Terry Gilliam

L’uomo che uccise Don Chisciotte, di Terry Gilliam

L’uomo che uccise Don Chisciotte è la rilettura del capolavoro della letteratura spagnola attraverso l’ottica grandangolare di Terry Gilliam. La sua creatività lucida e ludica – se mi passate questo facile anagramma, che è più uno scambio di consonante – ha creato col tempo, molto tempo, quasi 25 anni, una storia surreale e grottesca, un film che è un inusuale connubio di visionario e concreto: la realtà che sa illudere più della fantasia, la quale compenetra la vita reale fino a trasformarla e successivamente negarla per diventare infine rappresentazione morale dell’uomo moderno, o forse più postmoderno.

L’uomo che uccise Don Chisciotte, oggi, è un film ben diverso da quello progettato nella prima produzione andata a rotoli nel 2000. Anche se è rimasto un piccolo nucleo tematico vagamente riconducibile al romanzo Un americano alla corte di Re Artù di Mark Twain con cui era stato creato un incantevole mash-up, nella nuova produzione, arrivata dopo varie vicissitudini su cui si è speculato tanto da far capire la differenza tra “recensione” analitica e “critica” immotivatamente distruttiva.

Don Chisciotte

A lungo è stato il film che sembrava non dover mai veder la luce nel buio della sala, pertanto non poteva che meritarsi, da parte mia, una recensione che sembrava non poter essere messa nero su bianco per veder la luce del vostro schermo retroilluminato. Credo che nessuno degli addetti ai lavori possa dissentire, quantomeno per empatia: varie peripezie mi hanno portato a riprendere gli appunti, rivedere la pellicola e ragionare di nuovo a freddo sulle tematiche. Devo dire che la stratificazione dei significanti è tale da richiedere visioni successive e questo accade solo con film profondamente interessanti. Da Terry Gilliam non ci si poteva aspettare niente di più e niente di meno.

«Ho capito subito che nella sceneggiatura c’erano più livelli da scoprire, e in più era anche molto divertente. Era un modo originale di raccontare la storia di Don Chisciotte, mostrandola da una certa angolazione. L’ho trovata geniale.»

Adam Driver
Un assaggio dello storyboard del film lo trovate sul sito di Pablo Buratti

Come già aveva fatto Cervantes, Gilliam gioca con gli specchi e i simulacri, comunica attraverso le allegorie e lascia libera l’interpretazione del messaggio morale se sia la realtà a “uccidere” ogni illusione o se vivere sognando possa in qualche maniera far digerire la cinicità del quotidiano e lasciar sopravvivere ciò che di epico e cavalleresco ci sia in ognuno di noi.

A tal proposito, è illuminata la scelta di spostare l’attenzione del protagonista dalla ricerca di una vita valorosa come cavaliere errante al sogno condiviso dei personaggi principali di sfondare nel mondo del cinema, la macchina delle illusioni per eccellenza. Solo la mdp è reale. Tutto ciò che è diverso da essa, ciò che riprende, ciò che produce, è comunque finzione, simulacro della realtà. Ma come si fa a non perdersi in essa quando la fascinazione è così suggestiva?

Quello de L’uomo che uccise Don Chisciotte è un magnifico modo per modernizzare la spinta iniziale che origina le avventure del cavaliere dalla triste figura, per immedesimare il pubblico di qualsiasi età, anche il gamer più appassionato che di realtà virtuale e illusione del reale può insegnare a chiunque per quanta ne divora, o ne è divorato.

Toby [Adam Driver: Blackkklansman, Star Wars: Gli ultimi Jedi], cinico e disilluso regista pubblicitario, trova una copia del suo film sperimentale di quando era un giovane studente idealista di cinema. Si tratta della sua personale rivisitazione del Don Chisciotte, girata in un pittoresco villaggio spagnolo, sfruttando riprese dal vivo e attori non professionisti, «per uscire dai cliché» (che poi, in realtà, è da sempre lo stereotipo più in voga tra gli esordienti), secondo uno stile smaccatamente neorealista. Il mondo dello show biz lo ha reso un insensibile arrogante egocentrico narcisista, ma partire alla riscoperta di quel nostalgico passato lo porta ad incontrare quel vecchio calzolaio, Javier [Jonathan Pryce: Brazil, The wife – Vivere nell’ombra], che era diventato il suo protagonista e che non è mai più riuscito ad uscire dalla parte.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Ma il suo piccolo e modesto film non ha finito di provocare sventure: come altri del posto – Los Sueños è il nome del paesello (ammicco!) – anche Toby dovrà assecondare il redivivo “cavaliere dalla triste figura” che lo ha eletto suo fedele scudiero e così facendo ritroverà perfino un amore dimenticato, la dolce Angelica [Joana Ribeiro], non più “donna angelicata”, ma anch’essa vittima della situazione e corrotta dal desiderio di gloria, fama e ricchezze.

La convivenza con la fantasia sfrenata di Javier gli fa perdere l’aderenza con la realtà fino a viaggiare al suo fianco fra tornei cavallereschi improvvisati, giganti da sconfiggere, donzelle da salvare, cattivi da uccidere e grandi imprese da compiere per rinnovare gli antichi valori perduti di un’epoca fantastica in tutti i sensi.

Follia. Amore e morte. Eros e Thanatos. Follie d’amore. Amore per i classici. Amore e passione. Passione per il cinema.

Tematiche che Gilliam riesce nell’intento di racchiuderle in scatole intrecciate e comunicanti in un intricato gioco di intarsi che si uniscono e danno vita a nuove riflessioni che s’incastrano in un flusso continuo simile alle famose scale di Escher.

Questo straniamento dalla realtà, in un percorso onirico che porta alla luce sogni e rimossi freudiani, insieme al suo contrario, la contaminazione del fantasy con elementi della realtà, è un tema ricorrente nella sua filmografia: Brazil, Tideland, Le avventure del Barone di Munchausen, L’esercito delle 12 scimmie, Time bandits, The Zero Theorem, Parnassus.

Tutti questi ribaltamenti trovano il contraltare nel film che pubblico e critica hanno bollato quasi unanimemente come anomalia che va controcorrente al resto: I fratelli Grimm e l’incantevole strega. La verità è che in quel diverso contesto, dove è chiara la matrice fiabesca, il regista va ad operare comunque un twist concettuale esplicitando le basi reali che, rielaborate dagli scrittori sottoforma di allegorie, portano proprio alla scrittura della fiaba. La coerenza del lavoro di contaminazione reciproca tra fantasia e realtà risulta ancora più evidente dopo L’uomo che uccise Don Chisciotte, e soprattutto sapendo che a questa trasposizione ci lavora da 25 anni.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Considerata nella sua totalità, la fase di produzione attraversa come un meteorite sconosciuto tutta la pazzesca filmografia del Monty Python regista. Quante volte Terry Gilliam deve aver sfiorato l’estinzione! Deve essersi davvero sentito un dinosauro se nel frattempo ha deciso di scrivere la sua autobiografia pre-postuma quando ha ancora così tanto da dire!

Di solito la si pubblica perché si è messo un punto. Quindi è l’ultimo film? È stato preso da megalomania? È furbo? Forse un po’, ma se t’incaponisci tutto questo tempo su un progetto fatto e disfatto talmente tante volte che sembra maledetto, forse non è furbo il termine che tutti penserebbero… Pazzo? Sì, forse è un vocabolo più calzante, ma se s’intende una follia buona, quella che va a braccetto con la creatività, quel caos interiore che fa partorire una stella capace di danzare.

A mio parere, l’autobiografia sancisce un traguardo raggiunto, come una maturità o una laurea e il film L’uomo che uccise Don Chisciotte rappresenta l’elaborato di fine corso. È mettere un punto su qualcosa che sembrava irrealizzabile. È celebrarne la riuscita in faccia a chi non voleva e tuttora bistratta per invidia. È mettere il punto e lasciare un’eredità per chi vuol capire e per chi verrà a scontrarsi con gli stessi problemi. Mi piace pensare che sia un punto ma che si possa voltar pagina e trovare nuove pagine bianche da riempire con la stessa passione, goliardia, fantasia e autoironia che sono per questo autore un marchio di fabbrica distintivo.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

«Credo che Terry abbia continuato a ritardare questo film solo per farmi invecchiare abbastanza da poter interpretare Don Chisciotte. E così è stato!»

Jonathan Pryce

Sono note a tutti ormai le vicissitudini che hanno portato a procrastinare le riprese del progetto iniziale, grazie al documentario Lost in La Mancia. Quello che però è poco noto è che pare che una maledizione aleggi sopra chiunque sia intenzionato a trasporre l’opera di Cervantes. Un nome su tutti: Orson Welles. L’idea del suo Don Quixote nasce nel 1955 mentre si trovava in Spagna per alcune riprese organizzate dalla RAI, ma durante la lavorazione, il regista ha visto dilatarsi la mole di girato ben oltre l’immaginabile fino a perderne probabilmente il nucleo tematico dominante e diventando uno, nessuno e centomila film possibile e, quindi, di fatto, impossibili. Oggi di tutto quel lavoro resta un mediometraggio montato da Jess Franco, che solo in una minima parte rende giustizia alla genialità di Welles. Da quello che si evince si trattava di un film fortemente sperimentale – come quello di Toby (ammicco ammicco!) – nelle intenzioni, un’opera con una forte connotazione metacinematografica – come l’opera di Gilliam – e con gli unici quattro attori lasciati completamente liberi di improvvisare.

Fortuna per tutti che la maledizione sia finita per L’uomo che uccise Don Chisciotte e che possiamo dire «Quixote vive». D’altronde, si sa, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi e così mi sembra giusto che la mente ingegnosa di Terry Gilliam abbia partorito, come Bugs Bunny, 1001 modi per ingannare il diavolo, meglio di Parnassus. È la scelta del titolo a scatenare questa riflessione, molto più della trama, annodata come un tappeto persiano tra sogno e realtà.

Non “Don Chisciotte” e nemmeno “Don Chisciotte” con un sottotitolo tipo “un’avventura ai confini del sogno” o “la maledizione del tristo cavaliere”… bensì L’uomo che uccise Don Chisciotte.

Ok, “Don Chisciotte” c’è, ma non puoi certo esimerti dal citarlo, sarebbe finezza d’altri tempi e poi il suo nome è una condensazione di immagini, un cluster che rappresenta più concetti per antonomasia.

Don Chisciotte è affetto da una sorta di sindrome di Stendhal: legge i classici nel Seicento e questo vuol dire che s’immedesima in personaggi epici che sono eroi dalle scintillanti armature che viaggiano nel mondo per renderlo migliore, lottando contro il Male, armati soprattutto di virtù cavalleresche che sono poi andate perse nel tempo con il progresso tecnologico. Don Chisciotte ne raccoglie l’eredità, fa suoi quei valori, li incarna, ma ostinandosi a portarli avanti in un mondo che non li riconosce più. Così diventa il diverso che non è omologato e che rifiuta di esserlo. Lo rifiuta a tal punto da aderire ad un mondo di fantasia che diviene la sua personale evasione. La condizione è talmente radicata in lui da non riuscire più nemmeno a separare ciò che è reale da ciò che è mera illusione. Perciò non è pazzo di per sé ma abbraccia la follia poiché è l’unica “realtà” in cui riconosce se stesso, in cui ama se stesso, e nel film di Gilliam questo concetto è strettamente legato a quello di eredità. È come se Don Chisciotte volesse insegnare a vivere a chi è intorno a lui scegliendo un destino tanto epico nella teoria quanto sfortuna nella pratica, piuttosto che morire dentro senza far nulla mentre la vita scorre secondo omologazione di un modello diffuso. La morte è, quindi, considerata parte del percorso intrapreso, la fine di un’avventura personale che potrebbe sancire l’inizio di un’altra storia per chi eredita quella “fortuna”.

Ma il vero enigma che rimane da risolvere è chi sia L’uomo che uccise Don Chisciotte – e probabilmente è anche giusto che il mistero rimanga tale per non lasciare la sfinge senza enigmi. Ma proviamo comunque a formulare qualche congettura dato che non genera nessuno spoiler. Il titolo del film è usato nella maniera ermetica di Ungaretti come un verso in più, per aggiungere significato al resto e moltiplicare le chiavi di lettura.

L’uomo che uccise Don Chisciotte

Dalla tematica del cinema in quanto macchina delle illusioni potremmo essere portati a pensare che sia stato quel “maledetto” film su Don Chisciotte ad “uccidere” l’identità del calzolaio Javier che è rimasto imprigionato nella parte e poi la passione e spontaneità del regista sperimentale Toby per mano della sua copia meschina ed egoista creata dal successo. Le promesse non mantenute, i desideri non esauditi, però, significherebbero una critica estremamente negativa del cinema prima che dello show biz, non certo nuova per Gilliam. Un messaggio non tanto diverso da quello de L’uomo delle stelle di Giuseppe Tornatore. Di nuovo “l’uomo” nel titolo, quasi a voler sottolineare la fallacità umana, a voler attribuire ai comportamenti delle persone le magagne di un’industria cinematografica che sappiamo benissimo quanto sappia investire sul personaggio che rappresenta la moda del momento e non accordare finanziamenti per un progetto culturalmente di interesse nazionale e internazionale come L’uomo che uccise Don Chisciotte.

Chi altro può aver ucciso Don Chisciotte? È possibile si tratti dell’uomo in generale. L’uomo moderno ha ucciso l’hidalgo di Cervantes dal momento che ha abbandonato i valori che lui amava. L’uomo postmoderno, come potrebbe essere Toby insieme al suo entourage, potrebbe aver ucciso l’opera dimenticandone la lezione di vita e preferendo l’ambizione di gloria, fama e ricchezze.

Il gitano viene chiamato “Diaz ex machina” negli end credits per alludere alla sua funzione

Oggi sono in tanti a riscoprire questo classico della letteratura e a proporne delle interpretazioni o a citarlo senza travisarne il messaggio. Dopo Gilliam, anche Galder Gaztelu-Urrutia ha voluto sfruttarne gli insegnamenti per caratterizzare il protagonista del suo Il buco. Se per la produzione spagnola si tratta di un parallelismo metaforico che risulta più politico-sociale, nel visionario Monty Python è la riflessione sulla condizione umana – sul senso della vita! – in tono poetico con spunti riguardanti il retaggio per i posteri, la sottile linea tratteggiata che separa il sogno dalla realtà e la “follia” dall’omologazione travestita da “normalità”, ma soprattutto su cosa si possa o si debba considerare leggendario. Il significato di questo usatissimo gerundio latino, leggenda, è “le cose che sono da leggere”, degne di essere lette. E chi lo decide cosa è degno di entrare nella leggenda? Ormai troppo spesso questo compito è affidato alla moda o all’eccentricità piuttosto che all’esemplarità di pensiero e azione. Se anche voi confrontate con disprezzo i cartoni animati di oggi, privi di messaggi e valori, con quelli degli anni ‘70/’80, forse fin troppo da adulti a volte, allora sapete quanto possa essere attuale il nucleo tematico del Don Chisciotte e quanto sia geniale Gilliam ad averlo attualizzato in una critica allo show business.

E ad incaponirsi a finirlo ne aveva ben donde!

«Penso che il problema di Don Chisciotte sia che quando ti appassioni a questo personaggio e a quello che rappresenta, diventi tu stesso Don Chisciotte. Ti muovi nella follia, determinato a trasformare la realtà nel modo in cui la immagini. Ma che, ovviamente, si rivela molto diversa.»

Terry Gilliam
L’uomo che uccise Don Chisciotte

Infine, un fanatico di cinema classico potrebbe riconoscere una certa assonanza di titoli con uno dei migliori film di John Ford: L’uomo che uccise Liberty Valance. Un western più che crepuscolare dove un John Wayne in grande spolvero interpreta un cowboy solitario che lascia in eredità un west da rivoluzionare all’avvocato James Stewart. Costui non è di certo un pistolero provetto, ma di sicuro ha le qualità per essere un “cavaliere senza macchia e senza paura”, una figura positiva molto più utile per un nuovo mondo in cui sono la legge e l’inchiostro non il piombo dei proiettili a compiere imprese eroiche. Come il Don Chisciotte di Cervantes e di Terry Gilliam il personaggio interpretato magistralmente da John Wayne risulta fuori luogo e fuori (dal) tempo in un’epoca di innovazione politica e sociale. Come Don Chisciotte rimane un nostalgico amante dei bei tempi andati e quando i tempi cambiano in nome del progresso o ci si eclissa con loro in silenzio e solitudine o si può lasciar spazio al giovane lasciandogli in eredità un messaggio indimenticabile, immortale come una leggenda che sa andare al di là di ogni menzogna, oltre ogni illusione, verso un orizzonte che è al tramonto per qualcuno e all’alba per chi verrà dopo.

Come ne L’uomo che uccise Don Chisciotte e in Cervantes, nel metawestern di Ford svelare la menzogna non comporta di rendere pubblica la verità, che resta il fardello di un eroe incompreso per sempre.

«Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda».

L’uomo che uccise Don Chisciotte

In una realtà senza paladini, l’eroe appartiene al mondo dei sogni, non può che venire dal paese di Los Sueños e lì tornare, come un eterno Peter Pan in una Neverland dove si può essere indifferentemente bambini sperduti o leggende viventi: tutto dipende da quanto si è giovani dentro, da quanto si riesce ancora a sognare ed essere felici, di ciò che si ha e di ciò che si è.

Anche le mie parole non rimarranno immortali, per quanto lette, rilette, amate, odiate, capite ma non comprese; ve ne dimenticherete perché così è la vita, non ve ne dovete rammaricare se non me ne rammarico io. Ma se c’è un piccolo granello di sabbia splendente che vi rimane nel cuore, è proprio per quel momento di evasione che vi si è offerto. Un pensiero felice e puoi volare.

Grazie, Terry!

L’uomo che uccise Don Chisciotte

The Zero Theorem, di Terry Gilliam

Se ne potrebbero scrivere di tesi su The Zero Theorem! E ognuna metterebbe l’accento su di una peculiarità diversa del film, ognuna avrebbe probabilmente un enunciato sorprendente e potrebbe toccare materie che vanno dalla semiotica all’antropologia, dall’estetica alla filosofia del linguaggio, dall’ontologia alla teologia. Si può partire dalla filmografia del geniale Terry Gilliam e cercare i fili rossi che interconnettono le sue opere o si possono evidenziare tratti comuni e differenze con altri registi che hanno trattato l’argomento “senso della vita” secondo stili e modalità “completamente differenti”.

«È tutta una questione di fili… Non puoi fare niente se sei disconnesso».

Fin da subito The Zero Theorem appare come un rebus da risolvere, un dedalo sofisticato che affascina e che non dà possibilità di distrazione, un enigma che, se non si osserva con attenzione, potrebbe sfuggire di mano ed essere travisato.

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Bellissimo trip mentale, criptico come nessun altro Gilliam. Non si poteva scrivere una recensione a caldo, di getto, senza rielaborare come in un sogno. Siamo ai livelli di The mountain, il capolavoro di Aronofsky, il che potrebbe essere un monito per i molti che non l’hanno capito! Sin dai primi passi del protagonista nel mondo in cui vive, la sensazione che si ha è di trovarsi catapultati in un Brazil variopinto e straniante, ma molto maturo, la naturale evoluzione di quel sogno premonitore, una sorta di pazzia lucida che si fa rivelatrice di verità assolute.

Dall’incipit, con un preciso movimento di macchina che asseconda il moto di rotazione di un buco nero, sino ai titoli di coda, che seguono un finale bellissimo e indimenticabile, a cui va aggiunto il significativo epilogo oltre i titoli di coda, lo spettatore è immerso in un mondo solo all’apparenza distopico, ma che è invece simulacro della nostra realtà, allegoria di uno status sociale che potrebbe verificarsi, satira a tratti anche feroce di una generazione che sta perdendo il contatto con la realtà che gli sta veramente intorno per immergersi in una tecnologia che solo in parte, e a volte solo apparentemente, risponde all’innato bisogno di vivere in società.

Ad una festa, tipicamente fonte di socializzazione, l'unico che fa conversazione è l'asociale Qohen, mentre tutti sono "socialmente" impegnati a ballare con i loro dispositivi mobili
Ad una festa, tipicamente fonte di socializzazione, l’unico che fa conversazione è l’asociale Qohen, mentre tutti sono “socialmente” impegnati a ballare con i loro dispositivi mobili

«Viviamo in un mondo caotico e confuso. Così tante scelte. Così poco tempo. Di che abbiamo bisogno? Chi dobbiamo amare? Cosa ci regala gioia? Mancom. Diamo senso alle cose belle della vita. “Società senza confini”».

Gli elementi della sfera onirica portano lo spettatore a pensare all’ennesima “sorpresa” da stato alterato di coscienza, ma invece Gilliam si diverte a giocare con le nostre aspettative, ci mette lì dei “MacGuffin” da seguire mentre ci porta per mano verso riflessioni sulla vita, la morte, l’effimero, la fede in qualcosa che dia senso ad un’esistenza, che si tratti di numeri o di qualcosa di soprannaturale. Siamo tutti espedienti narrativi come il “MacGuffin”, di irrilevante importanza ai fini della comprensione dell’universo, ma pura distrazione per fornire dinamicità alla storia del mondo? O siamo strumenti di un grande progetto pronti a rispondere ad una chiamata che ci dia l’istruzione per un twist meraviglioso quanto inaspettato, la stessa chiamata che ossessiona il protagonista di The Zero Theorem: Qohen Leth [intepretato dal due volte premio Oscar® Christoph Waltz]? Un’ulteriore visione fatalistica è veicolata dal responso di un medico della Divisione Patologica, interpellata dal protagonista che ha una sensazione di morte imminente, tipica dei soggetti che, come lui, hanno mille paure, crisi di panico e non hanno più memoria di momenti felici: «Non sta morendo. Anche se dal momento della nascita corriamo tutti verso la morte. La chiami… Il piano divino dell’obsolescenza. Prima o poi, mendicante o re, la morte è la fine di tutto. La vita potrebbe esser vista come un virus che infetta un organismo perfetto fino alla morte».

La Rete Neuronale Mancrive ha, non a caso, una struttura molto simile al monastero tibetano dove abitava Parnassus fino al momento della scommessa con il Diavolo
La Rete Neuronale Mancrive ha, non a caso, una struttura molto simile al monastero tibetano dove abitava Parnassus fino al momento della scommessa con il Diavolo

Gilliam trionfa laddove gli allora fratelli Wachowski, ora felicemente sorelle, hanno fallito con la trilogia di Matrix: le loro scivolate nell’autocompiacimento delle citazioni carrolliane, gli estenuanti combattimenti coreografici allungati a dismisura da rallenty insistiti ed il legame con Akira, il capolavoro di Katsuhiro Otomo, prezioso riferimento quanto impedimento ad una creatività effettivamente originale. Dentro la matrice, come dentro lo specchio, la realtà dietro la menzogna, l’inevitabile fede in qualcosa di trascendente e l’illusione di trovare le risposte, la ricerca di una verità che diventa conoscenza di sé, come sentenziava l’Oracolo di Delphi, e la volontà dell’uomo di andare oltre i suoi limiti e di lottare per ottenere la felicità meritata. Tutto questo è alla base di The Zero Theorem, o meglio del racconto breve The call [“la chiamata”], scritto nel 1999 da Pat Ruskin, un insegnante di scrittura creativa alla University of Central Florida, liberamente ispiratosi al Qoelet o Libro degli Ecclesiasti, sezione della Bibbia che verte sul lamento di un uomo che ha trascorso tutta l’esistenza a porsi domande sulla vita, sul suo senso, su cosa rappresenta morire e su quanto possa esserci dopo la morte. Il Libro degli Ecclesiasti in ebraico è Qohèlet, dal nome del presunto autore, sulla cui falsariga è stato ideato il nome del protagonista del film, che fornisce una prima chiave di lettura dell’opera. Un’altra evidente traccia per la soluzione dell’enigma è data dal reiterato ascolto di una canzone: si tratta di Creep dei Radiohead, il cui testo si fa portavoce della coscienza di Qohen Leth e la spiegazione-riassunto della trama principale, lasciando allo spettatore il compito di interpretare chi sia l’“angelo” e chi, nel film, sia veramente l’essere “alienato” [weirdo] e “repellente” [creep] di cui si parla.

«Attento a ciò che desideri».

I forti contrasti degli elementi scenici comunicano il divario tra mondi interiori e volontà nettamente diverse. Un richiamo a Blade Runner?
I forti contrasti degli elementi scenici comunicano il divario tra mondi interiori e volontà nettamente diverse. Un richiamo a Blade Runner?

Qohen Leth [Christoph Waltz] è un operatore di computer di enorme talento, che lavora per la Mancom, una corporazione che controlla il mondo caotico e opprimente dell’ “uomo comune” per vendergli prodotti di cui probabilmente non avrebbe bisogno. Qohen è «il più produttivo degli analisti numerici della Divisione Ricerca Ontologica» che lavora «con dati esoterici che hanno vita propria e sono sostanzialmente più complicati dei numeri». Superato questo scoglio-macguffin che introduce il setting in cui opereranno i personaggi, lo spettatore può sentirsi “libero” di immedesimarsi nelle riflessioni del protagonista, un eccentrico uomo completamente calvo, che fugge ogni relazione sociale non necessaria e vive quasi completamente isolato e in maniera spartana in una chiesa andata semidistrutta in un incendio e rivenduta da una compagnia di assicurazioni. Tutto intorno a lui gli è alieno e lo fa sentire inadatto, fuoriposto, come il suo guardaroba smorto in un mondo in technicolor. A tal punto è preda di angosce esistenziali, paure ingiustificate, crisi di identità, panico e sensazione di morte imminente – drammi che sono tristemente diffusi già nel nostro presente ipertecnologico e ipersociale – che diventa ossessionato dall’attesa di una telefonata che possa dare un senso alla sua vita.

«La natura o l’origine della telefonata rimane un mistero. Ma non possiamo non sperare che ci fornirà uno scopo, dopo aver a lungo vissuto senza».

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Vista la sua richiesta di svolgere un lavoro da casa, la Direzione [Matt Damon] della Mancom, gli assegna l’arduo compito di dimostrare il Teorema Zero, un vero rompicapo che sembra voglia portarlo a pensare che nulla abbia senso nell’universo e che, quindi, qualsiasi sforzo dell’uomo di cambiare la sua situazione di base sia vano, pura illusione, un palliativo che tenga occupati nel lasso di tempo che separa la nascita dalla morte. Ma se Qohen non fosse un uomo comune? Se fosse la volontà che rende Qohen diverso dagli altri, ad essere lo strumento giusto per uscire da una gabbia dorata in cui tutti sono strumenti di un progetto che in realtà non è che un loop da cui non è permesso uscire, se non drasticamente? Sentimenti forti come l’amore e l’amicizia possono essere ancora il motore che possa innescare quel processo di cambiamento volontario di cui si ha bisogno per rompere le catene che costringono l’uomo comune a vivere come topi in trappola? Qohen è «solo un altro sballato in un mondo di sballati» come si dice in Paura e delirio a Las Vegas o, alla fine di tutto, come ne Le avventure del Barone di Munchausen, «tutti coloro che ne avevano la capacità e il talento vissero felici e contenti»?

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«Annoiato dal buddismo? Stanco di Scientology? Allora la Chiesa del Batman redentore è la risposta!».

Per quanto riguarda le sottotrame, zeppe di allusioni più o meno esplicite (la distruzione dei dogmi classici e il cieco abbandono ad una qualsiasi fede possibile, compresa quella di un “Batman redentore” e la sostituzione dell’occhio divino con l’occhio scrutatore della telecamera di sorveglianza di matrice orwelliana) e figure retoriche molto significative (ad esempio, i topi, che rappresentano allegoricamente la condizione dell’uomo, recluso e in trappola, o la significativa ostinazione di due bambine di far volare un aquilone non aerodinamico), bisogna invece fare ricorso all’esperienza pregressa della filmologia di Terry Gilliam. Sono di nuovo presenti alcune tematiche care al visionario regista di Minneapolis: la satira sociale, sempre presente, in maniera più o meno intrinseca a seconda delle situazioni – innescata in tempi non sospetti dai Monty Python in forma di pesci ne Il senso della vita; la distorsione della realtà, che porta i personaggi a vivere avventure in un mondo che è diverso da quello reale e che spesso è frutto di un’alterazione di coscienza dei personaggi stessi come in Tideland, La leggenda del Re Pescatore o L’esercito delle 12 scimmie; l’eterna lotta tra il Bene e il Male vissuta in Parnassus, Time bandits, Jabberwocky, I fratelli Grimm, mentre ci si domanda dove iniziano l’illusione e il sogno e dove inizia la realtà, come in Brazil, ma in verità ovunque in Gilliam, anche nel The man who killed Don Quixote, le cui riprese inizieranno nell’ottobre 2016, finalmente.

«Il tuo stile di vita e’ la nostra priorità».

Come in Brazil si può notare un ciuccio tra gli arnesi del dottore in una delle scene finali, in The Zero Theorem è presente un altro elemento della sfera infantile: un biberon pieno di caramelle
Come in Brazil si può notare un ciuccio tra gli arnesi del dottore in una delle scene finali, in The Zero Theorem è presente un altro elemento della sfera infantile: un biberon pieno di caramelle

«I tuoi sogni sono i nostri sogni».

Girato interamente a Bucarest, con la Arricam Lite in 35 mm poi reso digitale in formato full screen da monitor di controllo, cioè con un’aspect ratio panoramica dagli angoli smussati, che suggeriscono un’artificiosità significativa all’immagine definitiva per l’intera durata del film [vedi epilogo], The Zero Theorem è ambientato in un futuro contaminato da elementi retro, in un non-luogo che va a rappresentare ogni possibile luogo in cui è presente l’umana specie e si fa strumento di meditazioni di carattere universale.

«Sono solo un uomo alla ricerca della verità».

L'insegna "Eats" è un chiaro riferimento a Lewis Carroll
L’insegna “Eats” è un chiaro riferimento a Lewis Carroll

The Zero Theorem è un’opera che farà discutere, cha ha bisogno di un pubblico che sappia sospendere il giudizio e abbia la pazienza di riflettere a posteriori. È un film che può dividere l’opinione pubblica, che può piacere o non piacere, ma chi lo valuterà subito in maniera negativa probabilmente è solo perché non lo ha capito.

«Hai mai avuto la sensazione che il mondo ti rida alle spalle? Che tutti nell’universo facciano parte di un grosso scherzo cosmico?  Tutti tranne te. L’unica ragione per cui non ridi è perché sei la battuta finale».

Una, nessuna e centomila interpretazioni, insomma, e la presente non ha pretese di ergersi a definitiva, in quanto molti spunti rimangono fuori dal discorso per necessità di sintesi e, comunque, l’ultima parola spetterebbe sempre all’autore che, come ci ha insegnato, dopo averlo incontrato in occasione dell’uscita di Parnassus, mischierebbe le carte perché, in fondo, un film è longevo se lascia spazio ad ulteriori riflessioni e, in questo caso, credetemi, potrebbe essere infinita, come l’universo… o forse no?

«Una taglia non va bene a tutti».

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