teatro

After the End di Dennis Kelly, regia di Marco Simon Puccioni

Bunker, interno, notte. Le lamiere che foderano le pareti rendono lo spazio insonorizzato, blindato, separato dal mondo. Fuori la minaccia di un attacco terroristico, forse nucleare, che ha raso al suolo la città. Dentro Mark e Louise, al sicuro. Mark ha costruito il rifugio temendo un attacco imminente, o l’apocalisse, sapendo che un giorno sarebbe tornato utile e così è stato. L’apocalisse è arrivata. E Mark ne ha approfittato per trascinare nel suo nascondiglio anche Louise, che ha sempre amato, ma che in altre circostanze non gli avrebbe mai rivolto le sue attenzioni. Ora invece è proprio lì, a pochi centimetri da lui, prigioniera, ma vicina più che mai. Può guardarla, toccarla, condividere con lei ogni istante della giornata. Ora è nelle sue mani.

Sono insieme Mark e Louise, costretti un uno spazio angusto per un tempo indefinito, costretti a dividere lo stesso cibo e a respirare la stessa aria. L’uno sotto gli occhi nell’altro, costantemente, in uno spazio in cui l’intimità è cancellata e così i reciproci bisogni e desideri. Mark vorrebbe approfittare della presenza di Louise per iniziarla a Dungeons and Dragons, mentre Louise non vorrebbe altro che tornare alla sua vita, ai suoi amici, al mondo esterno. Per uno quella convivenza forzata è il sogno di una vita, per l’altro l’incubo peggiore. E per tutto il tempo non fanno altro che spingere ognuno nella direzione che desiderano, verso l’interno Mark, verso l’esterno Louise, esasperando al massimo la loro aspirazione, fino al punto di puntarsi un coltello alla gola.

Chi vincerà? Chi sopravviverà in questa lotta di potere? Marco Simon Puccioni nel suo adattamento del claustrofobico After the End di Dennis Kelly non cela nulla allo sguardo dello spettatore, mostrando i risvolti psicologici più oscuri della convivenza forzata di Mark e Louise, senza temere di scendere sempre più in basso, fino a toccare il fondo delle loro anime lacerate. La paura, violenza, la perversione e l’oppressione sono sulla scena, compressi nello stretto spazio di un bunker, gomito a gomito con i due protagonisti, intorpiditi dalla carenza di ossigeno e di libertà.

After the End è un’opera ruvida, indigesta, dolorosa come un coltello nello stomaco, ma allo stesso tempo coraggiosa nel suo adattamento, tanto da imprimersi nella memoria dello spettatore come un film dell’orrore ben riuscito. Manca l’aria proprio come nel bunker di Mark, ma come vittime della sindrome di Stoccolma non si può fare a meno di rimane attaccati con le unghie alla scena, fino all’ultima battuta tagliente.

Barriere, di Denzel Washington

Per il suo debutto dietro la mdp, Denzel Washington sceglie l’opera teatrale FencesBarriere di August Wilson. L’attore pluripremiato dirige se stesso in un film che è stato inserito nella lista di finalisti agli Oscar® 2017.

Ambientato negli anni Cinquanta, il film Barriere porta sul grande schermo la storia di una promessa mai mantenuta del baseball professionistico, Troy Maxson [Denzel Washington], che, per quanto avesse tutte le carte in regola per sfondare e avere il mondo ai suoi piedi, finisce per fare il netturbino.
«Ho visto solo due giocare meglio di te: Babe Ruth e Josh Gibson»

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La componente prettamente sportiva risulta quasi inesistente dal punto di vista scenico, ma rappresenta sicuramente il nucleo principale attorno a cui ruota la vita del protagonista, il big bang che ha generato quell’universo parallelo che gli ha rovinato la vita. Lo sport, insomma, diventa il MacGuffin per discutere di questioni razziali, conflitti generazionali e drammi interiori.
«Perché i bianchi guidano e i neri raccolgono soltanto?»

Tra battute ironiche sulle discriminazioni, discussioni su denaro, congetture sul futuro e strampalate storielle da vecchi ubriaconi (in questo, come nell’atmosfera fornita da scenografia e costumi, ricorda molto la vecchia sit-com Sanford and son), nel cortile di una piccola casa in una bassa periferia, va in scena la vita. Una vita interpretata da Troy come fosse una enorme partita di baseball, dove non esistono buoni o cattivi, nessun perdente, ma solo vinti e vincitori; e se l’uomo tende a giocare la sua personale sfida con il destino perdendo di vista i valori del gioco di squadra per eccellenza, la famiglia, che lui stesso, nel bene e nel male, ha contribuito a forgiare, fornendo un anti-modello che è perlopiù una presenza ingombrante, un ostacolo da superare, l’ennesima barriera.
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«You have to take the crookeds with the straights!»
[Devi saper prendere sia i lanci dritti sia quelli sporchi]

Le barriere del titolo sono sicuramente gli ostacoli che non permettono agli afroamericani di affermarsi in qualsiasi ambito sociale nel periodo in questione, ma le barriere più difficili da sormontare perché fortemente radicate nelle convinzioni di un padre di famiglia che ragiona a suo modo, magari pensando di tutelare una famiglia che, in realtà, saprebbe affermarsi benissimo anche senza la sua guida, la sua ingombrante figura. Figurativamente la barriera è rappresentata da uno steccato classico americano, una recinzione che dovrebbe isolare la famiglia Maxson dal resto del mondo, un mondo che Troy non ha mai saputo prendere per il verso giusto, forse. Inevitabile in questo contesto lo scontro generazionale e il sollevarsi di nuove palizzate.
«Non hai fatto altro che ostacolarmi per paura che fossi migliore di te»

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I sentimenti che derivano dal fallimento sono facili da intuire, ma non certo da trasmettere allo spettatore. La rabbia che bolle sotto la pelle come una pentola a pressione, la delusione cocente per il mancato successo, che ha portato ad una non accettazione di sé e, di conseguenza, di tutto ciò che intorno a sé, all’interno della recinzione che Troy vuole costruire, non è come potrebbe essere, non è come dovrebbe essere, neanche per chi ami, partner e figli.
«Hai commesso un errore. Hai “sventolato” e non hai battuto. È il primo strike. Sei nel box di battuta. È il primo strike, non farti mettere strike out!»

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Ad affiancare Denzel Washington nel ruolo di Rose Lee è Viola Davis [Suicide Squad, Prisoners], miglior attrice protagonista ai Golden Globe 2017 ed in lizza per l’Oscar®. Impressionante come riesca a rendere il climax di sicurezza e presenza scenica che il suo personaggio percorre, esternando un caleidoscopio di sentimenti impressionante e suggestivo, ma nello stesso tempo misurato. Al photofinish se la vedrà con un mostro sacro come Meryl Streep [Florence], la veterana Isabelle Huppert [Elle], l’outsider Ruth Negga [Loving], la poliedrica Natalie Portman [Jackie] e la favorita Emma Stone [La La Land]. Chi la spunterà?
«Non temo la Morte. L’ho già incontrata e mi ci sono battuto»

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Station to station, di Doug Aitken in DVD

«Station to station è un viaggio attraverso la creatività moderna», un progetto ambizioso di Doug Aitken, che è stato reso possibile dai finanziamenti di un folto gruppo di istituzioni: MoMA PS1, Carnegie Museum of Art, MCA Chicago, Walker Art Center, SITE Santa Fe, LACMA e SFMOMA e grazie alla collaborazione di SkyArteHD e Levi’s.

Negli Stati Uniti, nel 2013, un treno ha percorso le 4000 miglia che separano l’Atlantico dal Pacifico, per oltre 24 giorni, fermandosi in 10 stazioni, dove hanno avuto luogo happening artistici di notevole interesse socioculturale: arte concettuale, musica di vario genere, cinema, coreografie, performance di teatro s’incontrano lungo il percorso del treno, metafora della vita e del suo continuo cambiare, essere in movimento – tutto scorre, πάντα ῥεῖ (panta rei), come direbbe Eraclito – in un mondo sempre più social e in continua evoluzione. Il film di questo viaggio, di questi incontri, di questi eventi è raccontato attraverso 62 film di un minuto che generano un’ulteriore esperienza di condivisione creativa nello spettatore, chiamato a viaggiare anche con la propria mente attraverso suggestioni sonore e visive e stimolato ad una riflessione personale dai dialoghi filosofici dei personaggi.

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Da New York a San Francisco passando per le stazioni di Pittsburgh, Chicago, Minneapolis – St. Paul, Santa Fe – Lamy, New Mexico, Winslow, Arizona, Barstow in California, Los Angeles e Oakland, ogni città ha qualcosa da raccontare, tramandare, condividere e, nell’incontro con il viaggiatore-spettatore, contaminare generando qualcosa di nuovo, perché, in fondo, «la creatività a volte consiste nel trasformare qualcosa di familiare in qualcos’altro», l’ordinario in qualcosa di straordinario, come scrive Nolan in The prestige, e come ogni operatore cinematografico ha intenzione di fare.

Doug Aitkin riesce a coinvolgere lo spettatore se non nel processo creativo quantomeno nel viaggio dell’arte attraverso l’arte, e per l’arte, dato che tutti i proventi ottenuti sono andati a finanziare ulteriori programmi artistici “multi-museo” per tutto il 2014. Un esempio che sarebbe bello si replicasse in ogni Paese del mondo, ovunque ci sia un treno che possa portare raggiungere l’oceano, inteso come orizzonte illimitato di conoscenza.

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Tra gli artisti che prendono parte al loro film di un minuto anche il nostro Giorgio Moroder, compositore 3 volte premio Oscar per Fuga di mezzanotte, Flashdance e Top Gun, nonché autore di “The Neverending Story”, la famosissima canzone del film La storia infinita.

Il libro Station to Station, pubblicato da Delmonico Books – Prestel, presenta più di 200 immagini a colori e numerose conversazioni, che fanno da “diario di bordo” di questo magnifico treno dall’Atlantico al Pacifico.

IL DVD

 

REGIA: Doug Aitken INTERPRETI: Kenneth Anger, Olaf Breuning, Peter Coffin, Thomas Demand, Urs Fischer, Meschac Gaba, Liz Glynn, Fischli & Weiss, Fritz Haeg, Carsten Höller, Olafur Eliasson, Christian Jankowski, Aaron Koblin, Ernesto Neto, Nam June Paik, Jorge Pardo, Jack Pierson, Nicolas Provost, Stephen Shore, Rirkrit Tiravanija, and Lawrence Weiner. Musicians included Beck, The Black Monks of Mississippi, Boredoms, Jackson Browne, Cat Power, Cold Cave, The Congos, Dan Deacon, Eleanor Friedberger, The Handsome Family, Lia Ices, Kansas City Marching Cobras, Lucky Dragons, Thurston Moore, Giorgio Moroder, Nite Jewel, No Age, Patti Smith, Ariel Pink’s Haunted Graffiti, Savages (band), Mavis Staples, Suicide (band), Sun Araw, THEESatisfaction, Twin Shadow and others. Printed matter contributors included Taylor-Ruth Baldwin, Yto Barrada, Sam Durant, Karen Kilimnik, Urs Fischer, Catherine Opie, Jack Pierson, Raymond Pettibon, and Josh Smith TITOLO ORIGINALE: Station to station GENERE: documentario arte concettuale DURATA: 68′ ORIGINE: USA, 2015 LINGUE: Inglese 2.0 Dolby Digital SOTTOTITOLI: Italiano EXTRA: 10 performance/cortometraggio DISTRIBUZIONE: Wanted – CG Entertainment

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Station to station è uno dei primi prodotti targati Wanted, una nuova distribuzione che punta su voci e linguaggi rivoluzionari, che non respinge “temi scomodi”, per un cinema di ricerca e “ricercato”. Il manifesto ne espone chiaramente gli audaci intenti:

“Vogliamo proporre voci e linguaggi rivoluzionari
Affrontare argomenti scomodi
Farvi ascoltare solo chi ha davvero qualcosa da dire
Contro le logiche omologanti della legge di mercato
Chiedervi di alzare la vostra mano per il cinema che davvero volete
Nasce una nuova società di distribuzione cinematografica che parla a un pubblico sensibile e dal gusto trasversale
Pellicole raffinate, clandestine, fuori dal coro
Voci nuove, non convenzionali, a tratti rivoluzionarie
Temi senza tempo, e quindi sempre attuali”

Anastasia Plazzotta, una delle fondatrici, puntualizza il target al quale sono rivolti i prodotti Wanted: «a chi da un film si aspetta non soltanto divertimento, ma anche pensiero, stimolo, dibattito, sorpresa, approfondimento. Un cinema che non scivola via appena si accendono le luci, ma che lascia un segno nello spettatore». Niente di più vero nel caso di Station to station.

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Wilde Salomè, di Al Pacino

Wilde Salomè è il collage artistico che unisce i pezzi di una folle passione.

Salomè è la più controversa opera di Oscar Wilde: il testo, scritto in francese nel 1893 e cucito addosso all’attrice Sarah Bernhardt (che poi si rifiutò di interpretarlo a causa degli scandali che nel frattempo avevano colpito l’autore inglese, accusato di sodomia) racconta la leggenda del Re Erode (Al Pacino) e del suo folle e perverso desiderio per la giovane figliastra Salomè (Jessica Chastain) che, a sua volta, cerca di sedurre Giovanni Battista (Kevin Anderson). Entrambi non riescono a contenere i limiti traboccanti della loro folle lussuria: Erode promette di esaudire qualunque desiderio espresso dalla giovane purché danzi per lui e Salomè , dal canto suo, non se lo fa ripetere due volte e chiede la testa di Iokanaan su un piatto d’argento. Solo così, finalmente, riuscirà a baciarne le tante agognate labbra senza che il profeta si opponga alla profonda vibrazione sessuale del gesto.

Wilde Salomè

Al Pacino, interrogato sul suo nuovo esperimento, 10 anni dopo la direzione di Looking for Richard (sul Riccardo III di William Shakespeare), afferma: «Wilde Salomè è il mio tentativo di fondere l’opera teatrale e il cinema. I due linguaggi possono quasi stridere, essere in contrasto tra loro, la mia speranza è di averli amalgamati al meglio. Fare in modo che questo ibrido funzioni è stato il mio obiettivo: unire tutta la qualità fotografica del cinema a quell’essenza dell’acting che è propria del teatro».  A trovare un difetto al documentario-film dell’attore de Il padrino è proprio l’onnipresente figura del suo regista. Al pacino sceglie, infatti, di farsi seguire dalla macchina da presa in ogni momento della preparazione allo spettacolo teatrale in scena a Los Angeles e alla contemporanea realizzazione del suo film tratto dal testo di Wilde. Una follia artistica che, tuttavia, dimostra come uno dei testi più belli ma anche, forse, tra i meno conosciuti del geniale autore inglese, non possa essere affrontato e rappresentato solo come un dramma teatrale, ma neanche soltanto come un film. Al Pacino conta una percentuale di battute spropositatamente più alta rispetto a quelle pronunciate dagli altri protagonisti del documentario: il motivo? La passione.

Wilde Salomè

La passione irrazionale di Erode non solo per la sua giovane figliastra, incestuoso sentimento che risponde allea pulsioni sessuali incontenibili, ma anche, inspiegabilmente, per Giovanni Battista, di cui non riesce a decidere il futuro (nonostante la moglie Erodiade –Roxanne Hart– prema per l’uccisone) perché affascinato dal suo intimo rapporto con Dio e dalla sua bocca dispensatrice di verità indicibili.

La passione di Salomè per un prigioniero reietto ma affascinante, un sentimento che le causa uno squarcio nel petto così profondo da poter essere riempito solo dal sentimento di vendetta: il perverso piacere di vedere annullata l’esistenza di chi rifiuta il suo amore in nome di un Dio intangibile e lontano sembra essere per lei l’unica ragione di vita e l’unica possibilità di soddisfazione.

La passione di Oscar Wilde per l’attività di scrittore, geniale e rivoluzionaria, in grado di dipingere con le parole non solo la bellezza ma, soprattutto, le profondita più recondite dell’essenza umana, anche quelle più scomode e mai messe in scena di nessuno.

La passione, infine, di Al Pacino non solo per Oscar Wilde e per la sua scelta di estraniarsi dal mondo e dalle convenzioni sociali, prendendo apertamente posizione su ciò che per lui è importante, ma anche per il testo stesso della Salomè, poeticamente lieve nella sua veste estetica ma così forte e lacerante nella sua essenza contenutistica. Come poter, allora, rappresentare una passione se non con soggettività? Se, quindi, l’ego smisurato di Al Pacino occupa gli 88 minuti di visioni, lo spettatore pagherà favorevolmente lo scotto di questa presenza pur di godere di un viaggio alla scoperta di un Wilde inedito e sconosciuto, affidato alla conduzione di un montaggio intelligente e coinvolgente, di una fotografia (Benoît Delhomme, La teoria del tutto, Il bambino con il pigiama a righe) evocativa e coerente con il tema e di una performance brillante ed entusiasmante di una (allora) semisconosciuta Jessica Chastain (Interstellar, Sopravvissuto – The Martian). L’intensità dei suoi sguardi e la profondità della sua voce entrano perfettamente nella tempra della conturbante Salomè e rimangono impressi nella mente in maniera indelebile.

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Si esce dalla sala con l’intensa voglia di recuperare l’opera omnia di Oscar Wilde e di scavare più in profondità sul valore artistico di un autore che non è solo il padre del Dorian Gray studiato a scuola. A quale maggior risultato potrebbe ambire un documentario?

L’uomo nel diluvio, di Simone Amendola e Valerio Malorni

Valerio Malorni porta in scena il dramma dell’emigrazione, per fuggire dal diluvio che sta ingoiando un paese senza speranza, che non riesce a dare il giusto valore alla cultura e nessun buon motivo per restare.

La pioggia incessante di lavori mal pagati, stage a tempo indeterminato e cervelli in sala d’attesa allaga l’Italia e la affoga nelle speranze disilluse. L’alternativa è tra restare e morire o partire e vivere. Come novelli Noè, i giovani italiani devono scegliere in brevissimo tempo cosa salvare della loro terra dal diluvio universale che la sta travolgendo, decidere se costruirsi una barca solida e fuggire il più lontano possibile o rimanere immobili ed essere inghiottiti. Berlino è la meta più ghiotta, economicamente favorevole e accogliente per tutti gli immigrati-disperati che ogni giorno superano il confine in cerca di una vita meno faticosa, in cui è sempre domenica.

Valerio è uno di loro. Attore trentenne, padre di una bambina piccola, stretto nella morsa delle bollette mensili e del mutuo. Quando si siede nella sua vasca da bagno-arca a pensare, si sente come Noè, chiamato da Dio a lasciare la terra in cui è cresciuto, dove ha costruito con fatica affetti e relazioni, per salpare verso una realtà diversa. Berlino è la terra promessa, ma non è stato Dio a suggerirlo. Punto d’incontro privilegiato tra le culture, in cui la Turchia e l’Italia si contendono il monopolio della ristorazione, Berlino è la meta privilegiata dei giovani emigranti, che riescono a sbarcare il lunario mentre imparano a fatica la lingua e stringono amicizie preziose, per sentirsi meno soli.

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Valerio a Berlino incontra inaspettatamente il teatro, la possibilità di portare in scena il dramma dell’emigrazione nella terra che lo sta ospitando, davanti a un pubblico che, se non comprende la sua lingua, riesce a leggere la gestualità del suo corpo, il costume che nell’immaginario collettivo ricorda l’italiano medio e la musica degli emigrati del dopoguerra. E a quel punto, tra gli applausi dei tedeschi, il cielo si schiara. Il diluvio è finito e la vita ricomincia.

Noè oggi siamo tutti noi e Simone Amendola e Valerio Malorni portano in scena i turbamenti della fuga dal mondo conosciuto su una scenografia scarna in cui una vasca-arca rappresenta il centro del mondo e il luogo della riflessione, dove pianificare la fuga. L’uomo è solo nel bel mezzo di un diluvio politico e culturale e i libri sono tutto ciò che vale la pena salvare. La parola e la cultura sono i remi a cui appigliarsi per non affogare.  Attraverso un collage di racconti, video, letture e musica, L’uomo nel diluvio scava a fondo nello stato d’animo di chi parte senza sapere quando farà ritorno, l’angoscia della distanza dai propri cari e la paura profonda di tornare sconfitti da un avventura in solitaria con il rischio di deludere chi è rimasto ad attendere. Il teatro diventa la voce intima della collettività, l’eco della disperazione e dello sdegno di chi non ha più un buon motivo per restare e si abbandona ai flutti di un destino ignoto in una terra lontana, portando con sé solo la sua arte, con la speranza di farla rivivere là dove qualcuno la saprà apprezzare.