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It: Capitolo uno, di Andrés Muschietti

Feroce, crudele, macabro e violento nella misura richiesta dal pubblico, apprezzato in ogni suo aspetto formale, l’It: Capitolo uno di Andrés Muschietti si eleva a capolavoro indiscutibile del genere horror adolescenziale. Il Pennywise che Bill Skarsgård [Allegiant, Atomica bionda] si è cucito addosso, ammalia e terrorizza con i suoi occhi penetranti e taglienti, con le sue movenze scattose e una verve che fa quasi impallidire il generoso Tim Curry che da solo, letteralmente da solo, salvava la ormai dimenticabile produzione televisiva degli anni ‘90.

Il Male innominabile, nascosto nel profondo di ogni comunità, per quanto piccola, e nel profondo del subconscio di ogni essere umano, per quanto coraggioso, si manifesta principalmente nelle sembianze di un clown che indossa un costume dal design molto ricercato e studiato nei minimi particolari. Per riassumere in un unico capo d’abbigliamento tutte le generazioni in cui It ha portato a termine il suo bisogno di sangue, la costumista Janie Bryant ha ideato una tuta sagomata che include contemporaneamente reminescenze medievali, rinascimentali, elisabettiane e vittoriane, con tanto di plissettatura fortuny che contribuisce a rendere ancora più barocco, e quindi enigmatico, per anacronia, tutto l’insieme.

Una sorta di “lasciate che i bambini vengano a me”, ma con un epilogo contrario al messaggio evangelico-cristiano. Pennywise rappresenta il baratro della paura più profonda, il buio denso dove ogni cosa può perdersi per sempre, persino la più pura delle innocenze. Il Male nel suo stato più beffardo: orditore di inganni, come il Diavolo delle leggende popolari. Una creatura mutaforma che vive del dolore e delle sofferenze altrui e si nutre di sangue innocente, non prima di averlo annegato nella paura più soffocante.

«Galleggerai quaggiù! Tutti galleggiamo quaggiù! Sì! Galleggiamo!»

A sorprendere piacevolmente, se così si può dire anche in un horror, sono anche le molte trasformazioni di It, ben bilanciate tra citazioni letterali del romanzo e nuove idee che scavano nell’immaginario collettivo. L’essere senza forma che vive nelle acque nere e che, come l’acqua per mostrarsi in forma tangibile assume le sembianze di qualsiasi recipiente che possa scatenare sgomento, la bestia che sopravvive nei secoli dei secoli grazie ad un tacito tributo di carne fresca, fornito da vittime innocenti, non è che la naturale evoluzione di un archetipo che ha origine nella notte dei tempi: non c’è bisogno di scomodare trattati di antropologia per riconoscervi la paura allo stato puro, quella che i primi uomini esorcizzavano disegnando nelle grotte, protetti dal fuoco. È scritto nel nostro stesso DNA. Basta solo che ciascuno di noi ricordi. Stephen King ha solo dato voce a quello che abbiamo vissuto, per diretta esperienza, figurata o reale che sia, e che torna virtualmente negli incubi notturni, quando siamo più fragili e indifesi. O nel buio di una sala, come ha fatto egregiamente Muschietti.

L’opera più corposa di Stephen King (1986) è diventata negli anni il prototipo di tutta una sequenza di storie, nella sua stessa bibliografia come in quella di altri scrittori e sceneggiatori successivi. Da Stand by me a Cuori in Atlantide, se si vuole rimanere tra le pagine kinghiane, da I Goonies al più vicino, per ordine di tempo e per le sue molte affinità, Stranger things, tutti hanno raccolto spunti a piene mani, imparando la lezione che una ricetta perfetta è il risultato di una successione di ingredienti ben ponderati e pesati.


Un pizzico di Goonies, una bella dose di Stand by me, tanto Nightmare on Elm Street e, per finire, una spolverata quanto basta di Stranger things e la ricetta per il successo del nuovo It è pronta, basta infornare in una grande sala buia, ben climatizzata e dall’audio avvolgente e aspettare solo che la storia faccia il suo corso. E che storia! Una rivisitazione della fiaba gotico-grottesca tipica dei Grimm con tanto di utilizzo del sottotesto allegorico: sono tantissime le allusioni ai rituali d’iniziazione, alla perdita dell’innocenza, alla crudeltà amorale dell’infanzia, ai patti di sangue e ai tributi e sacrifici ad una divinità latente. Ma se sono una presenza costante nel romanzo, non lo sono così tanto nel film, per non appesantirne troppo la fruizione, probabilmente. Alla luce di questo, per quanto sia entusiasta di It: Capitolo uno, rimango dell’opinione che, per mettere ben in evidenza questi interessanti aspetti nascosti del romanzo, la forma perfetta sia una serializzazione di più ampio respiro. Netflix, pensaci tu!

«Prenderò tutti voi e mi nutrirò della vostra carne come mi nutro delle vostre paure!»

Resta scritto negli annali, comunque, che il più famoso romanzo di King ha finalmente avuto il degnissimo adattamento che meritava, con buona pace dei fan più integralisti. La Warner Bros, dopo ben due defezioni che avrebbero potuto minarne alle fondamenta la progettazione, ha coraggiosamente affidato il film ad un regista emergente ed è stata ripagata davvero a peso d’oro. Andrés Muschietti, argentino di chiare origini italiane, aveva diretto in precedenza solo un altro film: La Madre, un horror-thriller ben giudicato dalla critica internazionale, che ha come protagonista la Jessica Chastain che, quasi sicuramente, interpreterà la Beverly adulta in It: Capitolo due.


Dopo l’enorme successo ottenuto da It: Capitolo uno, per Muschietti si vocifera già di un nuovo ambizioso progetto da tramutare in oro: la trasposizione live-action di Robotech, la risposta datata 1985 agli anime giapponesi della Tatsunoko, di genere sci-fi war, che ha per protagonista un’intera fanteria di giganteschi robot. Nell’attesa, analizziamo quello che è a tutti gli effetti da considerare il nuovo horror campione d’incassi della storia del cinema.

I sette “Perdenti” [“Losers” in originale, come si può notare dalla scritta sul gesso di Eddie] hanno ottimamente interpretato i loro ruoli coinvolgendo non poco un target molto ampio di spettatori. Jaeden Lieberher [Midnight special, St. Vincent] è BILL DENBROUGH, che non ha mai superato la scomparsa del fratellino Georgie, finita nelle fauci di It. Il chiacchierone dalle mille voci RICHIE TOZIER è interpretato da Finn Wolfhard [protagonista di Stranger Things], Jeremy Ray Taylor [42, Geostorm] è l’architetto in erba BEN HANSCOM; Jack Grazer [Tales of Halloween, e prossimamente Shazam!] invece è il cagionevole EDDIE KASPBRAK. A completare il cast Wyatt Oleff [Guardiani dellae Galassia] alias STANLEY URIS, Chosen Jacobs, ossia MIKE HANLON, e Sophia Lillis, attrice estremamente fotogenica che sembra già di un altro pianeta mentre interpreta il personaggio di BEVERLY MARSH, e ha ancora solo 15 anni.

Al momento non è stata annunciata ufficialmente la lista completa degli attori chiamati ad interpretare i teenager ormai divenuti adulti in It: Capitolo due. Vi terremo aggiornati!

Lady Bird, di Greta Gerwig

Arriva nelle sale italiane dal 1° marzo 2018 uno dei migliori film americani del 2017: Lady Bird!

Il film d’esordio di Greta Gerwig, attrice di media fama, conosciuta più per aver interpretato e/o scritto alcuni film di Noah BaumBach [Mistress America, Frances Ha, Lo stravagante mondo di Greenberg] piuttosto che per aver preso parte a film più o meno di successo come Jackie o To Rome with love. A quanto pare, però, è una regista di sensibilità e intelligenza notevoli, così la sua commedia introspettiva si posiziona al primo posto nella classifica annuale della rivista Variety, finisce al 19° posto nella classifica dei 25 migliori film dell’anno secondo Sight & Sound e guadagna un onorevole 5° posto sul sito Rotten Tomatoes, che per fama non è mai prodigo di voti, nemmeno con pellicole di indubbio successo.

Scritto e diretto dalla stessa Gerwig, Lady Bird ha aperto la sezione Special Presentations al TIFF [Toronto International Film Festival] del 2017, ricevendo una standing ovation dal pubblico estasiato. In tutto il mondo ha ricevuto e riceve tuttora ottimi riscontri da parte anche della critica, riscontri che si sono tradotti in parecchi riconoscimenti tra cui 2 Golden Globe su quattro candidature e le cinque nomination agli Oscar® 2018: miglior film; miglior regista per Greta Gerwig; miglior attrice per Saoirse Ronan; miglior attrice non protagonista per Laurie Metcalf; migliore sceneggiatura originale. Realisticamente a pochissime chance, ma le sorprese possono verificarsi.

«Chiunque parli dell’edonismo californiano non ha mai trascorso un Natale a Sacramento [Joan Didion]».

Ambientato nella città di Sacramento, città natale della regista, Lady Bird racconta un anno della vita di una teenager all’ultimo anno di high school (2002 – 2003), Christine MacPherson [Saoirse Ronan, Amabili resti, Brooklyn]. Christine vuole evadere dalla sua famiglia e dalle restrizioni della provincia americana in modo da avere la possibilità di costruire il proprio futuro in un college che sia lontano dall’asfissiante realtà in cui vive tutti i giorni. Ama farsi chiamare “Lady Bird”, proprio per una più o meno consapevole voglia di spiccare il volo e andarsene via per lasciarsi tutto alle spalle: la città, gli amici, l’amore, la famiglia. Christine vive un periodo di ribellione e contrasto nei confronti dell’autorità e di quanto la vita sembra offrirle e cambiare il nome è un primo atto di emancipazione. Lady Bird desidera l’avventura, vorrebbe «vivere qualcosa di memorabile», l’amore che cambia la vita, un’università di alto livello e frequentata da persone “strafighe”, persegue la raffinatezza o l’eccentricità, tutto pur di farsi notare, e pretende l’opportunità che l’America dovrebbe offrire a ognuno, ma non trova nulla di tutto questo né nel suo liceo cattolico né in tutta la città di Sacramento.

«Odio la California! Preferisco la East Coast»

Ad essere perennemente sotto esame per Christine è il suo rapporto con gli altri, sempre troppo patetici e problematici per una ragazza che sente di meritare di più. Si sente relegata «dal lato sbagliato della ferrovia» e sogna di abbandonare la sua bassa estrazione sociale guadagnandosi un posto migliore nei quartieri alti, poco importa se le sue azioni possono rovinare le sue più antiche amicizie o mortificare ogni dinamica familiare. In questo contesto di ribellione e ansia da prestazione, è soprattutto il rapporto di amore/odio con la madre, la sorprendente Laurie Metcalf [Io e zio Buck, Pappa e ciccia], a tessere la ragnatela di riflessioni psicologiche più fitta. Le due alternano momenti di amorevole tenerezza e gesti d’affetto a periodi di attriti continui e conversazioni asettiche da diplomatici internazionali in tempo di guerra fredda. L’incipit del film è proprio una loro discussione in macchina dopo aver ascoltato Furore di John Steinbeck e la conclusione del diverbio è a dir poco originale ed esilarante.

Questo tipo di spaccati sociali tipici del panorama indie sono da sempre amati dal pubblico americano e dalla critica autorevole delle kermesse cinematografiche, perché raccontano e riflettono una società più vicina alla realtà dello spettatore medio. Nel corso degli anni la differenza tra cinema mainstream e indie si è andata via via assottigliandosi e molte grosse case di produzione hanno investito nel settore con compagnie-satellite o hanno inglobato gli indipendenti originari, ma è bello vedere in Lady Bird quel coraggio di affrontare tematiche complesse come l’omosessualità, le angosce esistenziali, le droghe, la disoccupazione, le malattie, i rapporti difficili con la scuola o con la famiglia attraverso un registro drammatico-introspettivo che mal si abbina alla commerciabilità del prodotto film.

Lady Bird sembra continuare idealmente un viaggio psicanalitico a ritroso delle sceneggiature di Greta Gerwig: Frances Ha è la storia della fortuna altalenante di un’aspirante ballerina di 27 anni e Mistress America racconta l’esperienza poco emozionante di una matricola del college. Magari è presto per parlare di autorialità, ma la “ragazza” va tenuta d’occhio.

Nonostante una sceneggiatura spigliata, velatamente autobiografica, e una recitazione sentita, non si può dire che Lady Bird sia particolarmente curato dal punto di vista formale: non presenta un montaggio accattivante, originale o stilisticamente degno di nota; nemmeno la fotografia brilla e la musica si palesa quel tanto che occorre per alleggerire e commentare le scene. Ma allora, cosa di Lady Bird ha conquistato l’America e il resto del mondo, tanto da far inserire il film nella lista dei migliori film dell’anno o da renderlo meritevole di una statuetta o più agli Oscar® 2018? Pare che negli ultimi tempi sia molto in auge premiare chi segue il detto LESS IS MORE, da intendersi, ovviamente, non nell’interpretazione operata da Downsizing. Greta Gerwig scrive e dirige un’opera che fa dell’essenzialità il suo pregio più grande.


La trama scorre senza divagazioni sterili coinvolgendo gli spettatori, chi più chi meno, in una crisi esistenziale di fine adolescenza, nella quale risulta importante il percorso e non la meta finale, parafrasando la massima di Thomas Stearns Eliot. Il Nobel 1948 per la letteratura non è l’unico ad aver ispirato le riflessioni filosofiche della neoregista americana: l’intero viaggio esistenziale della protagonista richiama alla mente le riflessioni di Marcel Proust, “la scoperta non consiste nel cercare nuovi posti ma nel vedere con occhi diversi”, e di Seneca, per il quale “viaggiare e cambiare luogo infonde nuovo vigore alla mente”. Ma è citando Steinbeck nell’incipit che la regista fornisce la chiave per interpretare il film: L’uomo è un animale che vive d’abitudini. Si affeziona ai luoghi, detesta i cambiamenti. […] Ho finito per persuadermi che un uomo deve lasciarsi vivere. Prendere la vita come viene, e non cercare di modificarla.

«Alcuni non sono fatti per essere felici»

Nota a margine: il compositore di Se mi lasci ti cancello e Ubriaco d’amore, Jon Brion, ha curato la colonna sonora di Lady Bird inserendo anche brani tratti da musical di successo: Being alive [Company], Everybody says don’t [Anyone can whistle] e Giants in the sky [Into the Woods], tutte scritte da Stephen Sondheim, che ha anche composto il musical “Merrily we roll along” in cui si esibiscono Lady Bird e gli altri membri del corso di recitazione.

Fa parte del cast anche Timothée Chalamet, candidato all’Oscar® 2018 per il ruolo di Elio Perlman nel film Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino.

Maze runner – La rivelazione, di Wes Ball

Giunge a conclusione la saga cinematografica di uno dei romanzi young adult più seguiti della decade in corso. Ambientata in un futuro distopico, l’opera di James Dashner è stata adattata per il grande schermo dalla 20th Century Fox. Per mantenere una coerenza concettuale, fondamentale per la buona riuscita della trasposizione, il progetto è stato portato avanti sempre dal regista Wes Ball, che per il momento è conosciuto solo per i film della saga. Ma il soddisfacente lavoro di adattamento gli ha permesso di ricevere l’offerta di dirigere un’altra traduzione dalle pagine sfogliate alle immagini in movimento: il graphic novel Fall of Gods, un progetto crowfunding, lanciato nell’autunno del 2014 dallo studio creativo danese MOOD Visuals, che narra le gesta di un guerriero in un’epoca di guerre in cui gli dei della mitologia norrena sono scomparsi. Questo significa che non dirigerà la saga-prequel di Maze runner, già prenotata dalla Fox? è presto per dirlo.
Intanto, sicuramente, continuerà l’ormai inesorabile scempio dei titoli – per chi non lo sapesse Maze runner in origine è il titolo solo del primo volume – e di alcuni elementi importanti della trama, tradotti in maniera improbabile per venire incontro al grande pubblico: la malvagia società W.I.C.K.E.D. diventa la C.A.T.T.I.V.O. nell’edizione italiana dei romanzi, ma per fortuna il film e, con grande coraggio, il doppiaggio italiano adotta il termine W.C.K.D. molto più performante. Grazie!

Tornando al presente, Maze runner – La rivelazione [titolo originale The Death Cure] è, come dicevamo, il terzo ed ultimo capitolo della saga originaria, lungamente atteso dai fan. In seguito al grave incidente occorso al protagonista Dylan O’Brien proprio sul set, infatti, l’uscita del film, prevista dalla produzione per il 17 febbraio 2017, è stata posticipata inizialmente al 12 gennaio 2018 e poi posticipata ancora al 26 Gennaio negli Stati Uniti e al 1° Febbraio in Italia. Giusto riconoscere la tempra di O’Brien attore che, alla luce di quanto avvenuto, risulta uno dei pochissimi personaggi stoici di un panorama cinematografico infarcito di bellini sempre più pompati ma sempre meno avvezzi agli sforzi atletici e ai rischi del mestiere. Applausi!

Nel nuovo film, le vicende di Thomas [Dylan O’Brien, American assassin, Deepwater – Inferno sull’oceano] e delle altre cavie umane sopravvissute al “parco esperimenti” della WCKD riprendono da dove si erano interrotte in Maze runner – La fuga. Teresa [Kaya Scodelario, Moon, Pirati dei Caraibi- La vendetta di Salazar] aveva tradito i suoi “compagni” di viaggio per tornare al suo lavoro dietro ai microscopi e aveva permesso la cattura di molti immuni fra cui Minho [Ki Hong Lee, Wish upon, The public].

Proprio da una missione di salvataggio on the road parte il nuovo e ultimo capitolo della saga. Si tratta proprio della scena di assalto al convoglio blindato, stile western postapocalittico, che ha spedito O’Brien in ospedale e il regista, furbescamente, se la gioca subito, pronti via, tirando notevolmente su il tasso adrenalinico e spedendo subito il cuore dello spettatore al centro del nuovo gruppo di ribelli del Braccio Destro.

«Il tuo problema è che non riesci a lasciarti alle spalle qualcuno. Nemmeno quando dovresti».

Sacrificabili e cavie umane, con la loro rabbia e il loro desiderio chi di rivalsa, chi di vendetta e chi di salvezza, diventano il nuovo problema della WCKD. Thomas e gli altri Radurai intendono andare alla fonte del problema. La missione impossibile è penetrare all’interno dell’ultima città rimasta in piedi, sede dell’organizzazione, per liberare Minho e gli altri e ottenere le risposte alle loro legittime domande sull’epidemia, gli esperimenti e il presunto antidoto. Verità o bugie che siano, si celano dietro un nuovo dedalo di strade e palazzi (Blade Runner style ma senza pioggia o neve) protetti da mura altissime (stile World War Z). Nel frattempo gli Spaccati non stanno di certo a lustrarsi i denti con il nastro adesivo! E se Thomas e gli altri possono trovare una faglia nella difesa della città, quanto potranno metterci degli zombie affamati a fare altrettanto? A chi spetterà il dominio sulla Terra alla fine dei giochi?

«Vorrei potervi dire che I guai sono finiti»

L’allusione sottile alle mura di confine di Trump con il Messico ha il sapore nostalgico di quel cinema di fantascienza che sapeva narrare una storia e contemporaneamente celare un messaggio sotteso a smuovere le coscienze in maniera recondita, basti pensare a Essi vivono o La cosa di John Carpenter o ai morti viventi di Romero. Rispolverare questa vena moralistica non sarebbe male.

Dal punto di vista tecnico, invece, non si può passare sotto silenzio il lens flare sotto le luci al neon nelle scene di massa in città: se può essere visto come una scelta stilistica in un esterno giorno tenendo il riflesso della luce solare sulla lente sotto controllo, in questo specifico caso, il flare suona proprio come un errore non rilevato in fase di ripresa e camuffato in postproduzione. Male.

Tornando alla storia, il primo capitolo, Maze runner – Il labirinto, proponeva riflessioni filosofiche sul mito del buon selvaggio e sulla bestialità insita nella natura umana, sull’istinto di conservazione della specie anche a scapito di sacrifici umani, sulla crescita degli adolescenti, sulla concezione della vita come un gioco crudele, come un labirinto difficile da risolvere che rappresenta sia la fitta trama di relazioni sociali sia la complessità della mente umana. Ma tutto questo si perde, neanche gradualmente, nell’inutile seguito Maze runner – La fuga, che praticamente non fa che menare il can per l’aia, indisponendo e non poco lo spettatore.
Questa caduta nel vuoto, però, giova a Maze runner – La rivelazione che risulta ben al di sopra delle aspettative, pur presentando difetti strutturali e tecnici palesi: nessuna necessità narrativa impellente giustifica l’abnorme durata; la sceneggiatura risulta scontata per colpa dei soliti cliché che il genere young adult volenti o nolenti si porta con sé, croce e delizia a seconda dei gusti (La quinta onda, Hunger Games); a parte un paio di svolte inaspettate che, però, sono colpi bassi al patto di credibilità con lo spettatore (per non spoilerare bisogna accontentarsi di un “chi non muore si rivede”!), la trama si dipana risolvendo problemi in maniera troppo facile e banale o con stratagemmi visti e rivisti.

Maze runner – La rivelazione ha, però, il merito di concludere dignitosamente una storia che ha comunque interessato e tenuto con il fiato sospeso e che in fin dei conti si distacca dalla tipica adesione degli young adult all’archetipico nucleo narrativo del boy meets girl per privilegiare lo splendore dell’amicizia, corredata da valori come lealtà, spirito di sacrificio, altruismo, comunione d’intenti e condivisione di qualsiasi sorte. Una rivalutazione di valori che tentano di risollevare le sorti della trilogia senza, però, spingersi mai verso un’epicità formale, a cui le generazioni che rappresentano il target fondamentale sarebbero probabilmente allergiche.

Nel cast molti attori che i fan di Game of Thrones conoscono benissimo: Thomas Brodie-Sangster è Newt, Aidan Gillen interpreta il perfido Janson e la bellissima Nathalie Emmanuel, già presente nel secondo capitolo, è Harriet. A completare il cast altri volti noti: oltre al nuovo personaggio di Lawrence, che Walton Goggins interpreta magnificamente inossando uno stupendo make up che lo rende quasi irriconoscibile, i veterani Barry Pepper, Giancarlo Esposito, Patricia Clarkson e la starlet Rosa Salazar (Brenda), che sarà la protagonista di Alita – Angelo della battaglia, trasposizione del famosissimo manga diretta da Robert Rodriguez.