Il costruttore Solness è l’architetto della sua vita e di di quella di tutti coloro che lo circondano. Li plasma secondo il suo volere, li porta in alto fino a fargli sfiorare il paradiso e poi la trascina giù, nell’inferno più nero. Ma nessuno può muoversi, cambiare la sua condizione senza una sua parola, senza che la sua matita disegni i contorni del suo destino, come la bacchetta del Prospero shakespeariano. Solness è il mago, il dio, il depositario unico del potere e da lì, dall’alto della torre d’avorio che si è costruito guarda coloro che lo circondano, che brulicano nel suo mondo piccoli come formiche.
Schiacciati dal suo potere così come dalle case che costruisce, alte come torri medievali e impenetrabili come fortezze, i personaggi della messinscena di Alessandro Serra sono letteralmente sovrastati da una scenografia in costante mutamento, che li avvolge, li stringe, li comprime in stanze asettiche, da cui la vita sembra essere stata risucchiata. E nel suo movimento, nel suo montarsi e smontarsi, stringersi e allargarsi, la scena fa da perfetto contrappunto allo scorrere della storia, non solo incorniciando le parole e i movimenti degli attori, ma agendo da protagonista, presente e viva sul palcoscenico.
Anche la moglie di Solness si aggira in questi spazi incolore come un’ombra, viva solo all’apparenza ma morta nell’anima, uccisa proprio dal deus ex machina che domina la sua storia. Perfetta antitesi della giovane Hilde, che esplode di vita e travolge Solness con il suo ardore e il suo entusiasmo e con la sua fantasia spinge l’anziano costruttore a raggiungere altezze che non aveva mai raggiunto, se non in gioventù, a costruire castelli in aria invece che case ben piantate a terra.
Giovani contro vecchi, vita contro morte, anche se talvolta è proprio lo slancio verso la vita a condurre verso la morte, per chi troppo osa salire in altro, oltre le nuvole, là dove nessuno era mai arrivato. Solness mira al paradiso, ma per raggiungerlo condanna architetti brillanti quanto e più di lui sono a rimanere nell’ombra, in un purgatorio senza uscita, ordinato e intriso di solitudine come una tela di Hopper in scala di grigi. Ed è così che precipita all’inferno.
Questa è la rappresentazione dell’inferno borghese di Ibsen, la casa-fortezza che imprigiona e uccide chi osa volare via e Alessandro Serra, supportato dalla solida interpretazione di Umberto Orsini, è il perfetto architetto di questa narrazione cupa, soffocante, punitiva oltre misura.
Ogni scena è costruita con un’occhio cinematografico in cui ogni fotogramma è perfettamente bilanciato nella sua composizione e nessun movimento è casuale, tutto è calibrato al millesimo, dai personaggi alla scena che li ospita come una scatola, come una casa per le bambole,
fino al testo scenico, che nella sua palpabile complessità, si incastra perfettamente in questo magico ingranaggio di corpi, scenografia e suoni taglienti, restituendo tutta l’oppressione e il male di vivere che affligge Solness e il mondo che lo contiene.