teatro roma

After the end, di Dennis Kelly – regia di Luca Ligato

Nell’ambito della rassegna dedicata al teatro britannico, Let’s go British, il Teatro dell’Orologio di Roma presenta la black comedy del drammaturgo inglese Dennis Kelly, messa in scena da Luca Ligato e interpretata da Alessandro Lussiana e Valeria Perdonò.

Recensione di Manuel Porretta

Due persone, un bunker, una guerra atomica. Sembrerebbero questi gli elementi alla base della black comedy “After the end”, in scena al Teatro dell’Orologio, ma il buio del palco, le vibrazioni dei suoni bassi, il ritmo serrato frantumano le certezze dello spettatore.
Mark e Louise sono sopravvissuti. La città in cui abitavano è un dedalo di rovine e polvere, corpi carbonizzati e disperazione. Parenti e amici sono ricordi a cui si aggrappano per non precipitare nel baratro. Ad accoglierli solo il ventre freddo del bunker antiatomico, ordinato, pulito, intonso come appare il suo proprietario, Mark. Il ragazzo porta in salvo Louise, la collega di cui è innamorato, prima che le ceneri radioattive precipitino al suolo e attende con lei che passino due settimane, quattordici lunghi giorni, per poter aprire di nuovo la botola. Le razioni sono contate, l’acqua limitata, l’elettricità razionata. Solo le ossessioni, le incomprensioni, le bugie non lo sono. Ed è proprio di questo che sono rivestite le pareti del bunker, animo umano tetro e claustrofobico, che rivendica in ogni momento la sua parte sulla scena. In questo ambiente limitato e di convivenza forzata non c’è posto per falsi riflessi, per ipocrisie, per simulazioni. Il buio, il silenzio, la fame e l’angoscia grattano la superficie protettiva della pelle e mettono a nudo scheletri e pulsioni. Mark, vibrante di insicurezza, lascia che il suo sentimento per Louise marcisca di violenza e sopraffazione, relegando la tenerezza ad un mondo che non esiste più e di cui, probabilmente, non ha mai fatto parte. Louise cede al racconto di Mark, cede alle privazioni, cede alla violenza, ma non si sottomette al ruolo di vittima e rivela un crocicchio di nervi che pulsano rabbia e la conducono alla sconvolgente verità finale.

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After the end è un dramma psicologico scritto dal drammaturgo inglese Dannis Kelly nel 2005, subito dopo gli attacchi terroristici di Londra. È una black comedy avvincente e dal ritmo serrato, duro e spiazzante, che mantiene viva la sua attualità perché la vera scena in cui si muovono gli attori è quella dell’animo umano. Le fragilità e le debolezze si nutrono della quotidiana ipocrisia, ma quando la quotidianità viene spazzata via, accantonata in un angolo remoto, gli aspetti più reconditi della psiche avanzano uscendo dalle ombre e riguadagnano la luce.
Valeria Perdonò e Alessandro Lussiana, per la regia di Luca Ligato, non si risparmiano e non risparmiano nulla al pubblico. Ridono, si rincorrono, si graffiano e si mentono in una scena austera e claustrofobica, e permettono allo spettatore, con una naturalezza sconcertante, di trasformarsi in vittima e carnefice, consegnandogli le chiavi per aprire la botola e calarsi nel buio dell’animo umano.

Se bella vuoi apparire, di Paolo Bignami

Una scoppiettante scorribanda nella storia dell‘emancipazione delle donne interpretata dall’esuberante Carla Giovannone e diretta da Paolo Bignami. Il Teatro di Documenti di Roma presenta una commedia irresistibile che esplora conquiste e sconfitte, soddisfazioni e frustrazioni dell‘altra metà del cielo.

Recensione di Manuel Porretta

La scena è vuota, bianca. Sulla scrivania asettica, da conferenza, una targhetta recita “relatrice”. È il primo indizio che sul palco del Teatro di Documenti si muoverà una donna. Carla Giovannone è l’unica attrice di “Se bella vuoi apparire”, ma si porta dietro uno stuolo di donne, quasi fosse a capo di un esercito femminile.
Pezzi di storia le si appiccicano addosso e si incastrano con frammenti di comicità, attese mortificate si annodano a speranze vibranti, scampoli di lotta femminista si intessono con i tanti ritagli dei ruoli che le donne hanno accumulato nel corso della storia. Non può liberarsene, nessuna di esse può veramente. È un combattimento impari contro gli uomini, il cui ruolo è semplice e definito, è una battaglia contro gli stereotipi, che siano essi di silicone e botulino o raggrinziti come le zitelle, ma soprattutto è una guerra contro se stesse.

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Carla elenca le date dell’accesso al voto per le donne, rievoca Olympe de Gouges, femminista durante la rivoluzione francese, parla con la voce di Ernestina Prola, prima italiana a ottenere la patente di guida, veste i panni vecchi e cupi della vicina di casa calabrese e invadente. Lo fa nella speranza di non dimenticarle, di mostrare allo spettatore le sfumature che le donne si portano sulla pelle, che non è solo bianca o nera, di bucare il velo che le vorrebbe tutte destinate allo stesso destino.
Carla Giovannone coinvolge con la sua comicità, interroga lo spettatore, lo chiama fisicamente ad aiutarla, lo invita a gettare un’occhiata oltre il cliché femminile, a togliere il trucco che nasconde e stereotipa. Alla fine dello spettacolo firmato da Paolo Bignami, la scrivania asettica diventa una cucina ingombra e disordinata, e conquiste e sconfitte, rivincite e frustrazioni vengono stese su un unico filo, proprio lì, accanto ai panni appena lavati.

Troilo e Cressida – Storia tragicomica di eroi e di buffoni, di Mario Autore ed Eduardo Di Pietro

Per raccontare la storia di una grande guerra bisogna partire dagli eroi più piccoli e quasi anonimi che ne hanno fatto parte, perché solo attraverso i loro occhi è possibile decifrare ciò che è successo realmente, senza il filtro delle cronache illustri. Troilo e Cressida sono tra i personaggi meno conosciuti tra quelli che hanno calcato l’epico campo di battaglia della guerra di Troia, ma la loro storia è speculare a quella dei grandi eroi celebrati dagli aedi, più tangibile, e il loro punto di vista è sicuramente più oggettivo. In questa guerra insensata è stato versato il sangue degli gli eroi più valorosi che la letteratura ricordi e il campo di battaglia brulica di semidei come Achille e menti eccelse come Ulisse, ma per Troilo e Cressida questo mondo è piccolo quanto un palcoscenico in cui i re buffoni e gli eroi tracotanti si azzuffano solo per accaparrarsi le grazie delle donne, a scapito dei diritti umani e della ragion di stato.
Tutto è iniziato dal capriccio lussurioso del principe troiano Paride che, per soddisfare il suo piacere, aveva sottratto la bella Elena dal suo legittimo marito e aveva fatto infuocare gli animi al punto da farli esplodere in una guerra. La lussuria ha innescato questo vacuo conflitto bellico, ma a pagare il prezzo della lunaticità dei grandi sono state le personalità meno in vista, i nomi trascurati come Troilo e Cressida, nemici e amanti come Paride e Elena, ma brutalmente divisi da una guerra giocata a tavolino, o meglio ancora sotto le lenzuola.

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Questa versione alternativa della storia, spogliata dalla sua patina mitica, è la stessa che emerge dal racconto di Tersite, l’anti-eroe deforme che salta da una tenda all’altra per assistere ai capricci da donnicciola del valoroso Achille, alle elucubrazioni mentali di Ulisse, e ai monologhi insensati di Agamennone. Tersite è brutto a vedersi e volgare nelle parole ma è l’unico che mantiene uno sguardo obiettivo sui sedicenti eroi omerici e che non teme di svelare i loro istinti più bassi. Lui è al di sopra del bene e del male, noncurante dell’amore professato da Troilo e Cressida così come dell’onore dei guerrieri, ed è l’unico personaggio autorizzato a sbeffeggiare l’ipocrisia di tutti personaggi che ruotano attorno a questa storia, perché per forma e stirpe ha la stessa credibilità di un buffone di corte, e come un abile fool shakespeariano sfrutta il suo ruolo per raccontare il vero con la leggerezza di una filastrocca.
Tersite strappa di dosso le maschere ai suoi eroi, fa a pezzi i copioni di scena che prima Omero e poi Shakespeare gli avevano attribuito per fargli interpretare la parte degli uomini valorosi, e li lascia nudi su una teatro di guerra grondante di sangue, costruito su una montagna di carta straccia.
Nel dramma messo in scena da Mario Autore ed Eduardo Di Pietro i fiumi di inchiostro che nei secoli hanno raccontato di Troilo e Cressida scorrono a fiumi e si mescolano al sangue dei caduti nella guerra di Troia, ma i versi shakespeariani impastati nel sangue ora sono calpestati, strappati e riscritti da questi eroi buffoni e re vigliacchi, che non sono altro che pallide imitazioni della loro immagine letteraria. I loro ruoli sono interscambiabili e si sovrappongono l’uno all’altro in un universo di falsità che non risparmia neanche Troilo e Cressida, i giovani innamorati dai sentimenti volubili, pronti a tradire le promesse fatte per cedere alle lusinghe dei re e ai loro giochi di potere. L’unico che rimane estraneo a questa messa in scena universale è Tersite, l’imperfetto immune al potere adulatore dell’inchiostro, che fa a pezzi il dramma per non essere coinvolto nella buffa pantomima di questi eroi, che incespicano tra le bugie rendendosi più ridicoli dei loro buffoni e annegano uno dopo l’altro nel sangue dei loro fratelli.

Operamolla in scena al Teatro dell’Orologio

Con Operamolla ritorna al Teatro dell’Orologio il duo DoppioSenso Unico, compagnia tra le più apprezzate e sorprendenti del panorama teatrale romano. Lo spettacolo, scritto e interpretato da Luca Ruocco e Ivan Talarico, andrà in scena dal 3 febbraioal 1 marzo 2015

Il loro modo sempre inedito di affrontare gli argomenti li porta a chiudere una ideale trilogia, iniziata con il suicidio de “La variante E.K.” e passata per l’alienazione in “gU.F.O.”, con il tema della malattia.
Non si capisce come le sagome strampalate di Luca Ruocco e Ivan Talarico riescano a far ridere così tanto partendo da argomenti così cupi e manipolando con disinvoltura inaffrontabili tabù. Eppure ci riescono e questo è uno dei loro punti di forza: trattare con leggerezza il pesante. Il pensante.
Ridere, ma non deridere, proprio perché tutti – loro per primi – profondamente coinvolti nelle situazioni proposte.
Operamolla è lo spettacolo della malattia e della guarigione, della speranza nella resurrezione e dell’inevitabile fine, che può esser felice.

TRAMA

Tre fratelli chiusi in casa. Due vivi, uno vegeto. Il divertimento non è molto, l’unico svago sono le malattie. La speranza è quella di morire, perché la certezza è che la carne risorgerà subito.
Ma il fratello che vegeta, sarà morto? Sarà risorto senza dir niente agli altri due?
Il Guaritore, mistico figuro che manda all’aria ogni malanno, ha le risposte.
Ma dimentica le domande.

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Arturo Ué ovvero “Brecht a fumetti”, di Fabio Cavalli

Si alza ancora una volta il sipario sulla compagnia dei detenuti attori della Sezione G12 Alta Sicurezza della Casa Circondariale di Rebibbia per la messa in scena dello spettacolo Arturo Ué ovvero “Brecht a fumetti” , tratto da La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht, adattato e diretto dal regista Fabio Cavalli.

La Casa Circondariale di Rebibbia è un purgatorio alla periferia di Roma, un luogo di passaggio tra la vita che era e quella che sarà, in cui migliaia di anime vengono traghettate nell’attesa di trasformarsi in uomini nuovi. Ma qui il tempo è troppo lungo per restare fermi, per aspettare il verdetto della legge crogiolandosi nell’inattività, perché la sete di cultura è ardente quanto quella di giustizia e l’arte è una finestra sempre aperta su un mondo altrimenti irraggiungibile. L’arte ha il potere di abbattere le mura insormontabili di questa fortezza e di passare attraverso i cancelli blindati che la isolano dalla città, per portare l’anima fuori dallo spazio che la tiene reclusa, facendola viaggiare nello spazio e il tempo. Dante, Shakespeare e Brecht sono proprio qui, serpeggiano tra i corridoi della casa circondariale e nei discorsi dei suoi abitanti, e continuano a vivere su questo palcoscenico nascosto agli occhi della città per raccontare le loro storie attraverso nuove voci, forse poco avvezze alla poesia, ma di sicuro esperte del mondo e dei crimini denunciati dai grandi della letteratura.

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Dall’omicidio spietato di Giulio Cesare per mano dei suoi congiurati, messo in scena in Cesare deve morire, all’ascesa al potere di Arturo Ué, un gangster senza scrupoli che elimina i suoi rivali uno dopo l’altro per ottenere il controllo assoluto del commercio dei cavolfiori nel porto di Chicago, a Rebibbia l’arte racconta la realtà attraverso la finzione, senza censure e senza condanne, con gli strumenti che gli sono più congeniali. I testi teatrali sono cuciti addosso agli attori dalla mano sapiente di Fabio Cavalli, che non snatura le diverse personalità della sua compagnia e il loro background culturale, ma al contrario ne trae ispirazione a piene mani per caratterizzare i personaggi del dramma con le diverse cadenze regionali e dargli uno spessore drammatico altrimenti irraggiungibile. Arturo Uè è un personaggio di finzione eppure ha un aspetto estremamente familiare e realistico. Il suo costume è la maschera di uno dei gangster che negli anni Trenta seminavano terrore sulle coste americane, o quella di Hitler, il dittatore sanguinario con baffetti e bastone alla Chaplin, o ancora quella della criminalità dei colletti bianchi, abilmente celata da un’apparenza impeccabile, che ogni giorno ammicca dalle prime pagine dei giornali. Sul palcoscenico di Rebibbia, Arturo e i suoi scagnozzi sono tangibili, parlano un dialetto sin troppo noto e hanno la straordinaria capacità di rendere verisimile un testo tradotto dal tedesco, adattato in italiano, e imbastito da Cavalli in un rima raffinata per tutta la sua durata.

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Il realismo linguistico si pone in netto contrasto con una messa in scena surreale, in cui il formalismo della rima trova il suo contraltare nella scenografia fumettistica realizzata da Alessandro De Nino. Tutti gli oggetti di scena,  dalle pistole alle automobili, sono disegnati su cartoncino, visibilmente fasulli, e hanno il compito di inscrivere l’opera brechtiana in una cornice allegorica, che affronta con leggerezza apparente gli intrighi che si susseguono sulla scena uno dopo l’altro, i regolamenti di conti tra bande rivali e i crimini impuniti di Arturo Uè. La finzione dichiarata concede una libertà d’espressione più ampia, a Brecht come ai suoi interpreti, e libera l’arte dall’obbligo di denunciare gli orrori della realtà, ponendosi in una posizione distaccata, che allude senza assumersi la responsabilità di prendere una posizione. Il verdetto finale è affidato allo spettatore e alla sua capacità di scrutare sotto la superficie del testo, dietro i fumetti e nel sottotesto di quelle rime brillanti, per tracciare un suo personale giudizio morale ed estetico, ridefinendo i confini tra bene e male sulla base degli stimoli visivi e sonori a cui questo teatro lo sottopone.

Natale in casa Cupiello, di Antonio Latella

Il presepe classico di Eduardo De Filippo prende vita tra le mani di Antonio Latella, e la natura morta impastata nella creta delle statuine e nella colla calda che le lega indissolubilmente l’una all’altra si trasforma in carne pulsante sulla scena. Lo spettacolo sarà in scena al Teatro Argentina di Roma dal 3 dicembre al 1 gennaio.

Ancora una volta è Natale, il giorno più atteso dal traballante Lucariello per riunire attorno a sé la famiglia e disporla ad arte, come ogni anno, attorno al suo meraviglioso presepe. Ingessati come le sue amate statuine, figli e parenti sono ancora addormentati sotto una gigantesca stella cometa e disposti l’uno accanto all’altro in un ordine geometrico, quasi maniacale, che li condanna al sonno fino a che Lucariello, con pazienza non li scarta uno ad uno per assegnargli il loro posto sulla scena del pranzo natalizio. Il presepe, con le sue forme perfette e il suo paesaggio irrealistico in cui l’acqua “vera” delle cascate sgorga tra le montagne innevate, rispecchia la famiglia e la società ideale che Lucariello vorrebbe costruire attorno a sé, in cui ognuno occupa il posto che gli è stato assegnato senza avere il coraggio sgretolare l’ordine precostituito e segue la strada a cui è stato destinato in silenzio, sotto la guida dell’immensa stella cometa che incombe sulla sua testa. Ma la “sacra famiglia” fatica a prendere forma in una realtà in cui la famiglia reale cade a pezzi, con il fratello Nicola che occupa abusivamente la casa, il figlio scapestrato Tommasino che ruba ripetutamente nelle tasche dei suoi familiari, Ninuccia che sta per lasciare il marito per correre dietro alle lusinghe di un giovane spasimante, e la povera moglie Concetta che trascina faticosamente il peso di tutte le anime in decomposizione che vagano per la sua misera casa.

Nulla è al suo posto, nulla ha il sapore che dovrebbe avere nella fantasia di Lucariello, neanche il caffè, che sa di scarafaggio e ristagna come l’acqua del suo presepe, specchio di una tradizione annacquata che sa di vecchio e che non trova spazio nel presente. Le nuove generazioni di Casa Cupiello non riconoscono il valore simbolico del suo presepe, ne ignorano la sacralità e lo distruggono senza rimorsi come un relitto di un’epoca passata, stantio come il caffè che gli viene somministrato ogni giorno e che trangugiano come una medicina, senza provare il benché minimo piacere.

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La famiglia tradizionale è morta e nel Natale in casa Cupiello di Antonio Latella la natività coincide con una via crucis in tre atti, in cui si celebra la lenta agonia del presepe, che nasce dal nulla sotto una gigantesca stella cometa dalle mani volenterose di Lucariello, che come un caparbio burattinaio scarta una ad una le sue statuine umane e le dispone sulla scena rispettando alla lettera le istruzioni del testo teatrale che lo governa. Ma la carne e il sangue di cui sono fatte vibra sotto lo strato apparente di carta pesta e quella natura morta, rimasta intatta per decenni a casa Cupiello, si sgretola tra le mani del suo creatore. Lucariello, imperterrito, tenta di ricostruire il suo amato presepe, ma i personaggi hanno vita propria e si scontrano sull’arena del pranzo di Natale come bestie selvatiche. Qui nuova generazione, rappresentata dai figli rivoluzionari Tommasino e Ninuccia, azzanna a morte la vecchia e si libera per sempre dal mondo incartapecorito in cui e nata per ricostruire sulle sue ceneri un mondo nuovo pulsante di vita.

La natività si trasforma tra le mani di Latella in una severa deposizione dalla croce, in un rito funebre che raccoglie attorno alla mangiatoia-sepolcro l’intera famiglia, ricostruendo il disegno della capanna con i colori cupi di un affresco caravaggesco, illuminato dalla luce di un testo brillante solo per pochi istanti. Lucariello si è arreso al mondo contemporaneo, scomposto e dinamico, e si è abbandonato tra le braccia di Concetta, stanca anch’essa di portare sulle sue deboli spalle il peso di una famiglia sofferente e di soffocare nell’abbondanza del cibo i rancori sopiti. Latella si assume il rischio di reinterpretare lo spirito di Eduardo con i suoi toni più dissacranti, mettendo in scena la morte e la rinascita del presepe e del suo creatore, con l’unico obiettivo di fare a pezzi l’ipocrisia di un mondo arcaico, soffocato da uno strato pesante di pelle avvizzita, per farlo risvegliare in una nuova era con indosso i panni della modernità.

Zombitudine, di Elvira Frosini e Daniele Timpano

Gli zombi stanno arrivando. Scappate se potete o rifugiatevi al Teatro dell’Orologio che offre riparo dall’apocalisse zombi dal 2 al 23 novembre. Zombitudine, scritto e interpretato da Elvira Frosini e Daniele Timpano, vi terrà compagnia in attesa dell’invasione definitiva.

L’apocalisse zombi è scoppiata. Gli zombi sono ovunque, hanno invaso le strade, le metro e i palazzi del governo, sono i nostri vicini di casa, i nostri colleghi e i passanti che ci sfiorano con gli occhi incollati ai loro cellulari di ultima generazione. L’epidemia è scoppiata da tempo e senza che ce ne accorgessimo si è insinuata silenziosamente nei nostri cervelli intaccando ogni cellula del nostro corpo, per sempre. L’economia ha sferrato il suo colpo letale all’umanità e l’ha ridotta ad un branco di creature non pensanti, di zombi che seguono capricciosamente le tendenze del mercato per sentirsi ancora vivi. Manca la forza di mostrare la propria personalità per distinguersi dall’orda e per ribellarsi ad una morte cerebrale da cui non è possibile svegliarsi. La Zombitudine è la malattia di questo secolo. Non c’è cura e non c’è ritorno, l’unica possibilità di sopravvivere è nascondersi bene dagli altri zombi, scegliendo posti sicuri come i cimiteri, dove ci sono i morti veri, i tetti o i teatri da cui gli zombi si tengono a debita distanza, e attendere che qualcosa cambi o che gli zombi sfondino le porte per mangiarci il cervello.

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Le regole per sopravvivere sono poche e chiare: vietato tornare e vietato risorgere, non fare programmi a lungo termine, non essere il primo del gruppo perché i primi del gruppo sono i primi a morire, e non seguire il leader perché chi segue il leader è destinato a fare una morte spaventosa, diffida dai dissidenti perché in questo stato la democrazia non esiste e chi contesta il leader viene eliminato tutto. In altre parole per sopravvivere bisogna essere invisibile, non fare rumore e non agitare le acque, e restare dietro le quinte in attesa che qualcun altro faccia il lavoro sporco. Abbiamo seguito le istruzioni alla lettera ed ora siamo qui, in un teatro soffocato da un fumo opalescente e da una musica assordante. Un uomo e una donna sono sul palcoscenico, soli con una valigia demodè tra le mani. Non si sa se sono vivi o morti, se la zombitudine li ha già contagiati o se sono gli ultimi superstiti. Sembrano venire da un’altra epoca, ma ad uno sguardo più attento si comportano proprio come noi, e in men che non si dica tirano fuori dalla tasca un telefonino per scattarsi un selfie commemorativo di un momento storico: l’invasione zombi dell’intero pianeta.

Zombitudine - Foto di Manuela Giusto (10)
Elvira Frosini e Daniele Timpano sono il risultato della società che noi stessi abbiamo creato, e che ci ha risucchiato il cervello in un vuoto cosmico fatto di omologazione e impotenza. Loro sono come noi, incapaci di prendere una posizione, di scegliere un leader e incatenati nell’attesa di un cambiamento che non avverrà mai. Con l’umorismo nero che li contraddistingue criticano duramente la società di zombi in cui ci troviamo, ma ammettono candidamente di farne parte e di essersi arresi a una fine inevitabile. I dialoghi brillanti intessuti tra citazioni colte e atmosfere cinematografiche orrorifiche tengono in vita chiunque si sia rifugiato nel teatro per tutto il tempo della rappresentazione, e alternando la luce della speranza all’oscurità della rassegnazione, Elvira Frosini e Daniele Timpano non perdono mai di vista la possibilità di salvarsi dagli zombi, di risollevarsi dalla massificazione e di ricominciare a vivere partendo proprio dal teatro, un luogo pulsante di nuova linfa vitale e ancora inattaccato dalla zombitudine collettiva. Gli zombi sono alle porte, spingono dall’esterno per entrare, non rimane molto tempo, ma forse possiamo ancora salvarci.

Riccardo III, di Michele Sinisi

Il suono assordante dei colpi che Riccardo III sferra al suo letto di morte risuonano tra le mura del Teatro dell’Orologio di Roma, insieme all’odore pungente della vernice spray con cui disegna il suo tragico destino, e dal 2 al 23 novembre Michele Sinisi, solo sulla scena, si prepara a vivere ogni il dramma del re deforme per trovare una cura alla sua anima corrotta.

Riccardo è nato insano, incompiuto e, mentre contempla l’immagine deforme che proietta la sua ombra, non può fare a meno di pensare che il suo destino sia inscritto in un inverno perenne, privo di languidi piaceri e offuscato dal dolore dell’isolamento. Non ci sono gonnelle svolazzanti a venerarlo o ghirlande sopra la sua testa, Riccardo è solo. In un mondo che osanna gli eroi, e celebra la bellezza esteriore ancor prima delle qualità morali, non c’è posto per Riccardo, l’antieroe malfatto e malfattore che rimane ai margini della società a crogiolarsi in un dolore insopprimibile. La violenza sanguinari che scatena contro i suoi nemici, il tradimento degli amici e l’amore strappato a Lady Anna con l’inganno sono solo una consolazione effimera, una vendetta blanda contro una società che non lo riconosce come capo supremo e lo emargina come il peggiore degli appestati, prendendosi gioco della sua deformità.

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Riccardo è solo dall’inizio alla fine della sua storia, ma continua a dibattersi instancabilmente sulla scena per cercare di cambiare il triste destino che la sorte gli ha cucito addosso. La mostruosità, incollata alla carne, divora la sua anima, e a nulla servono le contorsioni e le urla strazianti, perché nulla può liberarlo dal corpo in cui è imprigionato, se non la morte. Ora l’unica possibilità che ha Riccardo di  fare ammenda per il dolore che ha procurato, e di alleggerirsi l’anima dal peso dei torti subiti, giace nel racconto catartico di una vita solitaria, ingiustamente privata del calore umano e temprata nell’acciaio freddo della sua spada. Qui, sul palcoscenico del ventunesimo secolo, può narrare la sua storia in tempo reale, trascinando il pubblico affamato di verità sul campo di battaglia insieme a lui, costringendolo a respirare l’odore acre della sua vernice sanguigna e a sobbalzare sotto i colpi sferrati dalla sua mano contro le vittime inermi della sua frustrazione.

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Michele Sinisi è solo, proprio come Riccardo, su una scena claustrofobica, libera da inutili orpelli e di personaggi di contorno, che tanto ricorda la sua vita. Dopo secoli di orrori perpetrati e subiti, Riccardo si trascina a fatica su un piede solo, mentre la sua schiena gobba si piega sotto il peso della sconfitta, e rammenta con rimpianto quello che è stato, la donna che ha amato e gli amici che ha perduto. Riccardo è disarmato al cospetto del suo pubblico, senza corona né armatura a protezione della sua fragilità. Tutto ciò che gli è rimasto è lo straordinario potere di comprimere il corpo e dilatare le parole, per adattarli ad una scena angusta in cui il tempo dell’azione è limitato a un unico monologo, che alterna i versi shakespeariani ai graffiti naive, per trasformarli in personaggi in carne e ossa che gridano aiuto, imprigionati in una lastra d’acciaio. Sono donne da sfiorare languidamente, nomi abbozzati e rimossi senza pensarci troppo, e nemici da cancellare dalla faccia terra con un colpo di spugna. La vernice è come il sangue, ha il suo stesso odore ferroso, e scorre a fiotti sull’acciaio per lavare la coscienza di Riccardo. Ora, nell’inverno della sua vita, il tiranno emarginato all’eterna ricerca di redenzione indossa i panni dell’uomo comune per farsi ascoltare, e si fa piccolo, come un artista di talento che colora i muri di una galleria urbana ai margini della città, o come un attore che si esibisce su un palco improvvisato sul ciglio della strada, per soddisfare l’urgenza bruciante di raccontare la sua storia e condividere con il mondo il suo dolore, nella vana speranza di metterlo a tacere, almeno per il tempo della recita.

L’uomo nel diluvio, di Simone Amendola e Valerio Malorni

Valerio Malorni porta in scena il dramma dell’emigrazione, per fuggire dal diluvio che sta ingoiando un paese senza speranza, che non riesce a dare il giusto valore alla cultura e nessun buon motivo per restare.

La pioggia incessante di lavori mal pagati, stage a tempo indeterminato e cervelli in sala d’attesa allaga l’Italia e la affoga nelle speranze disilluse. L’alternativa è tra restare e morire o partire e vivere. Come novelli Noè, i giovani italiani devono scegliere in brevissimo tempo cosa salvare della loro terra dal diluvio universale che la sta travolgendo, decidere se costruirsi una barca solida e fuggire il più lontano possibile o rimanere immobili ed essere inghiottiti. Berlino è la meta più ghiotta, economicamente favorevole e accogliente per tutti gli immigrati-disperati che ogni giorno superano il confine in cerca di una vita meno faticosa, in cui è sempre domenica.

Valerio è uno di loro. Attore trentenne, padre di una bambina piccola, stretto nella morsa delle bollette mensili e del mutuo. Quando si siede nella sua vasca da bagno-arca a pensare, si sente come Noè, chiamato da Dio a lasciare la terra in cui è cresciuto, dove ha costruito con fatica affetti e relazioni, per salpare verso una realtà diversa. Berlino è la terra promessa, ma non è stato Dio a suggerirlo. Punto d’incontro privilegiato tra le culture, in cui la Turchia e l’Italia si contendono il monopolio della ristorazione, Berlino è la meta privilegiata dei giovani emigranti, che riescono a sbarcare il lunario mentre imparano a fatica la lingua e stringono amicizie preziose, per sentirsi meno soli.

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Valerio a Berlino incontra inaspettatamente il teatro, la possibilità di portare in scena il dramma dell’emigrazione nella terra che lo sta ospitando, davanti a un pubblico che, se non comprende la sua lingua, riesce a leggere la gestualità del suo corpo, il costume che nell’immaginario collettivo ricorda l’italiano medio e la musica degli emigrati del dopoguerra. E a quel punto, tra gli applausi dei tedeschi, il cielo si schiara. Il diluvio è finito e la vita ricomincia.

Noè oggi siamo tutti noi e Simone Amendola e Valerio Malorni portano in scena i turbamenti della fuga dal mondo conosciuto su una scenografia scarna in cui una vasca-arca rappresenta il centro del mondo e il luogo della riflessione, dove pianificare la fuga. L’uomo è solo nel bel mezzo di un diluvio politico e culturale e i libri sono tutto ciò che vale la pena salvare. La parola e la cultura sono i remi a cui appigliarsi per non affogare.  Attraverso un collage di racconti, video, letture e musica, L’uomo nel diluvio scava a fondo nello stato d’animo di chi parte senza sapere quando farà ritorno, l’angoscia della distanza dai propri cari e la paura profonda di tornare sconfitti da un avventura in solitaria con il rischio di deludere chi è rimasto ad attendere. Il teatro diventa la voce intima della collettività, l’eco della disperazione e dello sdegno di chi non ha più un buon motivo per restare e si abbandona ai flutti di un destino ignoto in una terra lontana, portando con sé solo la sua arte, con la speranza di farla rivivere là dove qualcuno la saprà apprezzare.

Molto Rumore per Nulla, di Loredana Scaramella

Molto Rumore per Nulla è il dramma della parola, più affilata di una spada e più dolce del miele, tessitrice di inganni e soave incantatrice. Loredana Scaramella traduce e adatta la parola umoristica e tagliente di Shakespeare in una calda estate salentina e la fa esplodere con tutto vigore sul palcoscenico del del Globe Theatre.

L’eco dei tamburi di guerra risuona ancora nelle orecchie dei giovani reduci in cammino verso la quiete bucolica del focolare domestico, dove le donne, in fermento per il loro ritorno, volteggiano spensierate tra i panni freschi di bucato. La guerra degli uomini è finita. Ma ora, nell’inter-regno di pace che intervalla i combattimenti per dare ristoro ai soldati, un’altra guerra sta per avere inizio, quella dei sessi, che rivendicano il diritto di plasmare a loro piacimento le regole della società come uomini contemporanei. Il grembo della terra d’origine li attira con le lusinghe delle belle donne, la squisitezza del cibo e del vino, e la musica travolgente delle feste, ma allo stesso tempo li mette alla prova su un campo di battaglia più scivoloso del precedente, in cui vince solo chi ha la lingua più affilata e l’intelletto più arguto.

Beatrice, vergine bisbetica, e Benedetto, misogino burlone, sono i campioni dei due schieramenti, l’una abbarbicata al ruolo di maschio dominante, l’altro paralizzato nel cameratismo adolescenziale. La guerra della parola è annunciata. A colpi di battute di spirito, Beatrice atterra Benedetto stoccata  dopo stoccata, rivendicando con tutto il fiato che ha in gola la sua dignità di donna non accompagnata per scelta, orgogliosa della sua indipendenza e onorata all’idea di arrivare alla tomba vergine piuttosto che sposata controvoglia a un gentiluomo che non la eguaglia in arguzia. Con il suo atteggiamento schietto e vivace, Beatrice rappresenta la dona fool, che non teme di dire il vero e di scontrarsi con gli uomini ad armi pari, usando lo strumento più potente che possiede, ancora di più della sensualità ammaliatrice: la parola. E inaugura così un nuovo modello di donna guerriero, svincolata dagli obblighi sociali che fino a quell’epoca la vedevano relegata nella veste di moglie e madre, aprendo la strada alle eroine brillanti come la regina Elisabetta I, che non temono il peso del trono in un mondo dominato dagli uomini.

Spettacolo teatrale "Molto rumore per nulla"

La vivacità di Beatrice tuttavia non intimorisce Benedetto, che al contrario si sente a proprio agio a sostituire il corteggiamento classico con una battaglia all’ultima trovata di spirito, perché l’amore-odio con la ragazza gli ricorda il rapporto spassoso che ha con i compagni d’armi, e senza neanche accorgersene si trova preso all’amo gettato involontariamente da Beatrice. La parola riottosa usa l’ironia per fare ponte  tra il mondo maschile e quello femminile e stabilisce una tregua, se pur momentanea, tra i due schieramenti, obbligati a unire le forze per difendere il loro mondo idilliaco dalle calunnie e dai giochi di potere orditi da chi è tornato dalla guerra con l’odio nel cuore. La luce accecante è attraversata da una lama d’ombra.

Le musiche festose di una cultura popolare sospesa nel tempo, che hanno accompagnato l’epoca del corteggiamento e degli amori, lasciano lentamente spazio ai complotti, e i balli in maschera in cui gli innamorati si ricorrevano per sussurrarsi parole dolci senza mostrare il loro volto, si trasformano in danze macabre di maschere umane, disposte a mentire e a simulare pur di raggiungere i propri obiettivi. La musica non suona più e i colori si incupiscono di pari passo con gli animi dei personaggi, che tornano a combattersi in una guerra d’arguzia, stavolta  con un’arma più sottile della spada e più grossolane della parola: la mistificazione.

Il recitazione nella recitazione, ovvero il play within the play, è un elemento ricorrente in Shakespeare ed enormemente sfruttato dai personaggi per ordire tranelli o, al contrario, per risolvere le controversie in vista di un finale in cui trionfi la giustizia. Qui la “trappola per topi” è usata nel bene e nel male, dai buoni e dai cattivi, per portare gli eventi sulla strada giusta, e la parola si dimostra la protagonista assoluto delle scene improvvisate dai personaggi per uscire vincitori dalle situazioni più sgradevoli e intricate. Simulare l’amore suscita l’amore, simulare il tradimento suscita l’odio, e simulare la morte suscita il perdono, non c’è nessuno dei personaggi che non ne sia consapevole e che esiti ad usare la finzione per facilitarsi la vita lasciando intatto l’onore.

L’opera shakespeariana è vivida sul palcoscenico di Loredana Scaramella, così come i dialoghi tra i personaggi, adattati in una lingua contemporanea e palpabile, che si cuce alla perfezione sui corsetti e sulle spade senza creare discromie nelle sfumature semantiche tra le epoche. La guerra della parola è attuale e bruciante e supera, grazie all’universalità che gli appartiene, lo sbalzo temporale e spaziale che ci separa da Shakespeare, riproponendo sotto forma di dramma lo scontro tra i sessi che accomuna ogni tempo, perché insito nell’essere umano desideroso di far cadere la maschera e scendere dal palcoscenico su cui le convenzioni del mondo lo hanno relegato. Come la parola, anche la musica tradizionale salentina si fa universale, e si pone come ponte invisibile tra le culture aspirando, se non alla pace, almeno alla tregua, dalla guerra in un idillio bucolico fuori dal tempo.