teatro vascello

Le Baccanti. Dionysus il dio nato due volte, di Daniele Salvo

Sedetevi comodi e preparatevi a un viaggio sonoro ed emozionale autentico, viscerale, dalla raffinatissima sobrietà, o dalla sobria raffinatezza, se preferite. Daniele Salvo, regista e attore di questo imperdibile adattamento teatrale del testo di Euripide, offre la sua visione fatta di vocalità curate e forme d’espressione ricercate e studiate, che mai tradiscono lo scritto originale: come il regista stesso dichiara, <<Tutto ciò che vedrete dunque, parte dal testo e ritorna al testo, passando per una percezione visiva e sonora contemporanea. Non troverete sovrapposizioni intellettualistiche, esibizioni tecnologiche o meravigliose “idee del regista”. Abbiamo deciso di creare uno spettacolo complesso, perturbante ed emozionante partendo da Euripide e ritornando ad Euripide>>. Perturbante, sì. Come la trama stessa, e come l’insoluto mistero della fede nella divinità. Ma anche, e soprattutto, come l’Alterità: ovvero con la disponibilità a riconoscere l’esistenza dell’”Altro da sé”, e ad accogliere il suo diritto d’essere e di agire, pur facendo i conti con l’irrazionale, con l’incontrollabile, con il non conosciuto. Un tema attualissimo, carico di spunti di riflessione dalla vasta portata.

16924057_10211115160668074_607983297_n

Dall’unione di Zeus e la mortale Semele nasce Dioniso, dio del vino, del teatro e dei piaceri dei sensi. Tuttavia, le sorelle della donna e suo nipote Penteo, figlio di Agave e re di Tebe, diffondono la voce secondo cui Semele si sarebbe unita con un mortale e avrebbe inventato la paternità divina solo per coprire il misfatto. In tal modo, l’intera Tebe nega la divinità di Dioniso. Ed è proprio lui, nel prologo, a dichiarare di essere venuto nella città per dimostrare di essere un dio, e non un comune mortale. Come prima cosa, induce la follia nella donne tebane, le quali fuggono vero il monte Citerone per celebrare i riti in onore di Bacco, ovvero dello stesso Dioniso. Mentre Cadmo, padre di Penteo, e Tiresia, l’indovino, seppur per diverse ragioni, sono ormai persuasi della convenienza nel riconoscere la divinità allo straniero capace di tali prodigi, il re si mostra irremovibile e fa arrestare il dio, il quale si lascia catturare senza opporre resistenza, per poi scatenare un terremoto e liberarsi immediatamente. Intanto, un messo porta in città notizie delle Baccanti: le donne sono in grado di far sgorgare miele, latte e vino dalla roccia, e con la loro forza sovrumana possono squartare una mandria di mucche. Dioniso, allora, convince Penteo a mascherarsi da donna per poter spiare da vicino le Baccanti, ma una volta giunto sul Citerone le donne, soggiogate dalla follia ispirata dal dio, lo fanno a pezzi. Ed è proprio Agave, la madre di Penteo, a portare in trofeo a Cadmo la testa del loro figlio, scambiandola, nel suo delirio, per quella di un leone. Spetta a lui, dunque, riportare Agave alla realtà: preso atto, con indicibile orrore, del suo gesto, la donna si prepara, insieme al marito, all’esilio in terre lontane.

 16900410_10211115171188337_1958452450_n

Difficilmente si può beneficiare, da spettatori, di un concentrato di talento e sapienza come quello esibito dagli attori diretti da un applaudito Daniele Salvo. Intensi, imponenti, luminosi: sono Paolo Bassegato (Cadmo), Paolo Lorimer (Tiresia), Ivan Alovisio (Penteo), Simone Ciampi (primo messaggero), Manuela Kustermann (Agave) e una Melania Giglio (Baccante e secondo messaggero) dalla vocalità maestosa a meritare l’attenzione di un pubblico rapito e ammirato. Le attrici che interpretano le Baccanti, quasi sempre presenti in scena, sia sul palco che dietro un suggestivo velo che permette, ingegnosamente, di suggerire la contemporaneità di due eventi che si svolgono in luoghi diversi, padroneggiano abilmente tutte le possibilità dei propri corpi e delle proprie voci, potenti e ammalianti, capaci di portare l’ascoltatore in una dimensione di straniamento, di rottura con la realtà: Salvo si avvale ormai da 25 anni della collaborazione con il Dottor Marco Podda, medico foniatra e compositore, con il quale ha esplorato e continua ad esplorare tutte le sfumature della voce umana, a partire dall’espressione sonora nel periodo prenatale fino alla Psicoacustica.

Di notevole impatto anche i costumi e le maschere, curati da Daniele Gelsi: alle Baccanti seminude e acconciate con capelli scompigliati e selvaggi e corna caprine, si affiancano in maniera singolare gli abiti in pelle e velluti neri, mentre il chiaro e lo scuro si alternano continuamente sul palco, arricchendo il gioco di luci e proiezioni ideati da Valerio Geroldi (Light designer) e Aqua-micans group (Videoproiezioni).

Uno spettacolo multisensoriale imperdibile per chiunque voglia essere sorpreso, ancora una volta, dalla potenza espressiva del teatro.

Casa di bambola, di Roberto Valerio

Casa di Bambola, dramma scritto da Henrik Ibsen nel 1879, è per molti versi un testo di sconcertante attualità: ancora oggi, la riflessione sul ruolo della donna nella famiglia e, per esteso, nella società, nonché le valenze del concetto di libertà personale sono tutto fuorché argomenti scontati e pacifici.

Roberto Valerio, regista e attore (è lui ad interpretare Torvald Helmer), riscrive la pièce per un pubblico contemporaneo, ma senza tradire le intenzioni dell’autore: solamente sul finale la riscrittura lascia spazio al dubbio, ad una attesa che si consegna come tale, senza confortanti soluzioni.

La scena si apre sul salottino di una dimora dalle forme arrotondate e sbilenche, tranquillizzanti e inquietanti al contempo, che evocano la soporifera abitudine della tranquillità borghese ma anche le sue profonde contraddizioni. Nora Helmer, interpretata da una Valentina Sperlì perfettamente a suo agio sul palco, incarna tutto questo: una donna che si è adattata al ruolo che il padre prima e il marito poi hanno ritenuto adatto a lei, quello della moglie/madre perfetta (rigorosamente inseparabili in una società di stampo patriarcale) ma senza personalità, una bambola bella da guardare ma priva del diritto di essere. Eppure, Nora è destinata a un doloroso percorso di crescita che le offre l’opportunità di capire che il suo “meraviglioso”, termine con il quale esprime l’anelito alla felicità, non si esaurisce tra le mura domestiche, né tantomeno nella figura del marito, Torvald Helmer. Per salvargli la vita, infatti, la devota Nora falsifica la firma del padre, ottenendo così, illecitamente, un prestito dall’infido Krogstad (Michele Nani), impiegato bancario per professione ma usuraio per necessità. Divenuto direttore di banca, Torvald è intenzionato a licenziare Krogstad, ma la scoperta dell’inganno della moglie lo mette nella posizione di dover cedere ai ricatti del sottoposto, per timore di perdere la faccia. Sentendosi ormai messo con le spalle al muro, l’uomo perde il controllo e inveisce rabbiosamente contro Nora, accusandola di essere una moglie indegna e minacciandola di allontanarla dai figli, perché incapace di assolvere compiutamente il suo ruolo di madre. Tuttavia, quando Krogstad, innamoratosi di un’amica di Nora, ritira le sue minacce, Torvald, cambia repentinamente umore: comprendendo di essere ormai salvo, si precipita a rassicurare sua moglie, offrendole il suo perdono. Ma nella vita di Nora, da quel momento in poi, niente sarà più lo stesso: tutte le certezze su cui aveva edificato la sua identità di sposa ideale crollano inesorabilmente di fronte alla vigliaccheria di quello che credeva essere un uomo nobile e coraggioso. La donna, precedentemente considerata graziosa come una docile marionetta e trattata alla stregua di un uccellino da appartamento (un’allodola, come la apostrofa spesso Torvald), prende coscienza di sé e decide di intraprendere un solitario cammino di autoconoscenza e di realizzazione personale, anche a costo di abbandonare il marito e i suoi figli.

Casa-di-Bambola-phMarco_Caselli_Nirmal
Lo farà davvero? Roberto Valerio sceglie di non offrire risposte univoche, né facili conclusioni: qualunque sia la scelta di Nora, lo spettatore sa di aver assistito a un processo irreversibile di liberazione, che consiste nella riscoperta del proprio valore, nel superamento delle illusioni infantili come della consapevolezza che, per imporre la propria presenza nel mondo, non è necessario dipendere né dal denaro altrui, né da una posizione sociale, né dall’immagine idealizzata di un uomo-padrone che desidera per sé solo una bambola priva di aspettative e capacità di autodeterminazione. La Nora fragile ma imponente di Valentina Sperlì, che si riveste con dignità prima di dire addio alla prigione dorata in cui ha vissuto per tutta la vita, si volta verso il pubblico: è uno sguardo penetrante, il suo. Vibra della forza di chi, attraverso la pena, ha scoperto cosa può, cosa vuole diventare. Si toglie la parrucca, poi la indossa di nuovo. Nora è lì, in ginocchio, con il volto tra le mani. La sua vecchia identità le rimane appoggiata addosso, sui vestiti, sul capo, ma della bambola che era non rimane altro che una desolata ed effimera apparenza.

Applausi.

L’uomo nel diluvio, di Simone Amendola e Valerio Malorni

Valerio Malorni porta in scena il dramma dell’emigrazione, per fuggire dal diluvio che sta ingoiando un paese senza speranza, che non riesce a dare il giusto valore alla cultura e nessun buon motivo per restare.

La pioggia incessante di lavori mal pagati, stage a tempo indeterminato e cervelli in sala d’attesa allaga l’Italia e la affoga nelle speranze disilluse. L’alternativa è tra restare e morire o partire e vivere. Come novelli Noè, i giovani italiani devono scegliere in brevissimo tempo cosa salvare della loro terra dal diluvio universale che la sta travolgendo, decidere se costruirsi una barca solida e fuggire il più lontano possibile o rimanere immobili ed essere inghiottiti. Berlino è la meta più ghiotta, economicamente favorevole e accogliente per tutti gli immigrati-disperati che ogni giorno superano il confine in cerca di una vita meno faticosa, in cui è sempre domenica.

Valerio è uno di loro. Attore trentenne, padre di una bambina piccola, stretto nella morsa delle bollette mensili e del mutuo. Quando si siede nella sua vasca da bagno-arca a pensare, si sente come Noè, chiamato da Dio a lasciare la terra in cui è cresciuto, dove ha costruito con fatica affetti e relazioni, per salpare verso una realtà diversa. Berlino è la terra promessa, ma non è stato Dio a suggerirlo. Punto d’incontro privilegiato tra le culture, in cui la Turchia e l’Italia si contendono il monopolio della ristorazione, Berlino è la meta privilegiata dei giovani emigranti, che riescono a sbarcare il lunario mentre imparano a fatica la lingua e stringono amicizie preziose, per sentirsi meno soli.

Luomo-nel-diluvio-shakemovies
Valerio a Berlino incontra inaspettatamente il teatro, la possibilità di portare in scena il dramma dell’emigrazione nella terra che lo sta ospitando, davanti a un pubblico che, se non comprende la sua lingua, riesce a leggere la gestualità del suo corpo, il costume che nell’immaginario collettivo ricorda l’italiano medio e la musica degli emigrati del dopoguerra. E a quel punto, tra gli applausi dei tedeschi, il cielo si schiara. Il diluvio è finito e la vita ricomincia.

Noè oggi siamo tutti noi e Simone Amendola e Valerio Malorni portano in scena i turbamenti della fuga dal mondo conosciuto su una scenografia scarna in cui una vasca-arca rappresenta il centro del mondo e il luogo della riflessione, dove pianificare la fuga. L’uomo è solo nel bel mezzo di un diluvio politico e culturale e i libri sono tutto ciò che vale la pena salvare. La parola e la cultura sono i remi a cui appigliarsi per non affogare.  Attraverso un collage di racconti, video, letture e musica, L’uomo nel diluvio scava a fondo nello stato d’animo di chi parte senza sapere quando farà ritorno, l’angoscia della distanza dai propri cari e la paura profonda di tornare sconfitti da un avventura in solitaria con il rischio di deludere chi è rimasto ad attendere. Il teatro diventa la voce intima della collettività, l’eco della disperazione e dello sdegno di chi non ha più un buon motivo per restare e si abbandona ai flutti di un destino ignoto in una terra lontana, portando con sé solo la sua arte, con la speranza di farla rivivere là dove qualcuno la saprà apprezzare.