino in una scena di eccezionale impatto.

Alla luce di tutto questo, C’era una volta a… Hollywood è un evento irrinunciabile per ogni appassionato di cinema, è la summa del processo di maturazione dell’eccentrico Quentin nel Maestro Tarantino. Non più così cinico, ironico e destabilizzante, anche se rimane la predilezione per un montaggio poliedrico e discontinuo dove si connettono spezzoni di film tra veri, falsi e ritoccati ad arte, jump cut, raccordi sugli oggetti e sei movimenti, flashback e inserti. Anche la tanto amata spettacolarizzazione della violenza, con ettolitri di sangue ad invadere lo schermo, lascia spazio all’introspezione, alla riflessione sul cinema e sullo star system. È sicuramente il suo film più personale, passionale e sentimentale pur rifuggendo il sentimentalismo in cui poteva scadere. Chissà se quando ha la sceneggiatura sapeva di mettersi a scrivere una storia per il cinema che riscriveva la storia del cinema!

La matematica annovererà questo come il 9° lungometraggio, ma il sapore che lascia dopo l’attenta analisi di ogni singolo elemento, anche quelli su cui non si può spoilerare, è che C’era una volta a… Hollywood possa tranquillamente rappresentare quello che fu 8e1/2 per Federico Fellini. Dopo The hateful eight quindi ecco il 9e1/2 di Tarantino!

Ma in mezzo ai virtuosismi, al linguaggio metacinematografico, a quel funambolico muoversi sul sottile confine tra sogno e realtà, tra passione sfrenata e malinconia latente, quello che la pellicola trasuda è il medesimo desiderio di rivalsa dei personaggi tarantiniani e così dopo tutto il giro sulla giostra dei ricordi, dopo i giochi di rimandi e citazioni, dopo la semina di quegli elementi ricorrenti e quelle firme autoriali che abbiamo imparato a trovare, il film diventa qualcos’altro: la ricostruzione arriva al momento fatidico, alla sera dell’eccidio di Cielo Drive ma… da questo punto in poi ci si rende conto che tutto ciò che ci è stato mostrato non ha il valore della divagazione – forse il McGuffin più lungo della storia del cinema – e che quell’intersecare sapientemente personaggi realmente esistiti con personaggi fittizi, il declino dietro l’angolo in contrasto con l’ascesa meritata, le ingiustizie della vita reale con le rassicuranti sceneggiature del cinema classico e delle serie tv di allora, porta ad un unico possibile punto di non ritorno, la fiabesca resa dei conti, dove la tensione, cresciuta lenta ma inesorabile per tutto il film, sfocia in un concentrato di assurda violenza – la spettacolare violenza che ci aveva lasciato più di un languorino dopo il breve assaggio al ranch-covo della Manson’s family. È l’equivalente di uno schiaffo che risveglia non, però, dal sogno bensì dalla realtà e nutre il desiderio di rivalsa attraverso un’illusione effimera che viene malinconicamente tarpata dal significativo titolo del film in sovrimpressione. Un piano nomade – espediente tecnico-linguistico già utilizzato in questo film – sottolinea l’artificiosità della storia, ricordando che certamente i sogni son desideri chiusi in fondo al cuor ma che il cinema i sogni li può rendere verosimili solo per il tempo che è concesso dalla visione e per il limitato spazio buio della sala.

C’era una volta…

Così iniziano le fiabe e così conclude Tarantino.

Skyscraper, di Rawson Marshall Thurber

Estate. Tempo di sole, spiagge, magari squali… Troppo ovvio, e la Universal figurati se non ne è a conoscenza! Quindi perché non cercare i brividi e l’adrenalina equivalenti nel nuovo film di Rawson Marshall Thurber: Skyscraper?

Will Sawyer [Dwayne “the Rock” Johnson] è un ex agente FBI che, dopo aver perso parzialmente una gamba in un negoziato con ostaggi finito malissimo, si è costruito una nuova vita: ha sposato il medico chirurgo che l’ha salvato [Neve Campbell], ha due splendidi bambini che adora e una piccola compagnia privata che si occupa di sicurezza. Il suo nuovo lavoro lo porterà a Hong Kong, nel grattacielo più alto del mondo [the Pearl], in qualità di ispettore alla sicurezza e da quel momento niente sarà più lo stesso. Quando un delinquente senza scrupoli saboterà la torre per ricattarne il proprietario, Sawyer sarà in cima alla lista dei sospetti per la polizia… perciò di chi potrà fidarsi per salvare la sua famiglia bloccata nell’edificio? Su cosa potrà fare affidamento per entrare in una trappola di acciaio e cristallo e uscirne vivo insieme a chi ama? Sul fatto che «conosce l’edificio meglio dell’architetto che lo ha progettato»? Andiamo, siamo seri. Sulla sua preparazione militare? Beh, sì, ma ancora non ci siamo. Muscoli, ragazzi, era ovvio: parliamo di the Rock!

«Il Pearl è l’edificio più alto e più sofisticato del mondo! Lei ha costruito una città verticale! Ma così facendo lo ha esposto ad ogni sfida alla sicurezza che possa venirmi in mente»

Chi bazzica il genere disaster movie, condito con un pizzico di azione di grana grossa, sa che non deve aspettarsi grandi sorprese dalla trama. Quello su cui invece il regista può lavorare è la forma che il contenuto assumerà. Nel caso di Skyscraper non si bada a spese e gli effetti speciali sono davvero mozzafiato: le vicine di poltrona sono letteralmente saltate sui sedili come gatti di fronte ad un cetriolo (ma poi si sarà scoperto perché?) quando salti, scalate e sospensioni nel vuoto le hanno sorprese, e bisogna ammettere che spesso ne avevano ben donde.

«Sono solo un po’ nervoso»

Non è Natale, come invece accade in Die Hard – Trappola di cristallo, e il personaggio di Johnson, per quanto massiccio, per quanto calzante, non ha né la spavalderia né la battuta pronta che hanno reso il John McClane di Bruce Willis qualcosa di inarrivabile. Neanche lontanamente paragonabili.

Skyscraper si vede, ma non si rivede, è un film da arena estiva a prezzo ridotto, non vale certo un biglietto intero, magari insieme alla famiglia e the Rock vincerà pure ma non convince in queste parti drammatiche, scritte più per fungere da collante fra un gesto eroico e un salto nel vuoto. Eppure qualcosa di diverso si sarebbe potuto fare, vedere per credere The foreigner, con un Jackie Chan che picchia tutti come al solito ma lo fa con un personaggio fortemente caratterizzato, distrutto nel profondo dell’animo da una vita sfortunata e costellata di lutti.

Sarebbe stato interessante parlare di risvolti filosofico-religiosi con la solita tracotanza umana, ὕβϱις (hybris) se piace nominarla in greco, di puntare a conquistare un cielo che è prerogativa esclusiva delle sole divinità. Nessuna sottotrama, nessun messaggio implicito. Nemmeno riguardo uno scimmione che volle sfidare il drago, signore del cielo…

Citazione scena finale de La signora di Shanghai (guarda un po’ che caso…) modernizzata sostituendo i famosissimi specchi con una miriade di LCD che permettono la duplicazione infinita dei personaggi e un caleidiscopio di illusioni, ma anche questa trovata, purtroppo, è esclusivamente a scopo spettacolare, priva di una qualsiasi motivazione o di una funzione che elevi la scena e con essa l’intero film.

Skyscraper è un’americanata molto spettacolare punto, girata quasi interamente a Vancouver, e costata circa 125 milioni di dollari. Gli effetti visivi del film sono curati dalla Industrial Light & Magic, utilizzando anche la tecnologia Imax per un maggior coinvolgimento nell’azione.

Oltre a Dwayne “The Rock” Johnson [Jumanji – Benvenuti nella giungla, Doom, Il Re Scorpione, Rampage – Furia animale] e Neve Campbell [Scream, Sex crimes, The company] fanno parte del cast Noah Taylor [La fabbrica di cioccolato, Predestination], Roland Møller [Land of Mine – Sotto la sabbia, Atomica bionda, L’uomo sul treno – The Commuter] e l’interessantissima attrice-modella taiwanese e australiana Hannah Quinlivan [S.M.A.R.T. Chase].

 

Maze runner – La rivelazione, di Wes Ball

Giunge a conclusione la saga cinematografica di uno dei romanzi young adult più seguiti della decade in corso. Ambientata in un futuro distopico, l’opera di James Dashner è stata adattata per il grande schermo dalla 20th Century Fox. Per mantenere una coerenza concettuale, fondamentale per la buona riuscita della trasposizione, il progetto è stato portato avanti sempre dal regista Wes Ball, che per il momento è conosciuto solo per i film della saga. Ma il soddisfacente lavoro di adattamento gli ha permesso di ricevere l’offerta di dirigere un’altra traduzione dalle pagine sfogliate alle immagini in movimento: il graphic novel Fall of Gods, un progetto crowfunding, lanciato nell’autunno del 2014 dallo studio creativo danese MOOD Visuals, che narra le gesta di un guerriero in un’epoca di guerre in cui gli dei della mitologia norrena sono scomparsi. Questo significa che non dirigerà la saga-prequel di Maze runner, già prenotata dalla Fox? è presto per dirlo.
Intanto, sicuramente, continuerà l’ormai inesorabile scempio dei titoli – per chi non lo sapesse Maze runner in origine è il titolo solo del primo volume – e di alcuni elementi importanti della trama, tradotti in maniera improbabile per venire incontro al grande pubblico: la malvagia società W.I.C.K.E.D. diventa la C.A.T.T.I.V.O. nell’edizione italiana dei romanzi, ma per fortuna il film e, con grande coraggio, il doppiaggio italiano adotta il termine W.C.K.D. molto più performante. Grazie!

Tornando al presente, Maze runner – La rivelazione [titolo originale The Death Cure] è, come dicevamo, il terzo ed ultimo capitolo della saga originaria, lungamente atteso dai fan. In seguito al grave incidente occorso al protagonista Dylan O’Brien proprio sul set, infatti, l’uscita del film, prevista dalla produzione per il 17 febbraio 2017, è stata posticipata inizialmente al 12 gennaio 2018 e poi posticipata ancora al 26 Gennaio negli Stati Uniti e al 1° Febbraio in Italia. Giusto riconoscere la tempra di O’Brien attore che, alla luce di quanto avvenuto, risulta uno dei pochissimi personaggi stoici di un panorama cinematografico infarcito di bellini sempre più pompati ma sempre meno avvezzi agli sforzi atletici e ai rischi del mestiere. Applausi!

Nel nuovo film, le vicende di Thomas [Dylan O’Brien, American assassin, Deepwater – Inferno sull’oceano] e delle altre cavie umane sopravvissute al “parco esperimenti” della WCKD riprendono da dove si erano interrotte in Maze runner – La fuga. Teresa [Kaya Scodelario, Moon, Pirati dei Caraibi- La vendetta di Salazar] aveva tradito i suoi “compagni” di viaggio per tornare al suo lavoro dietro ai microscopi e aveva permesso la cattura di molti immuni fra cui Minho [Ki Hong Lee, Wish upon, The public].

Proprio da una missione di salvataggio on the road parte il nuovo e ultimo capitolo della saga. Si tratta proprio della scena di assalto al convoglio blindato, stile western postapocalittico, che ha spedito O’Brien in ospedale e il regista, furbescamente, se la gioca subito, pronti via, tirando notevolmente su il tasso adrenalinico e spedendo subito il cuore dello spettatore al centro del nuovo gruppo di ribelli del Braccio Destro.

«Il tuo problema è che non riesci a lasciarti alle spalle qualcuno. Nemmeno quando dovresti».

Sacrificabili e cavie umane, con la loro rabbia e il loro desiderio chi di rivalsa, chi di vendetta e chi di salvezza, diventano il nuovo problema della WCKD. Thomas e gli altri Radurai intendono andare alla fonte del problema. La missione impossibile è penetrare all’interno dell’ultima città rimasta in piedi, sede dell’organizzazione, per liberare Minho e gli altri e ottenere le risposte alle loro legittime domande sull’epidemia, gli esperimenti e il presunto antidoto. Verità o bugie che siano, si celano dietro un nuovo dedalo di strade e palazzi (Blade Runner style ma senza pioggia o neve) protetti da mura altissime (stile World War Z). Nel frattempo gli Spaccati non stanno di certo a lustrarsi i denti con il nastro adesivo! E se Thomas e gli altri possono trovare una faglia nella difesa della città, quanto potranno metterci degli zombie affamati a fare altrettanto? A chi spetterà il dominio sulla Terra alla fine dei giochi?

«Vorrei potervi dire che I guai sono finiti»

L’allusione sottile alle mura di confine di Trump con il Messico ha il sapore nostalgico di quel cinema di fantascienza che sapeva narrare una storia e contemporaneamente celare un messaggio sotteso a smuovere le coscienze in maniera recondita, basti pensare a Essi vivono o La cosa di John Carpenter o ai morti viventi di Romero. Rispolverare questa vena moralistica non sarebbe male.

Dal punto di vista tecnico, invece, non si può passare sotto silenzio il lens flare sotto le luci al neon nelle scene di massa in città: se può essere visto come una scelta stilistica in un esterno giorno tenendo il riflesso della luce solare sulla lente sotto controllo, in questo specifico caso, il flare suona proprio come un errore non rilevato in fase di ripresa e camuffato in postproduzione. Male.

Tornando alla storia, il primo capitolo, Maze runner – Il labirinto, proponeva riflessioni filosofiche sul mito del buon selvaggio e sulla bestialità insita nella natura umana, sull’istinto di conservazione della specie anche a scapito di sacrifici umani, sulla crescita degli adolescenti, sulla concezione della vita come un gioco crudele, come un labirinto difficile da risolvere che rappresenta sia la fitta trama di relazioni sociali sia la complessità della mente umana. Ma tutto questo si perde, neanche gradualmente, nell’inutile seguito Maze runner – La fuga, che praticamente non fa che menare il can per l’aia, indisponendo e non poco lo spettatore.
Questa caduta nel vuoto, però, giova a Maze runner – La rivelazione che risulta ben al di sopra delle aspettative, pur presentando difetti strutturali e tecnici palesi: nessuna necessità narrativa impellente giustifica l’abnorme durata; la sceneggiatura risulta scontata per colpa dei soliti cliché che il genere young adult volenti o nolenti si porta con sé, croce e delizia a seconda dei gusti (La quinta onda, Hunger Games); a parte un paio di svolte inaspettate che, però, sono colpi bassi al patto di credibilità con lo spettatore (per non spoilerare bisogna accontentarsi di un “chi non muore si rivede”!), la trama si dipana risolvendo problemi in maniera troppo facile e banale o con stratagemmi visti e rivisti.

Maze runner – La rivelazione ha, però, il merito di concludere dignitosamente una storia che ha comunque interessato e tenuto con il fiato sospeso e che in fin dei conti si distacca dalla tipica adesione degli young adult all’archetipico nucleo narrativo del boy meets girl per privilegiare lo splendore dell’amicizia, corredata da valori come lealtà, spirito di sacrificio, altruismo, comunione d’intenti e condivisione di qualsiasi sorte. Una rivalutazione di valori che tentano di risollevare le sorti della trilogia senza, però, spingersi mai verso un’epicità formale, a cui le generazioni che rappresentano il target fondamentale sarebbero probabilmente allergiche.

Nel cast molti attori che i fan di Game of Thrones conoscono benissimo: Thomas Brodie-Sangster è Newt, Aidan Gillen interpreta il perfido Janson e la bellissima Nathalie Emmanuel, già presente nel secondo capitolo, è Harriet. A completare il cast altri volti noti: oltre al nuovo personaggio di Lawrence, che Walton Goggins interpreta magnificamente inossando uno stupendo make up che lo rende quasi irriconoscibile, i veterani Barry Pepper, Giancarlo Esposito, Patricia Clarkson e la starlet Rosa Salazar (Brenda), che sarà la protagonista di Alita – Angelo della battaglia, trasposizione del famosissimo manga diretta da Robert Rodriguez.

Jack Reacher – Punto di non ritorno, di Edward Zwick

Jack Reacher – Punto di non ritorno è un action thriller che diverte, coinvolge e sa anche commuovere, nella giusta misura. È diretto dal premio Oscar® (nel 1999 per Shakespeare in love, in qualità di produttore) Edward Zwick, regista e sceneggiatore di Blood diamond, di Vento di passioni, de L’ultimo samurai, sempre con Tom Cruise protagonista, e di quell’Attacco al potere (da non confondere con Olympus has fallen o London has fallen, che in Italia sono distribuiti con lo stesso titolo).

Dopo il Jack Reacher – La prova decisiva del 2012, scritto e diretto da un altro premio Oscar® (nel 1996 per I soliti sospetti), il Christopher McQuarrie che ha poi magistralmente diretto Cruise anche in Edge of Tomorrow – Senza domani, si tratta del secondo adattamento cinematografico di uno dei bestseller della saga poliziesca del pluripremiato Lee Child (presente in un fugace cameo).

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I romanzi di Child hanno tutti come protagonista il personaggio di Jack Reacher, un ex maggiore della polizia militare statunitense che, dopo aver lasciato l’esercito, decide di iniziare una vita da outsider, vagabondando per gli Stati Uniti, libero da vincoli e da qualsiasi condizionamento del sistema.

Un lupo solitario, dal carattere duro, con una morale inflessibile e dotato di uno spiccato senso di giustizia, Reacher corrisponde all’archetipo del cavaliere errante senza macchia e senza paura, che non cerca guai, tanto saranno i guai a cercare lui, perché è sempre pronto ad aiutare chi si trova in difficoltà e a correre in soccorso degli amici e non solo, come già successo nel primo adattamento, per poi riprendere il suo cammino senza meta al termine di ogni avventura.

«Quelli come noi non tornano mai alla vita normale».

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Jack Reacher [Tom Cruise] stavolta torna allo scoperto per aiutare il maggiore Susan Turner [Cobie Smulders, The Avengers], che ha preso il suo posto al quartier generale della 110ª unità di polizia militare in Virginia, dove ha prestato servizio lui stesso in passato con il suo stesso grado. La donna è in pericolo per aver indagato su attività illecite, legate al traffico di armi in Medio Oriente, che qualcuno non vuole vengano portate alla luce dei riflettori. A complicare la situazione già torbida di per sé, dal passato di Jack Reacher emerge un segreto che potrebbe cambiargli la vita per sempre: e se l’ex maggiore avesse una figlia?

Si dice che un uomo non possa mai essere sicuro al 100% della paternità, ma Samantha [Danika Yarosh, giovane stella emergente, coprotagonista nella miniserie Heroes Reborn] sembra avere la stessa innata predisposizione di Jack Reacher a cavarsela nelle situazioni più intricate e a non saper gestire le relazioni sociali: i due si comprendono anche se hanno un modo tutto particolare di rapportarsi con gli altri, di chiedere scusa e ringraziare. Ma basta questo a testimoniare che sono padre e figlia?

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«Non amo essere seguito!»

Il regista Edward Zwick e il direttore della fotografia, Oliver Wood, lo stesso dello spettacolare Ben-Hur del 2016 diretto da Timur Bekmambetov, forniscono alla storia, avvincente e ben congegnata, un tocco maggiormente artistico, pur mantenendosi funzionali, senza cioè alzare il tiro verso virtuosismi tecnici che sarebbero stati coperti dalla concitazione delle scene. Anche la musica di commento di Henry Jackman [Captain America: Civil War, La quinta onda] risulta quasi “invisibile”, percepita ma non memorizzabile, perché quando si hanno combattimenti così ben coreografati non si sente la necessità di inserire canzoni rock o heavy metal, la melodia “stomp” viene realizzata dalla ritmica successione dei vari effetti audio del profilmico.

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Il personaggio di Cobie Smulders offre spunti interessanti sia per i risvolti che potrebbe avere sulla sfera affettiva del protagonista sia per la potenziale alternativa, tra l’altro femminile, ai combattimenti altrimenti affidati al solo Cruise, che continua, come al solito, a sorprendere recitando anche da stuntman di se stesso, un valore aggiunto non indifferente, che eleva la saga Jack Reacher al di sopra di molte altre, tra cui l’ormai obsoleto e troppo sofisticato – nel senso dispregiativo del termine – Agente 007.

«Un grande eroe ed un perfetto stronzo» come ha raccontato la madre a Samantha? «Non sono un eroe. Sono solo un fuggitivo che non ha niente da perdere», afferma lui nell’adattamento del 2012. I prossimi capitoli della saga magari forniranno delle risposte a tal proposito, ma probabilmente Jack Reacher ha già fatto breccia nel nostro duro cuore di cinefili incalliti e ci importerà solo di chi prenderà a calci in culo la prossima volta!

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